DIAGHITI (sp. Diaguitas)
Popolazione indigena del NO. argentino, oggi scomparsa, le cui prime notizie ci sono date dalla Relazione breve del padre Diego de Torres (Milano 1603). Pochi anni innanzi, peraltro, il padre Bárzana li aveva per primo visitati. Il nome Calchaquí, che ebbe in seguito tale fortuna da eclissare per lungo tempo la retta denominazione, è voce impropria introdotta per influenza del padre P. Lozano. I Diaghiti furono una popolazione sedentaria che al tempo della conquista spagnola si trovava insediata nel territorio montuoso . a oriente delle Ande, limitato al N. dall'altipiano detto Puna di Jujuy e a E. dal Chaco, mentre al S. si stendeva su parte delle attuali provincie di Córdoba, S. Juan e Mendoza. Benché si sia preteso isolare i caratteri specifici dei Diaghiti come unità razziale, sembra più opportuno, data l'esistenza nell'area suddetta di tribù evidentemente acculturate, considerare i Diaghiti come un complesso etnico del NO. argentino, dal punto di vista non solo della cultura, ma della lingua.
La lingua parlata dai Diaghiti fu il kakán, e il P. Bárzana ne aveva fatto una grammatica, la cui perdita ci lascia completamente all'oscuro su questo idioma oggi estinto, che solo sopravvive in alcune voci toponomastiche. È notevole che il kakán che era già apparso al Narvaez una "lingua generale" in via di estendersi verso la regione pianeggiante del sud, fu ben presto scalzato, dopo la conquista, dal quechua, adoperato dagli Europei quale lingua di colonizzazione, sì che alla fine del '600 era stato da esso del tutto sostituito..
La cultura materiale dei Diaghiti li definisce come una popolazione che utilizza ancora alcune piante silvestri, ma che esercita già l'agricoltura in grado piuttosto intenso (cucurbite, tuberi, fagioli e soprattutto il mais). Nei luoghi aridi le acque venivano raccolte con il sistema delle terrazze d'irrigazione; il lama era da essi allevato in mandrie e lo struzzo e alcuni gallinacei erano addomesticati. Le abitazioni erano di pietra: esistono ancora numerosissime opere in muratura di pietre arrotondate o piatte sovrapposte a secco (pirca), la cui sezione è rilevante, mentre in altezza non superano un metro; frequenti gli aggruppamenti di case abbastanza dense e fortificate (pukará), specie lungo le valli e in posizione dominante. Nella pietra i Diaghiti foggiavano mortai e pestelli, e numerosissime asce levigate con scanalatura per immanicarle; di terracotta, utensili da cucina, statuette, vasi cultuali e funerarî; di legno, cucchiai, idoli e le caratteristiche "tavolette d'offerta" con protomi sovrapposte, spesso geminate. Filavano e tessevano la lana del lama ottenendone ottime stoffe per le tuniche portate da uomini e donne, lunghe fino a mezza tibia; una fascia di lana o metallica cingeva la fronte, reggendo piume multicolori; calzavano sandali di cuoio.
Poco sappiamo della loro organizzazione sociale. Si accoglievano in qualità di mogli le spose del fratello morto, e in generale era praticata la poligamia, nel senso osservato presso i popoli a "gran famiglia". Chi sposava una donna, assumeva diritti maritali con tutte le sorelle di questa. Molte testimonianze ci pervennero circa l'esistenza di medici-stregoni, l'effettuazione di feste d'iniziazione dei puberi, orgie di raccolta (carrubba) e festini funebri. In alcuni luoghi della valle Calchaquí prima della sepoltura era in uso una prostasi del cadavere ed essiccamento in apposite piattaforme elevate, che il Du Toict interpretò per "sarcofagi sollevati da terra". La vera sepoltura, invece, si praticava o direttamente nella terra in posizione verticale, o, più spesso, in grotte, pozzi circolari e camere a vòlta (falsa) di muratura a secco, in posizione rannicchiata; talora, eccezionalmente, in ampî recipienti di terracotta con grande coperchio a campana. Le tombe, a volte interne nelle abitazioni, a volte formanti cimiteri, hanno spesso un corredo funerario, di vasi infranti o forati intenzionalmente, per la proiezione magica nell'al di là, cui i Diaghiti credevano, stimando che i defunti migrassero nel firmamento. I corpi dei fanciulli si sotterravano invece in urne di terracotta in luoghi speciali, e spesso in gruppi il cui insieme costituiva particolari cimiteri infantili distinti da quelli degli adulti. I corpicini erano forse oggetto di pratiche magiche, e forse era praticato l'infanticidio rituale. Le urne da seppellire fanciulli sono ornate nel ventre di dipinti di complicato sviluppo, ma tutte nel collo lasciano vedere una figurazione principale di viso umano stilizzato secondo uno schema che è comune nei disegni indigeni del Messico, del Perù e delle isole dell'Oceano Pacifico, specie Rapa-nui (Isole della Pasqua).
La questione più dibattuta intorno ai Diaghiti è quella della loro dipendenza culturale dal vicino Perù, asserita da alcuni, da altri negata. Eric Boman sostenne che la civiltà dei Diaghiti deriva quasi per intero dalla peruviana. L'errore contenuto in questo giudizio dipende dall'aver collocato sullo stesso piano tutti gli elementi dell'archeologia della regione, senza distinzione degli strati seriori. Ora è vero, per es., che terrazze d'irrigazione, monticoli di pietra detti apacheta, vasi apodi detti impropriamente ariballi, strade mulattiere con i loro tambos, e oggetti connessi con il culto solare, sono in stretta dipendenza con le analoghe forme del Perù; ma restano pur sempre alcuni elementi importanti, come campane, dischi e adorni pettorali, asce a uncino, "tavolette d'offerta", sepoltura in urne e cimiteri infantili, che non sono riducibili a invenzioni peruviane. Già J. B. Ambrosetti aveva affermato l'originalità del fondo della cultura diaghita, che gli parve poter avvicinare a quella dei Pueblos dell'America del Nord, seguito in ciò da H. Ten Kate. In Argentina non ebbe favore questo punto di vista, cui il Boman obiettò che occorreva spiegare le ragioni d'un isolamento spaziale che sembrava assoluto. Oggi invece comincia, per alcuni, a delinearsi l'esistenza d'uno strato di cultura più o meno omogeneo, che copre gran parte dell'America del Sud occidentale, riferibile appunto alla fase che rappresentano i Pueblos, e anteriore allo svolgersi delle influenze irradiate da Cuzco, strato che nello stesso Perù forma il piedistallo dell'epoca classica. L'idea d'una tale civiltà più antica e primitiva, distesa su di un'area molto ampia, benché localmente atteggiata a diverse facies, è rafforzata dalla scoperta avvenuta nel 1929, di una cultura del Chaco molto affine. J. Imbelloni ha apportato a questo problema la controprova della deformazione artificiale cranica, il cui modello (antero-posteriore eretto) domina tutta l'area di detta cultura antica (non solo fra i Diaghiti, ma nel Chaco preistorico, Chincha, Yuna, ecc.) per riapparire nel trapezio nordamericano dei fiumi Colorado, Gila e Río Grande.
Bibl.: E. Boman, Antiquités de la région Andine de la R. Argentine, Parigi 1908-10; J. B. Ambrosetti, Opere varie (v. la bibl. in Journal de la Soc. des Américanistes de Paris, XII, 1920); H. Ten Kate, Anthropol. des anc. Calchaquis, La Plata 1896; F. F. Outes, Alfarerías del Noroeste Argentino, La Plata 1907.