piemontesi, dialetti
Il territorio del Piemonte non è omogeneo dal punto di vista linguistico, e le varietà che si possono definire piemontesi non ricoprono l’intera estensione amministrativa della regione. Rimangono infatti escluse a occidente le varietà delle comunità alloglotte provenzali (➔ provenzale, comunità) e francoprovenzali (➔ francoprovenzale, comunità) e a oriente le varietà chiaramente di area lombarda parlate a est del fiume Sesia. Vi sono inoltre isole linguistiche che formano una comunità alloglotta walser (➔ walser, comunità).
Varietà di transizione di incerta classificazione sono presenti nella parte orientale delle province di Vercelli (con le parlate lombarde) e di Alessandria (con quelle lombarde ed emiliane) e ai confini meridionali della regione (con le parlate liguri).
Le parlate propriamente piemontesi si collocano nell’ambito dell’ampio continuum linguistico galloitalico (➔ dialetti); è tuttavia possibile caratterizzarle in termini di tratti fonologici, morfologici e sintattici condivisi e per lo più specifici, di cui i principali saranno descritti nel seguito.
Entro l’area delle parlate piemontesi vi è peraltro una sensibile variazione. Il dialetto della capitale regionale, Torino, si è gradualmente esteso negli ultimi tre secoli dando origine ad un’area linguisticamente abbastanza uniforme nelle pianure a sud-ovest e nord-est della città. Fondamentalmente la stessa varietà, con piccole differenze, è (o era) parlata nei centri urbani lungo le principali vie di comunicazione del Piemonte occidentale (come Ivrea, Pinerolo, Susa, Cuneo e anche Asti). Al di fuori di questa koinè regionale a base torinese (➔ Torino, italiano di), la variazione diatopica all’interno del piemontese (che di solito non mette in pericolo l’intercomprensibilità) si può classificare in termini di alcuni raggruppamenti subregionali che spesso riflettono la storia politica del Piemonte, tutt’altro che unitaria fino all’inizio del Settecento. Seguendo in gran parte Telmon (2001), si possono distinguere: canavese, biellese, valsesiano, alessandrino, monferrino e langarolo.
Nel seguito, i tratti caratterizzanti l’area dialettale piemontese saranno illustrati sulla base del torinese, segnalando di volta in volta le principali divergenze presenti negli altri territori sopra citati.
Le parlate piemontesi condividono con gli altri dialetti galloitalici – romagnolo escluso – le due vocali anteriori arrotondate [ø] (torin. [fø] «fuoco») e [y] (torin. [tyf] «afa»), anche se [y] manca, essendosi ulteriormente evoluto in [i], in molte varietà monferrine e alessandrine.
Caratteristica del piemontese è la vocale centrale [ə], che appare anche in posizione tonica ([ˈtəbːi] «tiepido») e porta a nove il totale dei fonemi vocalici del torinese rispetto ai sette dell’italiano (non c’è infatti contrasto tra /o/ e /ɔ/, essendo presente solo /ɔ/, mentre il contrasto tra /e/ ed /ɛ/ è presente, sia pure in poche coppie minime come /ˈfeje/ «farle» ~ /ˈfɛje/ «pecore»). Le vocali [ɔ] e [ø] sono solo toniche. Nel Piemonte meridionale si può trovare un ulteriore contrasto tra [a] e una vocale bassa posteriore (/ɑ/ o /ɒ/): /saˈɹa/ «sarà» ~ /saˈɹɒ/ «salato».
Rispetto all’italiano, il torinese (come buona parte del Piemonte) non conosce [ʃ], [ʎ] e [ʦ], mentre [ʣ] è del tutto marginale (cfr. [ˈʣura] «sopra», analizzabile anche come sequenza [d] + [z]). Questi fonemi sono peraltro presenti in altre varietà, per es. [ʃ], [ʦ] e [ʣ] in biellese (che ha anche [ʒ]), gli stessi più [ʎ] in valsesiano, e [ʃ] in varietà periferiche al confine con la Liguria. L’unico fonema consonantico del torinese sconosciuto come fonema all’italiano è la nasale velare /ŋ/, che contrasta con /n/ in fine di parola (/paŋ/ «pane» ~ /pan/ «panno») e in posizione intervocalica preceduto dall’accento (/ˈraŋa/ «rana» ~ /ˈkana/ «canna»); quest’ultimo contrasto manca in qualche varietà (alessandrino, canavese).
Nel Piemonte meridionale si trova spesso un’altra interessante opposizione distintiva fra tre liquide. Alle consuete [l] e [r], che in posizione intervocalica continuano solo le rispettive geminate latine, si aggiunge infatti [ɹ], esito di [l] e [r] semplici, con contrasti del tipo /ˈmila/ «mille» ~ /ˈmiɹa/ «mira, punto» e /saˈrɒ/ «chiuso» ~ /saˈɹɒ/ «salato».
Come gli altri dialetti galloitalici – a parte il ligure – il torinese e tutte le varietà piemontesi sono caratterizzati da una struttura sillabica molto più complessa rispetto all’italiano, dovuta alla caduta, nell’evoluzione a partire dal latino, di molte vocali atone, sia all’interno che in fine di parola. Si incontrano così frequentemente sequenze biconsonantiche impossibili in italiano, sia nell’attacco che nella coda sillabica, come in torinese [mluŋ] «melone», [fnuj] «finocchio», [masʧ] «maschio».
Nella catena parlata, gli incontri di tre o quattro consonanti che ne deriverebbero sono però semplificati dall’inserimento di una vocale prostetica, pronunciata [ə] o [ɐ] secondo le regioni (e notata, con ë, anche nella grafia tradizionale): [ˈsiŋk ɐˈmluŋ] «cinque meloni», [ˈsuŋ ɐˈvnyjt] «sono venuto», ecc. Altra caratteristica che oppone il piemontese (al pari di tutti i dialetti settentrionali) all’italiano è l’assenza delle consonanti geminate, se si escludono l’allungamento non distintivo di tutte le consonanti precedute da [ə] tonica e seguite da vocale, come in [ˈvənːer] «venerdì», e alcune geminazioni al confine tra verbo e pronome clitico, che possono essere anche distintive: [ˈkatːe] «cómprati!» ~ [(i) ˈkate] «(voi) comprate».
Quanto ai riflessi sull’italiano dell’area, pochi tratti fonologici del piemontese hanno diretto riscontro nell’italiano regionale del Piemonte. Non c’è traccia nell’italiano del Piemonte delle vocali [ø], [y] e [ə], solo pochi parlanti anziani possono avere difficoltà nell’articolazione di [ʃ] o [ʦ] e nell’opporli a [s], e le consonanti lunghe sono generalmente realizzate come tali. D’altra parte, un tratto fonologico importante che oppone tutto l’italiano regionale del Nord al toscano, cioè l’assenza di un contrasto distintivo tra [s] e [z], non ha corrispondenza in piemontese. Un diretto riflesso del sistema fonologico del piemontese sull’italiano regionale si può invece trovare nella perdita pressoché completa in quest’ultimo del contrasto tra [o] e [ɔ]. Più rilevanti sono gli influssi del dialetto nella realizzazione fonetica dei fonemi dell’italiano regionale (➔ Torino, italiano di).
Come la grande maggioranza dei dialetti italiani, le parlate piemontesi non si discostano dall’italiano per quanto riguarda le categorie grammaticali espresse nel nome, nell’aggettivo e nel verbo, ma presentano notevoli differenze nelle marche morfologiche che le esprimono.
Dal punto di vista delle categorie grammaticali, l’unico dato rilevante è la totale assenza del ➔ passato (e del trapassato) remoto, condivisa dalla grande maggioranza dei dialetti settentrionali (e dal francese), anche se si tratta di un’evoluzione relativamente recente (in torinese sono definitivamente scomparsi all’inizio dell’Ottocento).
Per quanto riguarda la differenza nelle forme della coniugazione verbale (che conoscono nei dettagli una notevole variazione):
(a) al contrario dell’italiano, dove sono sempre coincidenti, il torinese distingue in tutte le coniugazioni le prime persone plurali di indicativo e congiuntivo presente (per es., indicativo [byˈtuma] «mettiamo», ma congiuntivo [ˈbytu] «mettiamo»), e nella prima e terza coniugazione le seconde plurali di indicativo presente e imperativo (per es. indicativo [fiˈnise] «finite», ma imperativo [fiˈni] «finite»);
(b) le desinenze personali mostrano una grande uniformità; l’identica sequenza sing. I [-a], II [-e], III [-a], plur. I [-u], II [-e], III [-u] compare in tutte le coniugazioni in quattro tempi / modi diversi, che sono a loro volta caratterizzati da una marca caratteristica, stabile al variare delle coniugazioni (a parte l’imperfetto indicativo): rispettivamente indic. imperf. [-ˈav-] / [-ˈi-] ([byˈtava] «mettevo / metteva», [fiˈnie] «finivi / finivate»); cong. pres. Ø; cong. imperf. [-ˈɛjs-] ([fiˈnjɛjsu] «finissimo / finissero»); condiz. [-ˈri-] ([byˈtriu] «metteremmo / metterebbero»); restano fuori di questo schema solo l’indicativo presente, l’imperativo e il futuro, che ha desinenze personali sue proprie;
(c) la vocale tematica (➔ coniugazione verbale) ha un ruolo marginale, essendo isolabile con chiarezza solo nella terza coniugazione.
Nei nomi e negli aggettivi, la differenza più macroscopica tra il torinese e l’italiano riguarda l’assenza di marche di plurale per quasi tutti i nomi e aggettivi maschili, tranne quelli uscenti in [-l]: [fɔl] «matto», plur. [fɔj]. La marcatura esplicita del plurale è però normalmente assicurata a livello di sintagma nominale, dato che l’articolo e quasi tutti i determinanti o quantificatori sono variabili in numero anche al maschile: [al] «il», plur. [i], [kul] «quello», plur. [kuj], [tant] «molto», plur. [ˈtanti]. In varietà periferiche la marcatura del plurale maschile può essere più complessa, mantenendo residui più o meno estesi di procedimenti metafonetici ([sak] «sacco», plur. [sɛk]), palatalizzazioni ([tant] «tanto», plur. [tanʧ]) o metatesi di [i] ([tyt] «tutto», plur. [tyjt]).
Più ampiamente marcata che in italiano è invece l’opposizione tra maschile e femminile, che si estende agli aggettivi corrispondenti alla seconda classe latina (ad es. «grande», sing. masch. [grand], femm. [ˈgranda]; plur. masch. [grand] femm. [ˈgrande]), e, come in molti dialetti italiani, si mantiene nel numero «due» (masch. [duj], femm. [ˈdue]).
Come avviene in tutti i dialetti settentrionali, i pronomi personali tonici di prima e seconda persona singolare ([mi] e [ti] rispettivamente) derivano dalle forme oblique latine. Caratteristica del piemontese è la forma per la terza persona singolare (masch. [kjɛl], femm. [ˈkila] in torinese), che funziona anche da riflessivo tonico (manca l’equivalente di it. sé) e da forma di cortesia, con opposizione di genere a differenza dell’it. lei. Si notino anche i dimostrativi neutri [sɔŋ] / [lɔŋ] «questa / quella cosa», riferibili esclusivamente a entità inanimate e specie a concetti astratti o a intere proposizioni.
Alcuni tratti sintattici molto evidenti oppongono le parlate piemontesi all’italiano. In primo luogo la negazione di frase ([nɛŋ] in torinese) è ovunque postverbale, o meglio segue il verbo finito: [i l aj ˈnɛŋ manˈʤa] «non ho mangiato».
La negazione postverbale si ritrova, con forme anche etimologicamente molto differenziate, in vaste regioni del territorio galloitalico, ma i dettagli della sua posizione sintattica variano sensibilmente da un dialetto all’altro. Le negazioni postverbali nascono come elemento di rafforzamento (per mezzo di un quantificatore negativo come il piem. [nɛŋ], originariamente «niente», oppure di termini denotanti piccole quantità come «briciola», «goccia», ecc.) che si aggiunge alla marca negativa preverbale ereditata dal latino, e finisce col sostituirsi completamente ad essa. La fase intermedia del processo, con compresenza di due marche negative una pre- e l’altra post-verbale, è attestata in torinese fino al Settecento ed è tuttora presente in territori al confine con la Liguria (ad es. in Val Bormida).
Un’altra area di forte divergenza con l’italiano è data dalla sintassi dei ➔ clitici. Il torinese possiede una serie completa di clitici soggetto, immediatamente anteposti al verbo finito (imperativo escluso): sing. I [i], II [t], III [a], plur. I [i], II [i], III [a]. I clitici di seconda persona singolare, terza singolare e di terza plurale sono obbligatori, gli altri opzionali; sono tutti compatibili con un soggetto esplicito di terza persona o un pronome tonico. In altre varietà piemontesi, forme e condizioni d’uso possono essere diverse. I clitici soggetto sono un tratto che caratterizza, con grande variabilità nel numero di forme e nella loro obbligatorietà, il complesso dei dialetti settentrionali in opposizione all’italiano.
Per quanto riguarda i clitici complemento, un tratto specifico del torinese rispetto all’intera area romanza è la loro posposizione nei tempi composti del verbo: [ˈkjɛl a l a ˈdime] «lui mi ha detto», lett. «lui ha detto-mi». L’innovazione si è stabilizzata in torinese solo alla fine dell’Ottocento, dopo una lunga convivenza con il tipo più antico [a m a ˈdit] e un tipo di transizione con il raddoppio del clitico [a m a ˈdime]. Il processo non ha raggiunto il Canavese, che ha tuttora il tipo preposto, mentre il tipo intermedio è ancora attestato in alcune zone del Piemonte meridionale. Si noti anche in [ˈmi i l ˈaj] «io ho», [ˈkjɛl a l ˈe] «lui è» il clitico ‘vuoto’ [l], che si prepone obbligatoriamente – in assenza di clitici complemento – alle forme finite inizianti per vocale dei verbi [aˈvɛj] «avere» ed [ˈese] «essere».
Nessuno dei tratti sopra citati, pervasivi nel dialetto, ha riscontro nell’italiano regionale piemontese, dove compaiono invece calchi di costruzioni dialettali più specifiche.
Il Piemonte è tra le regioni in cui la vitalità attuale del dialetto può dirsi particolarmente bassa, in particolare nelle aree urbane. I dati ISTAT del 2006 riportano per l’uso del dialetto in famiglia una percentuale del 9,8% di intervistati che dicono di farne uso esclusivo e del 25,4% che dice di farne uso insieme all’italiano. Il dialetto è quindi ormai evidentemente minoritario anche nella situazione comunicativa più favorevole.
Tuttavia, se l’uso esclusivo del dialetto in famiglia si è più che dimezzato dal 1988 ad oggi, la percentuale residua sembra essersi stabilizzata negli ultimi anni, il che può forse riflettere il permanere di limitate aree di vera e propria diglossia anche in Piemonte, presumibilmente nei piccoli centri rurali (➔ bilinguismo e diglossia). D’altra parte, l’uso esclusivo dell’italiano in famiglia non è per il momento aumentato in misura altrettanto ingente, anche se questo può dipendere dalla permanenza di un uso residuale del dialetto con la sola generazione dei nonni, destinato quindi a sparire in pochi anni.
Se si escludono i Sermoni Subalpini (forse risalenti alla fine del XII secolo), di problematica collocazione al confine tra l’area linguistica italiana e quella galloromanza, il primo testo datato sicuramente piemontese (Chieri) è del 1321.
La documentazione tre- e quattrocentesca è molto scarsa, mentre del 1521 è il primo testo letterario a stampa, l’Opera Jocunda di Giovan Giorgio Alione, una raccolta di farse in dialetto astigiano, all’epoca dai caratteri nettamente monferrini. In un dialetto già molto vicino al torinese moderno è scritta la commedia Ël Cont Piolet di Giovanbattista Tana (1649-1713), seicentesca ma stampata solo nel 1784. La letteratura nella koinè torinese (cfr. Clivio 2002) diventa relativamente abbondante nel Settecento (Ignazio Isler, 1702-1788) e poi nell’epoca giacobina (Edoardo Ignazio Calvo, 1773-1804) e risorgimentale (Angelo Brofferio, 1802-1866): prevale il genere della poesia, specie moralistico-politica, ma sono anche presenti alcune opere teatrali.
Quantitativamente cospicua è la produzione teatrale negli anni 1860-1890, il cui capolavoro è Le miserie ’d monsù Travèt (1863), di Vittorio Bersezio, mentre negli ultimi due decenni dell’Ottocento compaiono periodici di discreta tiratura che ospitano anche romanzi popolari a puntate, sia pur di qualità scadente e con una varietà di piemontese spesso pesantemente italianizzata (Luigi Pietracqua, 1832-1901). Nel Novecento, la produzione letteraria consiste essenzialmente di poesia lirica, mentre la prosa è prevalentemente opera dei promotori del piemontese illustre. Poeta e promotore dell’uso alto del torinese a un tempo è Pinin Pacòt (1899-1964), a cui si deve negli anni Trenta – insieme ad Andrea Viglongo – la sistemazione di un’ortografia standardizzata, da allora utilizzata coerentemente in quasi tutte le produzioni a stampa: ha il merito di essere essenzialmente fonemica, anche se alcune scelte (in particolare la resa di [u] con o e di [y] con u) danno ai testi un aspetto italianeggiante che risulta fuorviante per chi non conosce il dialetto.
La prima Gramatica [sic] Piemontese, in italiano, si deve a Maurizio Pipino (1783): anche se totalmente inadeguata da ogni altro punto di vista, contiene proposte ortografiche che riflettono una buona sensibilità per i fatti fonetici. Dello stesso anno e dello stesso autore è un Vocabolario che inaugura la lunga serie dei dizionari dialettali apparsi tra fine Settecento e Ottocento (il più ampio, di Vittorio di Sant’Albino, è del 1859). Infine, la prima traduzione completa del Nuovo Testamento, del valdese Enrico Geymet, è del 1834. Esistono anche grammatiche di riferimento (per es., Villata 1997) e dizionari contemporanei (per es., Brero 2001) della koinè torinese.
Brero, Camillo (2001), Vocabolario italiano-piemontese, piemontese-italiano, Torino, Il Punto-Piemonte in bancarella (1a ed. 1976).
Clivio, Gianrenzo P. (2002), Profilo di storia della letteratura in piemontese, Torino, Centro Studi Piemontesi.
Telmon, Tullio (2001), Piemonte e Valle d’Aosta, Roma - Bari, Laterza.
Villata, Bruno (1997), La lingua piemontese. Fonologia, morfologia, sintassi, formazione delle parole, Montréal, Lòsna & Tron (rist. Torino, Savej, Fondazione culturale piemontese, 2009).