Diagnosi
Diagnosi (dal greco διάγνωσις, dal tema di διαγιγνώσκω, "riconoscere attraverso") indica estensivamente il giudizio con cui si definisce un fenomeno in genere, analizzando i sintomi e gli aspetti con cui si manifesta. In medicina indica il giudizio clinico che mira a identificare una condizione morbosa con uno dei quadri descritti in patologia.
di Cesare Scandellari
l. Fasi del procedimento diagnostico
Il termine diagnosi è prevalentemente, ma non esclusivamente, usato in campo clinico per indicare il procedimento mediante il quale il medico cerca di stabilire il tipo di malattia che affligge un determinato paziente. In questo senso, si può dire con un grande clinico dell'inizio del secolo, A. Murri, che il procedimento diagnostico consiste nel 'ri-conoscere' nel paziente un quadro morboso già noto, piuttosto che nel venire a 'conoscere' cose nuove. In termini diversi, ma sostanzialmente equivalenti, la diagnosi è la classificazione di un malato entro uno schema nosologico noto. Questa precisazione, solo in apparenza oziosa, mette in luce aspetti metodologici non irrilevanti. Il riconoscimento del quadro morboso può ottenersi secondo due modalità fondamentali. La prima consiste nel collegare tra loro, secondo rapporti di causa-effetto, i diversi eventi patologici rilevabili nel paziente, pervenendo, attraverso tale ricostruzione, al riconoscimento di un'entità morbosa nota: si parla in questo caso di diagnosi fisiopatologica. La seconda modalità, più frequente, consiste nel riconoscere la malattia presente nel paziente attraverso il confronto dei sintomi o rilievi clinici osservati - non necessariamente messi tra loro in rapporto di causa-effetto - con quelli caratteristici di un determinato quadro morboso: si parla in questo caso di diagnosi nosografica. Già da questi cenni iniziali risulta evidente che il percorso razionale con cui il clinico giunge alle sue conclusioni e alla formulazione della diagnosi non è un procedimento sempre uguale e può prevedere vie diverse. Ciò nonostante, è possibile delineare un procedimento standard, utilizzato specialmente nei casi più complessi, al quale possono essere ricondotti gli altri percorsi ragionativi di cui il medico si avvale nelle diverse occasioni. Il procedimento diagnostico tradizionale si svolge secondo le seguenti tappe: 1) raccolta delle informazioni e dei rilievi preliminari; 2) formulazione delle ipotesi esplicative preliminari; 3) ricerca dei rilievi e delle informazioni probative; 4) valutazione comparativa dell'affidabilità delle ipotesi diagnostiche o valutazione delle probabilità post-test delle ipotesi; 5) formulazione della diagnosi finale. La raccolta delle informazioni e dei rilievi preliminari si compie sia con l'interrogatorio del paziente (indagine anamnestica), che riguarda, oltre alle notizie relative ai disturbi attuali (anamnesi patologica prossima) anche quelle inerenti all'ambiente familiare, alla vita normale o ai trascorsi patologici (anamnesi familiare, fisiologica e patologica remota), sia con la visita del paziente (esame obiettivo).
La seconda fase, quella della formulazione delle ipotesi esplicative preliminari, si sovrappone, in parte, alla precedente. Man mano che il clinico apprende notizie o osserva rilievi peculiari, inizia a prefigurarsi un possibile stato morboso caratterizzato dai fenomeni che sta apprendendo od osservando. Alla fine del suo esame iniziale, comunque, egli deve richiamare alla mente tutte le malattie che possano spiegare, in qualche modo, parte o tutti i disturbi lamentati dal paziente e le alterazioni obiettive da lui presentate. Sono queste le ipotesi esplicative iniziali, in base alle quali il clinico dovrà decidere le operazioni che dovrà compiere successivamente. Ogni ipotesi preliminare presenta un suo grado di probabilità iniziale (plausibilità) che deve essere valutato già in questa fase, avendo valore ai fini di una decisione sulle ipotesi da sottoporre per prime ai controlli previsti per la fase successiva, anche se non sempre è possibile - o conveniente - riferirsi, per tale scelta, soltanto al criterio di maggiore o minore plausibilità. Il controllo delle ipotesi viene perseguito secondo due modalità principali. È possibile, da un lato, cercare elementi a favore dell'ipotesi sotto controllo, in modo da aumentarne la verosimiglianza fino a valori molto vicini alla certezza: questo procedimento è detto di 'corroborazione' o di 'conferma' dell'ipotesi. Dall'altro, si procede alla ricerca di elementi in grado di ridurre la credibilità dell'ipotesi fino a dimostrarne l'impossibità: si parla, in questo secondo caso, di 'confutazione' o 'esclusione' dell'ipotesi. È evidente che l'eliminazione di talune ipotesi rappresenta pur sempre un progresso nel procedimento diagnostico, poiché rafforza indirettamente la credibilità delle ipotesi concorrenti. In entrambe le eventualità al clinico necessitano ulteriori informazioni che, al contrario di quelle ottenute nella prima fase, devono essere ora mirate allo scopo prefisso. È la fase della ricerca dei rilievi e delle informazioni probative, che si traduce nella prescrizione di esami di laboratorio o di indagini strumentali. Appare evidente che la scelta delle ulteriori informazioni costituisce un momento molto significativo e per nulla automatico: affinché i risultati delle indagini possano costituire un efficace controllo di quanto si vuole verificare, è infatti necessario che il medico sappia valutare la quantità di informazione ricavabile dall'esame (contenuto informativo), tenendo conto, ancor prima di conoscere l'esito del test, sia della informazione che riceverebbe dall'esito positivo di questo, sia di quella che riceverebbe dal suo eventuale esito negativo.
Una volta che siano disponibili i risultati delle indagini prescritte e siano stati osservati ulteriori fatti inerenti a ricerche obiettive mirate o al decorso della malattia, il medico deve valutare comparativamente quanto sia variata la verosimiglianza delle singole ipotesi alla luce dei nuovi risultati. In termini tecnici questa fase viene detta di valutazione delle probabilità post-test delle ipotesi. Questo tipo di valutazione è reso molto complesso dal fatto che ogni risultato clinico positivo (cioè in accordo con l'ipotesi diagnostica sotto controllo), pur presentandosi prevalentemente negli individui effettivamente malati, può riscontrarsi anche in un certo numero di soggetti non portatori della malattia, costituendo quindi un cosiddetto errore 'falso positivo'. Analogamente, un risultato negativo (cioè contrario all'ipotesi sotto controllo) può presentarsi anche in un certo numero di soggetti effettivamente malati, costituendo quindi un cosiddetto errore 'falso negativo'. In questi casi il medico, per rendersi conto del reale valore segnaletico dei dati in suo possesso, deve pensare all'opportunità di controllare ripetutamente il dato o di eseguire controlli interni. Al termine di questa valutazione il clinico potrà constatare che delle sue ipotesi preliminari una è altamente verosimile, e quindi tale da essere considerata affidabile come diagnosi finale e da poter impostare su di essa le decisioni inerenti al trattamento del paziente; oppure può constatare che nessuna delle ipotesi formulate è ancora corroborata al punto di raggiungere un soddisfacente grado di affidabilità. In questo caso il clinico dovrà tornare alla fase precedente e procedere alla prescrizione di nuove indagini, sempre più mirate. La formulazione della diagnosi finale rappresenta l'obiettivo ultimo del procedimento. Occorre tuttavia rilevare che la diagnosi, anche quando è considerata conclusiva del procedimento, deve essere ritenuta sempre 'smentibile di principio'. È possibile infatti che successive osservazioni, specialmente quelle relative agli effetti della terapia o al decorso spontaneo della malattia, si dimostrino incompatibili con la diagnosi stessa. In tal caso il medico deve rinunciare a considerare vera la primitiva diagnosi, anche se era apparsa altamente confermata, e riconsiderare il procedimento diagnostico alla luce delle nuove osservazioni. In effetti, al di fuori delle occasioni in cui il medico si imbatta in rilievi clinici detti patognomonici, cioè caratteristici di una sola malattia, non esiste per la diagnosi clinica un criterio di verità capace di distinguere con assoluta certezza una conclusione diagnostica vera da una falsa. Un aspetto metodologico rilevante riguarda la completezza della diagnosi. Anche quando il medico è riuscito a classificare correttamente il malato come portatore di una determinata patologia (per es. l'ipertiroidismo), è possibile cercare ulteriori particolari in merito: tipo di malattia (ipertiroidismo primario? secondario?), causa della malattia (ipertiroidismo autoimmune? fattizio?) e così via. Una tale ricerca potrebbe essere condotta all'infinito: è necessario quindi stabilire un limite ragionevole dell'approfondimento diagnostico, limite che nella pratica clinica coincide con il grado di approfondimento oltre il quale le ulteriori informazioni risulterebbero incapaci di orientare in una direzione piuttosto che in un'altra il trattamento del paziente. Tutto ciò evidenzia come la diagnosi clinica possa essere sempre più o meno completa e che il suo obiettivo non sia tanto la ricerca del nuovo, quanto il riconoscimento di modelli già noti, non tanto la ricerca di una conoscenza finalizzata a sé stessa, quanto piuttosto di una conoscenza sufficiente a curare o a prendersi cura del paziente.
2.
In base alla descrizione precedente, il procedimento diagnostico appare lineare e ben definito nelle sue diverse fasi. Nella realtà clinica, tuttavia, è frequente il caso in cui il medico si discosti, per varie ragioni, da questo schema. Si consideri, per es., il procedimento seguito per malattie molto comuni e tendenti all'autorisoluzione, come l'influenza, o con sintomi molto specifici, come l'eruzione cutanea da herpes zoster, le cui diagnosi vengono di solito formulate direttamente su pochi sintomi soggettivi o obiettivi, senza ricorrere a indagini supplementari; oppure si consideri le situazioni di urgenza, come lo shock da emorragia digestiva, nelle quali la necessità di agire terapeuticamente richiede un intervento prima di poter formulare una diagnosi completa. Ma anche nel procedimento tipico la linearità dell'azione clinica è solo apparente. Molti interrogativi rimangono in sospeso: come ritenere efficace e completa la raccolta delle notizie e dei rilievi preliminari, quante e quali ipotesi diagnostiche preliminari siano necessarie per essere certi di comprendere tra esse quella che rappresenterà la diagnosi finale; come e secondo quali principi debba essere condotto il procedimento di controllo delle ipotesi; quale criterio (probabilità, semplicità, frequenza) vada privilegiato nella scelta della diagnosi finale o quali limiti di affidabilità siano da ritenere sufficienti per poter considerare provata la diagnosi. Tutti questi problemi fanno parte di una disciplina, la metodologia clinica, che è stata, a torto, piuttosto trascurata anche negli studi medici e solo recentemente valorizzata in modo più consono alla sua importanza. È sufficiente qui rilevare che la diversa risposta data nei singoli casi a questi interrogativi può far sì che lo svolgersi del procedimento diagnostico tradizionale si modifichi secondo approcci diversi. Tra questi si possono distinguere un approccio sistematico e uno sequenziale, un approccio ipotetico-deduttivo, o 'per esclusione', e uno ex adiuvantibus.
A parte vanno considerati poi alcuni tipi di analisi (più che modalità di svolgimento) del procedimento diagnostico, in particolare l'approccio bayesiano e quello decisionale.
L'approccio sistematico si fonda sul principio di considerare sempre tutte le possibili ipotesi esplicative, senza lasciarsi condizionare, nella ricerca di informazioni, da un'ipotesi preformata. Pertanto, le ipotesi preliminari dovrebbero essere formulate solo alla fine di una raccolta completa dei rilievi clinici ed essere ritenute tutte egualmente probabili e tutte necessitanti di approfondito controllo. Premessa indispensabile per questo approccio è la possibilità di portare a termine una raccolta dei rilievi clinici in modo sistematico e completo, tenendo presenti tutti i dati clinici disponibili. Teoricamente questo approccio è quello che offre le massime garanzie di sicurezza in quanto prescrive di non trascurare le minime possibilità interpretative, ma è evidente che il costo di tale strategia diagnostica è molto alto, sia per l'ampiezza delle indagini che esso comporta, sia soprattutto per i disagi cui andrebbe incontro il paziente sottoposto a una serie di esami non strettamente necessari. Per tali motivi il medico preferisce generalmente utilizzare approcci meno impegnativi, anche se a questo tipo di strategia egli è talora costretto a ricorrere, per es. quando altri approcci di più agile applicazione non siano sufficienti a portare a un risultato soddisfacente.
L'approccio sequenziale o algoritmico è basato sui cosiddetti alberi diagnostici o flow-charts. In questo tipo di procedimento il clinico utilizza schemi diagnostici approntati per i più frequenti problemi clinici e la cui costruzione può essere rigorosamente formalizzata in base a concetti derivati dalla teoria delle comunicazioni. Una loro caratteristica è rappresentata dal fatto che essi sono strutturati in modo tale per cui ogni indagine è prevista in base al risultato di un rilievo o di un test precedenti sicché non si può stabilire a priori quali e quanti esami verranno praticati al paziente, anche se è possibile farne una quantificazione media. Questa tecnica ha il vantaggio di ridurre al minimo, almeno in teoria, il numero medio di esami necessari alla soluzione del problema clinico e quindi di contenere i costi complessivi dell'intero procedimento diagnostico. Essa comporta, tuttavia, un allungamento dei tempi, in quanto le indagini da effettuare devono essere decise una per una in base ai risultati dei test intermedi. Inoltre, in questo approccio le conseguenze di un errore falso positivo o falso negativo risultano particolarmente rilevanti ai fini dell'esattezza della diagnosi finale, in quanto comportano, inevitabilmente, il passaggio dal ramo corretto dell'albero diagnostico a uno scorretto. Per tali motivi l'approccio sequenziale richiede un elevato numero di controlli, destinati a innalzare i costi diagnostici.
L'approccio ipotetico-deduttivo si fonda essenzialmente sul presupposto che non sono possibili osservazioni non guidate da ipotesi preesistenti e che la conoscenza si può ottenere non tanto dalla conferma delle ipotesi, quanto piuttosto dall'eliminazione di quelle che possono via via essere confutate, non reggendo alla prova dei fatti che emergono durante la fase di controllo. L'importanza di ricorrere alla confutazione delle ipotesi, anziché alla loro conferma, deriva dal principio dell'asimmetria logica tra conferma e confutazione. Tale principio, tuttavia, viene a perdere molta della sua validità a motivo della costante esposizione delle valutazioni cliniche al rischio di errori falsi positivi e falsi negativi. Con questo approccio, il clinico dovrebbe cominciare stabilendo, in base a pochi rilievi iniziali (che sono solitamente rappresentati dai principali disturbi esposti dal paziente), qual è il problema del paziente e quali ipotesi possono essere invocate per risolverlo. Ciascuna di queste ipotesi è quindi presa in considerazione e per ciascuna di esse, indipendentemente dalla sua plausibilità iniziale, deve essere immaginata e prescritta un'indagine clinica fornita di almeno un risultato in grado di dimostrare falsa l'ipotesi stessa. Per es., se il problema di un paziente fosse spiegabile con l'ipotesi di un'artrite reumatoide, dovrebbe essere subito prescritta la ricerca del fattore reumatoide poiché, nel caso in cui essa risultasse negativa, l'ipotesi di tale patologia potrebbe essere sicuramente esclusa. La progressiva eliminazione delle ipotesi che si sono dimostrate non vere ne farà infine emergere una capace di resistere a tutti i tentativi di confutazione: questa potrà essere allora considerata la diagnosi finale. Alternativamente, la progressiva eliminazione delle ipotesi che si sono provate smentibili in base ai controlli, ne lascerà una residua, la quale, anche se non confutata o confutabile per motivi tecnici, potrà essere considerata, comunque, in quanto ultima rimasta, l'ipotesi finale. In questo caso si parla anche di 'diagnosi per esclusione'.
L'approccio diagnostico ex adiuvantibus è riservato a casi particolari nei quali non possano essere eseguite indagini diagnostiche dirette. Esso si fonda sull'affermazione che se un paziente dimostra di ottenere la guarigione in seguito a una terapia specifica per una data malattia è ragionevole concludere che fosse affetto da tale malattia. Va notato che questo ragionamento è del tutto analogo a quello con cui il clinico è abituato a controllare, osservando il decorso della malattia, l'esattezza di una diagnosi comunque formulata (giudizio prognostico): nel procedimento ex adiuvantibus il ragionamento è utilizzato invece per giungere alla diagnosi piuttosto che al suo controllo a posteriori. Per es., qualora si osservi che un paziente con una lesione polmonare compatibile con la diagnosi di tumore o con quella di tubercolosi guarisce con un trattamento a base di streptomicina, terapia specifica per la tubercolosi, si potrà escludere la diagnosi di tumore e formulare la diagnosi di tubercolosi. Da un punto di vista logico è necessario ricordare che il ragionamento su cui si regge la conclusione diagnostica ex adiuvantibus risulta per principio viziato dalla cosiddetta 'fallacia dell'affermazione della conseguente' e quindi permette conclusioni di natura solo probabilistica. Il procedimento risulta invece del tutto valido se la terapia prescritta guarisce sempre ed esclusivamente la malattia considerata.
La fase diagnostica dedicata alla valutazione comparativa dell'affidabilità delle diverse ipotesi è spesso indicata come diagnosi differenziale. Tale confronto potrebbe essere svolto secondo diversi criteri: il criterio della semplicità della diagnosi, in base al quale è preferita l'ipotesi che da sola è in grado di spiegare il maggior numero di rilievi eseguiti sul paziente; il criterio di somiglianza, secondo il quale è preferito il quadro di malattia in cui è reperibile il maggior numero dei sintomi e segni clinici presentati dal paziente; il criterio di verosimiglianza, che è quello in cui i clinici fondano generalmente la loro analisi comparativa e nel quale viene preferita la diagnosi che risulta più probabile alla luce di tutti i rilievi e dei risultati delle indagini cliniche.
Per la misura della probabilità di un'ipotesi diagnostica viene utilizzata la cosiddetta regola, o teorema, di Bayes, che permette di calcolare il livello di probabilità post-test di un'ipotesi in base alla probabilità pre-test e al contenuto informativo del test stesso. Quest'ultimo può essere valutato a seconda dell'incidenza di errori falsi negativi (sensibilità del test) ed errori falsi positivi (specificità del test). L'utilizzazione in clinica di questi concetti giustifica l'uso del termine di diagnosi bayesiana. Secondo la diagnosi bayesiana ogni ipotesi esplicativa presenta fin dall'inizio del procedimento un livello di probabilità (probabilità iniziale o plausibilità dell'ipotesi) che va accrescendosi, o riducendosi, in seguito al risultato positivo, o negativo, di ciascuna informazione ottenuta dal clinico, attraverso l'anamnesi, l'esame obiettivo e i test prescritti. Ogni informazione, quindi, contribuisce alla formazione di una classifica di probabilità delle varie ipotesi concorrenti e, quando la probabilità di una di esse supera un determinato limite (limite di affidabilità) vicino o coincidente con il valore di certezza, questa viene considerata la diagnosi finale. Sull'effettiva corrispondenza tra procedimento clinico reale e procedimento bayesiano si è discusso molto tra clinici e metodologi. Comunque, il procedimento bayesiano rappresenta sicuramente una ricostruzione del tutto accettabile delle variazioni di credibilità attribuita a un'ipotesi. Tali variazioni sono indotte dal ricevimento di un'informazione pertinente all'ipotesi stessa: e questo si verifica non solamente in campo medico, ma anche nelle valutazioni che ciascuna persona elabora dei fatti quotidiani.
Si è finora considerata la diagnosi come l'obiettivo principale dell'atto medico. È stato tuttavia fatto notare che il medico, per rispondere alla richiesta del paziente, deve perseguire non solo la ricerca di una diagnosi, ma anche un'azione terapeutica efficace, e che anzi il vero obiettivo del medico è quest'ultimo. Sebbene non manchino argomenti per sostenere che oggi il paziente chiede al medico, prima che i rimedi al proprio male, una spiegazione di quanto sta accadendo in lui, la ricerca di un comportamento che valuti non tanto la verosimiglianza di una diagnosi quanto la convenienza di un atteggiamento operativo ha dato origine all'approccio decisionale alla diagnosi. La valutazione decisionale richiede la costruzione di un albero decisionale (simile, ma non coincidente, con gli alberi diagnostici di cui si è detto sopra). A questo scopo è necessario disporre di una notevole quantità di dati clinici di non sempre facile reperimento, tra cui i valori probabilistici di ciascun ramo, nonché i cosiddetti valori di utilità attesa, che quantificano il vantaggio relativo dei vari esiti possibili (guarigione, morte, guarigione con invalidità, miglioramento, permanenza dell'infermità ecc.). Malgrado siano stati ideati metodi più o meno oggettivi per stabilire i valori di utilità attesa, questa operazione e quella del reperimento di realistici valori di probabilità degli eventi considerati negli alberi decisionali, rappresentano certamente la difficoltà maggiore per un concreto e diffuso impiego in clinica di questa metodica. Soprattutto nella letteratura anglosassone non mancano comunque esempi di applicazione al trattamento di singoli casi reali particolarmente complessi. La metodica è inoltre estesamente impiegata per la valutazione e la formulazione di cosiddette linee-guida proposte per situazioni cliniche ricorrenti. L'affidabilità di queste metodiche può essere comunque accresciuta dalle cosiddette 'analisi della sensibilità' dei risultati ottenuti, consistenti nel valutare a quali livelli di probabilità la convenienza di un determinato comportamento diagnostico-terapeutico si inverta a favore di un comportamento concorrente.
Sia l'approccio bayesiano sia quello decisionale hanno contribuito a rafforzare l'idea di impiegare l'informatica per realizzare un sistema esperto capace di analizzare i rilievi clinici di un malato e formulare in maniera autonoma una diagnosi. Dai fautori di questi progetti si mette in rilievo che il calcolatore può ovviare a determinati limiti della mente umana, quali la minore capacità di mantenere vive le informazioni precedentemente memorizzate e di trattare efficacemente i dati di probabilità e la minore velocità e capacità di elaborare i significati e i valori delle informazioni acquisite. Alcuni programmi informatici in grado di portare a termine un procedimento diagnostico e di formulare una diagnosi automatizzata sono stati in effetti realizzati per alcuni settori della patologia. Esiste tuttavia la convinzione - condivisa da molti metodologi - secondo cui tali progetti, data la loro complessità, possono coprire solo limitati ambiti della patologia e quindi peccano inevitabilmente di incompletezza; si obbietta inoltre che i sistemi informatici di questo tipo non sono in grado di emulare la flessibilità della mente umana nello scegliere o nel variare, anche nel corso dell'esame di un medesimo paziente, la strategia adatta alla particolare situazione clinica. Le considerazioni svolte lasciano facilmente intravedere come ogni descrizione e ricostruzione dello svolgimento dell'atto medico rischi di risultare un'ipersemplificazione, giustificabile solo didatticamente, dell'effettivo agire del medico, che è chiamato di momento in momento ad adattare le sue decisioni non solo alle mutevoli condizioni del paziente, ma anche alle sue reazioni emotive. È indubbio d'altro canto che l'informatica può offrire al clinico un aiuto reale nella ricerca della diagnosi, nel segno di un'efficace collaborazione ma non di una sostituzione del medico da parte di un calcolatore.
di Giorgio Bignami
Il processo diagnostico può essere influenzato da fattori psicologici individuali, sociali e culturali, dai quali dipende in parte la natura dell'informazione raccolta dal medico e quindi l'orientamento delle sue decisioni. Tale influenza, come è del resto intuitivo, è estremamente variabile da una situazione all'altra. Essa è praticamente nulla quando la diagnosi è ovvia e istantanea e quindi tutto lo sforzo si concentra da subito sulle misure da adottare. All'estremo opposto, l'influenza può essere assai notevole nei casi interpretabili in molti modi diversi: per es., quando un soggetto proveniente da una diversa cultura e non ancora 'assimilato' si presenta con una sintomatologia altamente drammatica, la quale potrebbe derivare da una patologia organica acuta e grave, ma anche costituire una somatizzazione 'selvaggia' e incomprensibile, cioè differente da quelle che il medico conosce e riconosce nei soggetti della propria cultura (Zempléni 1988).
L'esempio delle somatizzazioni nell'immigrato che ha perso i suoi riferimenti consente di sottolineare il ruolo dei fattori storici e culturali sia nella definizione di salute e malattia e delle relative linee di confine, sia nella determinazione di una quota consistente delle categorie nosografico-diagnostiche e quindi del loro modo di impiego da parte dei curanti. Come ha mostrato H. Fabrega (1990), il concetto stesso di somatizzazione è infatti un prodotto dell'enfasi nella medicina moderna occidentale su di una concezione ontologica della malattia, applicata in maniera uniforme anche alle situazioni nosograficamente mal definite. I problemi creati dall'immersione in una cultura estranea svelano anche il ruolo particolarmente importante del processo di individualizzazione della malattia che è strettamente collegato alle conquiste della medicina scientifica dal primo Ottocento in poi (Foucault 1963; Ongaro Basaglia 1982), un processo che tende a oscurare i significati socialmente riconoscibili della malattia stessa e quindi a sminuire o ad annullare le capacità di interpretazione e comunicazione dei soggetti.
Deve essere sfatato il mito che ogni volta che un paziente sottopone al vaglio del medico dei disturbi, da lui percepiti come una deviazione dallo stato di salute-benessere, il medico debba ingegnarsi, con o senza l'ausilio di indagini di laboratorio, a pervenire a una specifica diagnosi da cui far discendere una specifica terapia. Nella stragrande maggioranza degli incontri medico-paziente (secondo alcuni, oltre l'80% del totale nei paesi sviluppati) tale esigenza non sussiste, trattandosi di manifestazioni di una sofferenza (reale e spesso tutt'altro che blanda) che ha origine dalle condizioni di vita, di lavoro e di relazione del soggetto e che può esprimersi in maniera assai varia, ma non è riconducibile a una specifica diagnosi; ciò vale anche per le somatizzazioni vere e proprie, che, data la loro localizzazione (gastrointestinale, cardiovascolare ecc.), meglio simulano una vera e propria patologia organica. Di questa situazione si va lentamente sviluppando una consapevolezza, come indica, per es., un recente studio sui medici di medicina generale inglesi (May-Sirur 1998). Si è dimostrato che quanto più il medico si preoccupa di usare in modo razionale, nei casi che effettivamente lo richiedano, gli strumenti della moderna medicina scientifica, anche se a costi elevati e, spesso, con effetti collaterali indesiderati, tanto più egli tenderà a ricorrere nel restante dei casi a metodi 'morbidi', scelti sulla base della loro efficacia sul piano psicologico, del loro basso costo e della loro innocuità. In queste situazioni l'artificio della pseudodiagnosi e il conseguente contrabbando come terapia specifica di una pseudoterapia, che nel migliore dei casi non può avere efficacia maggiore di quella di un placebo, non modificano in senso positivo o negativo il decorso dei disturbi; tuttavia il paziente beneficiario di una pseudodiagnosi può 'sentirsi meglio' di colui che si congeda dal medico senza un'etichetta. Ma anche a prescindere dalla componente di autoinganno del medico e di inganno del paziente, con i relativi problemi etici oggi sempre più fortemente sentiti, vi è almeno un argomento tecnicamente valido per preferire alla pseudodiagnosi una strategia alternativa, fatta di attento ascolto, di dialogo, di tentativi di trovare insieme al soggetto una spiegazione del suo malessere e dei suoi disturbi, quindi di convincimento del paziente stesso a rinunciare a una specifica etichetta diagnostica e alle relative terapie. Infatti, l'accurata messa in memoria da parte del medico di successivi episodi della storia di vita del paziente è indispensabile per massimizzare la probabilità di una pronta identificazione dei veri segnali d'allarme quando essi si presentano a seguito dell'insorgenza di una vera e propria patologia organica, distinguendoli dal 'rumore di fondo' che il corpo continuamente produce. I rapidi cenni che seguono riguarderanno soprattutto queste situazioni assai frequenti e nosograficamente mal definibili, pur con l'avvertimento che i fattori psicologici, sociali e culturali possono influenzare (e quindi fuorviare) il procedimento diagnostico anche in casi di ben definite patologie organiche.
Un meccanismo importante attraverso il quale i fattori qui considerati possono esercitare la loro influenza è quello dei cosiddetti processi di attribuzione, intendendo con attribuzioni le credenze e opinioni, ora strettamente individuali ma più spesso culturalmente determinate, che il paziente ha sulla natura della sua malattia, sulle cause che l'hanno provocata, sul significato dei sintomi, sull'efficacia maggiore o minore dei vari possibili rimedi (Arcuri 1996-97). Tali attribuzioni, di cui fanno parte i modelli di senso comune o modelli popolari di malattia (folk models; Helman 1978), possono avere ricadute importanti sulla esperienza di malattia e sul modo di adattarsi a essa.
Per quanto riguarda i sintomi somatici più comuni, i soggetti possono ora sottovalutarli, ascrivendoli a cause di scarso rilievo e ad azione transitoria, ora attribuirli a stress e a fattori psicologici (il che tende a ritardare il ricorso al medico), ora invece imputarli a patologie somatiche potenzialmente serie (il che accelera la richiesta di intervento medico). Le attribuzioni comunque esercitano un peso considerevole nel 'negoziato' tra paziente e medico sia sulla diagnosi sia sulla eventuale terapia, e ciò vale soprattutto quando la malattia non è grave, è autolimitata e non conosce veri e propri rimedi scientificamente validati, salvo eventualmente quelli sintomatici, come nella maggior parte delle forme di raffreddore e di influenza per lo più di origine virale. I vari aspetti del negoziato tra medico e paziente sono stati oggetto di numerosi studi che ne hanno documentato l'importanza sia sul versante degli orientamenti diagnostici e terapeutici dei curanti, sia su quello dei pazienti. In proposito va segnalato, pur soltanto di sfuggita, tra le innovazioni metodologiche recenti, l'uso sempre più esteso delle tecniche basate sull'analisi narrativa delle esperienze di malattia e di quelle dei curanti. Un primo aspetto importante, dati i ruoli che i soggetti sono tenuti a svolgere nel lavoro, nella famiglia e nei rapporti sociali, è quello delle diverse attese in materia di legittimazione del ruolo di ammalato (che mutatis mutandis è un po' come l'esenzione dal servizio militare o dalle mansioni pesanti e disagevoli o sgradevoli), una legittimazione che non è una semplice funzione del tipo e della gravità della malattia. Un caso limite delle differenze tra soggetti nella richiesta o rifiuto di tale ruolo, a parità di altre condizioni socioeconomiche e culturali, è offerto dalla constatazione che i medici hanno una forte resistenza a considerarsi ammalati, atteggiamento che non di rado li danneggia per i ritardi nella diagnosi di patologie anche importanti e quindi nell'adozione di appropriate misure terapeutiche. Ulteriori evidenze vengono dagli studi che mostrano come dall'efficacia maggiore o minore del negoziato tra medico e paziente - cioè dal grado di comprensione del significato e delle implicazioni della diagnosi offerta dal medico, dal tipo di compromesso volta per volta raggiunto tra il modello scientifico di malattia e quello di senso comune che fa parte del bagaglio culturale del paziente - dipendono in misura consistente sia gli aggiustamenti successivi nella vita quotidiana sia il grado di aderenza (compliance) alle misure terapeutiche proposte.
Un'ultima questione, che allo stato attuale delle conoscenze può essere posta solo in forma di interrogativo, riguarda le modalità di interazione tra vari fattori interni ed esterni al sapere medico nella produzione degli errori diagnostici. Se nella lunga fase cosiddetta prescientifica della storia della medicina la tradizione sia colta sia popolare non perdeva occasione per infierire sugli errori dei medici, e in particolare sulle diagnosi di fantasia basate su un ragionamento circolare (cioè su tautologie), oggi la medicina scientifica deve continuare a confrontarsi con una frequenza elevata di errori diagnostici che è rimasta sostanzialmente immodificata dagli anni Venti del 20° secolo agli anni più recenti. Per lo più i dati mostrano una frequenza di almeno 30-35% di errori, di cui circa un terzo con conseguenze negative rilevanti sulle condotte terapeutiche. Tali proporzioni rappresentano certamente una sottostima: infatti provengono da indagini condotte in ospedali di livello buono od ottimo su casi di particolare gravità (cioè su soggetti deceduti e sottoposti a verifica autoptica), quindi in condizioni atte ad accrescere la probabilità di una diagnosi clinica esatta rispetto alla stragrande maggioranza delle altre situazioni. Appare pertanto auspicabile che gli studi condotti in questo campo, oltre ad analizzare il ruolo di quei fattori che vengono comunemente considerati nello specifico medico-semeiotico (Poli 1965), comincino a valutare più a fondo anche l'incidenza di vari tipi di fattori psicologici e socioculturali di cui ormai si conosce la significativa influenza nelle interazioni tra medico e paziente.
l. arcuri, Le attribuzioni causali nei contesti della malattia e nella relazione terapeutica, "Ricerche di psicologia", 1996-97, 4, pp. 101-16.
h. fabrega jr., The concept of somatization as a cultural and historical product of Western medicine, "Psychosomatic Medicine", 1990, 52, pp. 653-72.
m. foucault, Naissance de la clinique, une archéologie du regard médical, Paris, PUF, 1963 (trad. it. Torino, Einaudi, 1969).
r.s. galen, s.r. gambino, Beyond normality: the predictive value and efficiency of medical diagnoses, New York, Wiley, 1975.
c.g. helman, 'Feed a cold, starve a fever' - Folk models of infection in an English suburban community, and their relation to medical treatment, "Culture, Medicine and Psychiatry", 1978, 2, pp. 107-37.
c. may, d. sirur, Art, science and placebo: incorporating homeopathy in general practice, "Sociology of Health and Illness", 1998, 20, pp. 168-90.
f. ongaro basaglia, Salute/malattia. Le parole della medicina, Torino, Einaudi, 1982.
e. poli, Metodologia medica. Principi di logica e pratica clinica, Milano, Rizzoli, 1965.
c. scandellari, La strategia della diagnosi, Padova, Piccin-Nuova libraria, 1980.
id., The bayesian approach to evaluation of diagnostic data, "Annali dell'Istituto Superiore di Sanità", 1991, 27, 3, pp. 385-94.
c. scandellari, g. federspil, Metodologia medica, Relazione all'86° Congresso della Società italiana di medicina interna, Roma, Pozzi, 1985.
m.c. weinstein, h. v. fineberg, Clinical decision analysis, Philadelphia, Saunders, 1980 (trad. it. L'analisi della decisione in medicina clinica, Milano, Angeli, 1984).
a. zempléni, Entre 'sickness' et 'illness': de la socialisation à la individualisation de la 'maladie', "Social Sciences and Medicine", 1988, 27, pp. 1171-82.