emiliano-romagnoli, dialetti
L’Emilia-Romagna è formata da due parti di estensione equivalente, l’una piana e l’altra collinare e montuosa, unite da un asse che va da Cattolica, sull’Adriatico, a Stradella, presso il Po. Il territorio (v. fig. 1) è compreso tra la dorsale spartiacque dell’Appennino a sud-ovest, il Po a nord e la costa adriatica a est, collocandosi tra la grande regione padano-alpina e l’Italia peninsulare, cui danno accesso passi montani facilmente transitabili, e il margine costiero di Gabicce. A questa funzione di collegamento lungo la direttrice nord-sud non ha quasi mai corrisposto, storicamente, un’apprezzabile omogeneità culturale e politica interna all’attuale area regionale, caratterizzata da frammentazione e policentrismo.
Nel VII e VI secolo a.C., con l’espansione etrusca a nord dell’Appennino, che ingloba la precedente cultura villanoviana (la prima in Italia con forme di insediamento urbano), si registra l’occupazione (o fondazione) di Bologna (Felsina), Marzabotto e Spina. Quando la conquista romana giunge sull’Adriatico, agli inizi del III secolo a.C., la regione cispadana è occupata per la massima parte dai Galli Boi, anche se popolazioni umbre sono concentrate nell’area del delta padano e nel settore orientale dell’Appennino, mentre i Liguri si distribuiscono in parte del settore occidentale. Sul piano documentario, la tradizione linguistica etrusca emerge isolata tra due fasi storiche prive di documentazione: una precedente, ricca di vicende culturali varie e complesse testimoniate dall’archeologia, e la fase gallica – con l’arrivo di popolazioni prive di scrittura – responsabile del lento tramonto degli Etruschi.
La colonizzazione di una delle regioni dove si è manifestata più intensamente la romanizzazione rientra nel modello di organizzazione politico-amministrativa che assicurò continuità e durata al dominio di Roma: l’impianto di poli urbani, prima Ariminum (Rimini) nel 268, poi Placentia (Piacenza) nel 218 e Bononia (Bologna) nel 189 a.C.; il tracciato della rete viaria, mediante la costruzione della via Emilia nel 187; la creazione di un appoderamento stabile della campagna coltivabile.
Il latino si diffonde e, col passare delle generazioni, si impone nella regione tra popolazioni di varia origine. Caduto l’impero, la suddivisione tra territori posti a oriente e a occidente della regione viene ribadita, dopo la guerra greco-gotica (535-553), dalla contrapposizione lungo il fiume Panaro tra Bizantini (i Romani da cui si origina il nome Romagna) e Longobardi, cui subentrano sul finire dell’VIII secolo i Franchi. Dalle lingue germaniche entrano nelle parlate locali molti prestiti ([ˈboga] «fascia metallica», [gropː] «nodo», [ˈgefːla] «gomitolo», [skuˈsːɛl] «grembiule») e nomi di luogo (ad es., Gualtieri, Braida, Sala, Guastalla). Ancora una volta, e definitivamente, se si esclude la breve parentesi napoleonica, la zona di sud-est, con il suo confluire sostanziale sotto il potere vescovile e papale (poi dello Stato pontificio), si distacca dalla zona di nord-ovest, assorbita come tutta l’alta Italia nell’orbita del dominio imperiale e dei grandi feudatari (poi dei ducati), fino all’Unità d’Italia.
Nel periodo alto-medioevale si formano le lingue locali dell’attuale Emilia-Romagna, usate e trasmesse ininterrottamente – di generazione in generazione – fino ai nostri giorni. A esse si contrappone durante il medioevo come codice colto il latino, che negli statuti comunali, ad es. a Bologna, adotta, travestendole, parole locali come aibus «abbeveratoio», ceda «siepe», ruscus «spazzatura» (in dialetto: [ajb], [ˈzeda], [rosk]). Anche del cosiddetto volgare, cioè l’idioma parlato dall’intero corpo della popolazione, si forma gradatamente, a partire dal basso medioevo, una varietà scritta, impiegata in ambiti sempre più estesi, e in particolare nei testi di natura pratica (Foresti et al. 1992 e 1994).
Sul piano dell’oralità, assolutamente prevalente nella vita delle comunità sociali, le lingue locali sono state le uniche risorse linguistiche, il tessuto che ha accompagnato e dato forma alle attività lavorative, al mantenimento delle relazioni sociali e all’apprendimento di saperi e norme (Foresti 2009).
Per definire l’area linguistica regionale occorre adottare il concetto di continuum, in quanto i dialetti tra loro in contatto in ambito geografico hanno confini soltanto relativi, originando zone di transizione dove i rispettivi caratteri si mescolano reciprocamente. I dialetti emiliani e romagnoli esercitano la propria influenza su altri dialetti limitrofi, superando i confini della regione e anche confini naturali importanti come il Po e gli Appennini, nelle province di Mantova, Pavia, Rovigo, Alessandria, Genova, Massa Carrara, Lucca, Pistoia, Firenze, Pesaro e Urbino, Ancona. E un analogo graduale passaggio da un sistema linguistico all’altro avviene anche nella stessa Emilia-Romagna, dove si adotta tradizionalmente – con il discrimine del fiume Panaro – la suddivisione tra dialetti occidentali (piacentino, parmense, reggiano, modenese) e orientali (bolognese, romagnolo, ferrarese).
È inoltre possibile stabilire partizioni interne alle due aree: in quella orientale si deve rimarcare una relativa autonomia del ferrarese rispetto agli altri dialetti, i quali pure si distinguono tra loro, ad es. in virtù della rispettiva presenza o assenza, nelle varietà romagnole e in bolognese, dei fonemi /ẽ/, /õ/. Nell’area occidentale, si evidenzia la costante regressione di [y] < lat. ū in sillaba aperta ([myr] «muro») e di [ø] < lat. ŏ ([føg] «fuoco»), un tratto che in pianura oggi non oltrepassa il fiume Taro (Parma) ed è assente nel resto della regione, ma che nell’Appennino giunge ancora fino a Sestola (Modena) e, nella Bassa, da Busseto (Parma) – lungo la sponda del Po – si congiunge con Guastalla (Reggio Emilia).
Esistono solidarietà linguistiche anche nelle fasce orizzontali dell’Emilia-Romagna (di montagna, pianura e Bassa). La stessa palatalizzazione della a latina in sillaba aperta ([ʧɛr] «chiaro», [fɛr] «fare»), un tratto che accomuna le parlate della regione, dal mare a Piacenza (dove si riflette in [æ]), non si riscontra in realtà nella Bassa parmense, reggiana, modenese, nel territorio ferrarese, come pure in alcune zone appenniniche. Accanto ad altre differenze nel vocalismo tonico e in quello atono (per cui al fidentino [uspeˈdɛːl] «ospedale» corrisponde [zbˈdɛːl] a Bologna), a distinguere le due macro-sezioni dialettali interviene la ➔ metafonia, fenomeno fonetico che ha anche rilevanza morfologica, ben vitale nel centro-est e ormai sporadico a ovest: [bi] «belli» (sing. [bɛːl]), [kurˈti] «coltelli» (sing. [kurˈtɛːl]), [ˈnuster] «nostri» (sing. [ˈnoster]).
Nel consonantismo si registrano fenomeni ben noti, comuni ad altri dialetti dell’Italia settentrionale, alcuni dei quali influenzano localmente la pronuncia dell’italiano:
(a) la degeminazione o ➔ scempiamento delle consonanti doppie: ad es. a Bologna [ˈtɛːra] «terra», [skaˈpɛːr] «scappare», dove si evidenzia il fenomeno diffuso dell’allungamento vocalico; ma la consonante è intensa dopo una vocale breve: [ˈredːer] «ridere», [lomː] «lume»;
(b) la sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (ad es. a Modena [ˈroda] «ruota») e il passaggio da -p- a -v- (bolognese [saˈvawr] «sapore»);
(c) il passaggio dei nessi lat. cl- e gl- alle consonanti palatali [ʧ-] e [ʤ-]: ad es. a Rimini [ˈʧavga] «chiavica», a Piacenza [ʤasː] «ghiaccio».
Le difformità interne alla regione riguardano la diversa evoluzione di alcune consonanti del latino, per cui alle forme occidentali [zøg] «gioco», [ˈʤenta] «gente», [sent] «cento» corrispondono le centro-orientali [ʣuːg], [ʣaŋt], [ʦaŋt].
A livello morfologico, si segnala per l’articolo determinativo un paradigma relativamente unitario (al sing. al masch. e la femm., mentre in Romagna è tipica la forma masch. e); per il numero, l’opposizione tra sing. e pl. è condizionata dalla caduta delle vocali, eccettuata la a, in fine di parola, per cui si ha al sant «il santo» e i sant «i santi», [la ˈskraːna] «la sedia» e [al skraŋ] «le sedie»; per il femm. ricorre anche la desinenza -i: [ˈmoski] «mosche». I pronomi personali tonici hanno un’unica forma per le funzioni di soggetto e oggetto (a Bologna, me, te, lo masch. / li femm., no o [nuˈɛter], vo o [vuˈɛter], [lawr] «loro»). Nella flessione verbale è obbligatorio l’uso delle forme pronominali atone a «io», t «tu», al / l «egli, esso», la / l «ella, essa», a «noi», a «voi», i «essi, esse», anche in presenza di un soggetto nominale espresso ([un ˈomen al ven] «un uomo viene»). Ancora, i pronomi atoni ricorrono nelle frasi interrogative posposti rispetto al verbo (ad es. a Parma [e la ˈbela?] «lei è bella?»), e sono usati con i verbi impersonali ([a ˈneva] «nevica» a Ferrara, [al pjov] «piove» a Bologna).
Per quanto riguarda i pronomi personali al caso indiretto, tra i dialetti ricompare una netta diversità nella terza persona sing. e pl., masch. e femm., per le quali domina nell’Emilia occidentale, centrale e nel ferrarese [g] (per es. a Parma [a g voj ben] «io gli / le / a loro voglio bene»), rispetto a i a Bologna e in Romagna ([a j voj diːr un kuˈɛːl] «io gli / le / a loro voglio dire qualcosa»). Sono usate [g] e [j], nelle rispettive aree, anche in funzione di clitico obliquo con valore neutro (a Bologna [a j ɔ pinˈsɛ me] «ci ho pensato io») e di avverbio di luogo ([a j vaːg dmaŋ] «ci vado domani»).
La flessione verbale, infine, distingue quattro coniugazioni:
(a) la prima, in [-ˈɛr / -ˈar]: a Bologna [anˈdɛːr] «andare», a Ferrara [far] «fare»; ma a Piacenza [paˈgɛ] «pagare»;
(b) la seconda, in [-ˈer]: a Ferrara [pjaˈzer] «piacere»; ma a Piacenza [pjaz];
(c) la terza, in [-er]: a Modena [arˈkojer] «raccogliere»; ma a Piacenza di nuovo desinenza zero: [kurː] «correre»;
(d) la quarta, in [-ˈir]: a Reggio [parˈtir]; ma a Piacenza [puˈli] «pulire».
Sul piano lessicale, mentre sono tipici dell’intero territorio regionale termini come [livaˈduːr] «lievito», [ˈdlizer] «scegliere», [skaˈdawr] «prurito», [ˈlaːʦa] «spago», se si mantiene la distinzione geografica sopra considerata, contraddistinguono la prima area, ad es., [grimˈbɛːl] «grembiule», [ˈdandla] «donnola», [ˈfrɛːvla] «fragola», [kalˈʦajder] «secchio di rame», [ˈsantel] «padrino», rispetto a [skuˈsaːl], [ˈbɛndla], [maˈʤostra], [ˈsetːʃja], [guˈdasː] della seconda. Tuttavia, la contrapposizione tra le macro-aree Emilia e Romagna e la sottolineatura delle loro interne omogeneità risulta spesso precaria, perché la distribuzione dei tipi lessicali si rivela molto più frammentata. Per es., si ha [artiˈʧoːk] a Modena, Ferrara, in provincia di Ravenna, e [skarˈʧofel] a Bologna per «carciofo»; [skond] a Piacenza, [arpjaˈtɛːr] e [arduˈpɛːr] a Modena, Bologna, [arˈpownɛr] in provincia di Ravenna, [maˈzɛ] a Rimini e Cesena per «nascondere»; [bamˈbejn] a Piacenza, [baˈbeŋ] a Ravenna, [fanˈʤeŋ] a Bologna, [puˈteiŋ] a Ferrara e Modena, [burˈdɛːl] a Rimini per «bambino» (Foresti 1988).
Per secoli l’insieme delle risorse linguistiche a disposizione degli abitanti della regione si estende molto limitatamente oltre le lingue materne: anche i pochi alfabetizzati hanno una competenza soltanto passiva dell’italiano, che sono in grado soprattutto di leggere. Nelle opere non letterarie (cronache, memorie, manuali tecnici, inventari, note di lavori, ecc.) sono contenute in abbondanza forme derivate dai dialetti, che talora usano anche gli scrittori, dal Cinquecento, con Giulio Cesare Croce (burazzo «canovaccio da cucina», scimitoni «moine», zavaglio «cianfrusaglia»), al novecentesco Riccardo Bacchelli (bazurlone «persona sbadata», dare le onde «barcollare», noce «percossa», imbalzato «impedito nei movimenti»). Quando, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, l’italiano incomincia a diffondersi in misura rilevante anche nel parlato, nelle varie situazioni comunicative si generano sia usi alternati dei due codici in contatto o, meglio, dell’ampia gamma di varietà in cui questi si suddividono, sia interferenze tra i due codici, ai vari livelli linguistici (fonetico, morfo-sintattico, lessicale-semantico).
Nel 2006, stando ai rilevamenti dell’ISTAT, il 55% degli intervistati afferma di impiegare nel dominio famiglia «solo o prevalentemente l’italiano», oltre il 28% «sia l’italiano che il dialetto» e il restante si esprime in una delle varietà locali dell’Emilia-Romagna. Si ponga attenzione che si tratta di dati medi, riguardanti anche le grandi città, perché nei centri abitati medio-piccoli l’impiego alternato dei due codici sale quasi al 50%, una percentuale che nelle campagne e nelle zone di collina e montagna risulta ancora superiore.
È indispensabile precisare che non esiste nell’uso parlato un italiano uniforme a livello regionale, pur se sono presenti alcuni tratti comuni, ma esistono tante varietà locali, circoscritte a zone ben individuate (in cui peraltro si possono registrare caratteri estesi ad altre aree provinciali) e variabili anche in base al ceto sociale, all’età e al sesso dei parlanti. A determinare tali varietà – in cui comunque sono presenti tratti del cosiddetto ➔ italiano popolare – ha concorso il sostrato dialettale, in varie proporzioni e modalità. Oltre a un’utilizzazione marcata localmente di elementi italiani, come ad es. a Bologna l’estensione dei suffissi -ino e -otto (morsicotto «morso») e dei prefissi verbali s- (sfregarsi, sfarfugliare) e in- (instizzirsi, inochirsi «incantarsi»), le perifrasi non stare a + infinito al posto dell’imperativo negativo e essere di un + aggettivo per il superlativo, l’uso dell’articolo davanti al nome proprio femminile, si hanno peculiarità intonative (poco studiate) e fonetiche. Fra queste:
(a) la riduzione delle consonanti lunghe prima dell’accento (gramatica, otengo) e, viceversa, il rafforzamento delle brevi dopo l’accento (libbro, coppia «copia»);
(b) la pronuncia sonora della z sorda all’inizio di parola: [ˈʣapːa] zappa;
(c) la palatalizzazione di s e la depalatalizzazione di [ʃ] seguite da vocale, per cui si può pronunciare [ʃ]era «sera» e la[s]iare «lasciare»;
(d) la palatalizzazione della consonante nasale e la depalatalizzazione della laterale: [ɲ]ente «niente», botti[l]ia «bottiglia».
Molti sono i prestiti lessicali e semantici, da quelli largamente diffusi in tutta la regione (lavoro «faccenda incredibile, gran quantità», bugno «foruncolo», bagaglio «oggetto di poco valore», fatto «strano, curioso») a quelli interprovinciali (castrone «rammendo mal fatto», tinco «rigido», ciappetto «molletta da bucato», tamugno «robusto», sgurare «pulire», gatti «lanugine di polvere sul pavimento»), fino ai tanti in uso localmente. A Ferrara gianda «fortuna», pizzone «credulone», pilonare «perdere tempo»; a Rimini batecco «rametto», quilare «fare», vontare «traboccare»; a Ravenna piffetto «colpetto», sfoglio «scheggia», sgrigna «riso continuo»; a Forlì cavalla «gran quantità», lozzo «sudiciume», maletta «seccatura»; a Modena malocco «grumo», romella «seme di zucca, nocciolo»; a Piacenza fumera «nebbia», navassa «gran quantità», stramlone «spavento»; a Parma patacca «sculacciata, botta», patello «confusione», intagliarsi «insospettirsi»; a Reggio flenga «carta di nessun valore», campanone «sempliciotto», gnocco «facile»; a Bologna sgodevole «antipatico», morbino «smania», sbanderno, squasso «gran quantità».
Nei dialetti dell’Emilia-Romagna sono state prodotte sia specifiche manifestazioni della cultura popolare stratificatesi nei secoli, sia opere letterarie di un insieme di autori, a partire dalla metà del Cinquecento fino ad oggi. Da una parte, si tratta di un patrimonio trasmesso nel tempo oralmente, comprendente vari generi di composizioni cantate (di lavoro, scherzo, amore, ballate), lo spettacolo nelle sue varie forme (dei cantastorie, dei declamatori di poesia d’occasione, dei burattinai; e il teatro musicale del Maggio drammatico), le fiabe, le rime infantili, le preghiere, le formule magiche, insieme ai proverbi e agli indovinelli. Figure professionali ambulanti oppure gente comune di tutte le età si sono fatti portatori di tale patrimonio, nel doppio ruolo di chi ascolta e di chi a sua volta trasmette, nelle diverse circostanze della vita quotidiana o nelle occasioni più importanti dell’esistenza, dalla nascita al fidanzamento, dalle nozze ai funerali, durante giorni qualunque o in particolari periodi dell’anno e in differenti luoghi, dalla casa alla strada, dai campi alla chiesa e all’osteria (Quondamatteo & Bellosi 1977).
Dall’altra parte, si tratta di una letteratura dialettale colta e d’autore, che si compone di testi di poesia, teatro, prosa narrativa e traduzioni di classici da altre lingue (Accorsi 1980 e 1982). Giulio Cesare Croce (1550-1609), di area bolognese, è considerato il primo importante esponente di tale letteratura, anche se la sua produzione dialettale testimonia generi e ritualità raccolti dalla tradizione orale e che sono giunti fino ad oltre la metà del Novecento per trasmissione ininterrotta: le canzoni narrative (Violina, Moretta, Girumetta, Pidocchia ostinata), il maggio-serenata, la drammatica (Filippa), le usanze legate al ciclo dell’anno. Si deve rilevare la difformità delle linee di sviluppo della vera e propria letteratura dialettale nelle due aree regionali: specialmente nel Sei-Settecento, Bologna svolge il ruolo principale rispetto a tutti gli altri centri, dando luogo a una vera e propria tradizione (con una notevole continuità di produzione e di consumo, che sfocerà nel XIX secolo, come a Milano e a Venezia, in cospicue antologie dialettali a stampa), mentre nel Novecento – in particolare per la poesia lirica – è la Romagna ad assumere una posizione preminente.
Accorsi, Maria Grazia (1980), La letteratura dialettale, in Storia dell’Emilia-Romagna, a cura di A. Berselli, Bologna, University Press, 1976-1980, 4 voll., vol. 3º/2 (Realtà regionale), pp. 1010-1055.
Accorsi, Maria Grazia (1982), Dialetto e dialettalità in Emilia-Romagna dal Sei al Novecento, Bologna, Boni.
Foresti, Fabio (1988), Italienisch: Areallinguistik V. Emilia-Romagna, in Lexikon der romanistischen Linguistik (LRL), hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & C. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, 8 voll., vol. 4º (Italienisch, Korsisch, Sardisch), pp. 569-593.
Foresti, Fabio (2009), Profilo linguistico dell’Emilia-Romagna, Roma - Bari, Laterza.
Foresti, Fabio, Marri, Fabio & Petrolini, Giovanni (1992 e 1994), L’Emilia e la Romagna, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, pp. 336-401 e in L’italiano nelle regioni. Testi e documenti, Torino, UTET, pp. 345-418.
Quondamatteo, Gianni & Bellosi, Giuseppe (1977), Romagna civiltà, Imola, Galeati, 2 voll. (vol. 1º, Cultura contadina e marinara; vol. 2º, I dialetti. Grammatica e dizionari).