veneti, dialetti
La regione Veneto, con una superficie di 18.380 km2, quasi cinque milioni di abitanti e sette province (il capoluogo Venezia, Belluno, Treviso, Verona, Vicenza, Padova, Rovigo), costituisce la parte più consistente del Nord-Est italiano. La popolazione non è distribuita in modo omogeneo: la media pianura ha la maggiore densità, meno popolati la bassa veronese e il Polesine, e ancor meno le Prealpi e la montagna bellunese. I centri urbani sono tutti di medie e piccole dimensioni e solo i capoluoghi (eccetto Belluno) superano i 100.000 abitanti. Si tratta di uno spazio al quale è stata riconosciuta, fin dall’antichità preistorica, una specifica caratterizzazione dal punto di vista linguistico ed etnografico.
Nonostante sia difficile tracciare confini entro l’area neolatina, le varietà linguistiche venete hanno una loro individualità: nel panorama dialettale dell’Italia settentrionale i dialetti veneti si distinguono nettamente dai dialetti gallo-italici (piemontese, ligure, lombardo). L’attuale situazione di autonomia e differenziazione interna dipende da un lungo itinerario storico, le cui vicende sono solo in parte ricostruibili con sicurezza. Dal IX-VIII secolo a.C. nella regione del basso Adige e tra Brenta e Piave si insedia il popolo destinato a denominare la regione, i Veneti, che danno vita a una cultura originale, riconoscibile nei tipi di sepolture, nella suppellettile funeraria e in altre particolarità dei reperti, ma soprattutto nella lingua, chiamata dagli studiosi venetico. Il venetico, pur travolto dall’ondata livellatrice del latino, sopravvive in alcuni nomi di luogo: oltre a Este e Padova, anche Vicenza, Asolo, Oderzo, Sile, Treviso. Le migrazioni successive dei Galli e dei Celti insidiano e restringono lo spazio paleoveneto primitivo, senza tuttavia snaturarlo.
Nella suddivisione dell’impero voluta da Augusto, la X Regio Venetia et Histria comprende un territorio ampio ed eterogeneo: tuttavia proprio allora comincia la definizione geografica del territorio. Anche la profonda frattura politica e amministrativa dei primi secoli dell’età medievale tra la fascia costiera, le isole e l’Istria, soggette al dominio bizantino, e il Veneto d’entroterra, occupato dai Longobardi, pare non determini conseguenze vistose nella lingua. Nemmeno le complesse vicende storico-politiche dei secoli successivi sconvolgono gli equilibri interni: basti ricordare che i mandamenti del Regno d’Italia si basavano sulle precedenti divisioni austriache e francesi, le quali spesso rispecchiavano i confini delle podesterie e dei distretti feudali esistenti all’epoca della Repubblica di Venezia.
I confini della regione linguistica non coincidono con quelli dell’attuale regione amministrativa. Nella sezione superiore della provincia di Belluno compare il ladino dolomitico (➔ ladina, comunità), che sfuma nel ladino-veneto dell’Agordino e dello Zoldano; i dialetti del basso Polesine risentono di influssi emiliani; lungo la sponda veronese del lago di Garda si incontrano tratti lombardeggianti. Nella regione sono ancora riconoscibili, per quanto molto ridotte in termini quantitativi, minoranze germanofone, insediatesi probabilmente tra il XII e il XIII secolo: i cosiddetti Cimbri dei Tredici comuni della Lessinia (Verona) e dei Sette comuni dell’altopiano di Asiago (Vicenza), nei quali si parlava un dialetto di origine bavaro-tirolese, e la località di Sappada (Belluno), fondata da gruppi di origine carinziana (➔ tedesca, comunità).
D’altro canto il tipo veneto si estende oltre i confini regionali, in alcune parti del Trentino orientale (Primiero, dialettalmente feltrino, e Valsugana, vicentina) e meridionale (con influssi di tipo veronese); anche il Trentino centrale, che originariamente conosceva una varietà affine al lombardo, risulta oggi profondamente venetizzato. L’espansione più vasta è quella di base veneziana, che ha seguito l’egemonia della Repubblica Serenissima, nell’area alto-adriatica (fasce lagunari di Marano, Grado e Monfalcone), nei centri urbani del Friuli (Pordenone e Udine), nel territorio della Bassa friulana, nel goriziano e a Trieste. Fino all’ultimo dopoguerra, varietà venete erano parlate in Istria e lungo il litorale dalmata. Tracce della penetrazione di questo veneziano «coloniale» o «de là da mar» (➔ Mediterraneo e lingua italiana; ➔ lingua franca, italiano come) giungono fino in Grecia. Infine non va dimenticato il veneto (non veneziano) parlato da milioni di persone emigrate tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento in altre regioni italiane industrialmente più avanzate, in varie nazioni europee, in America, soprattutto centro-meridionale, e in Australia (➔ emigrazione, italiano dell’).
Una serie di tratti caratterizza l’area dialettale veneta rispetto a quelle vicine e all’italiano (per il veneto in generale e le sue varietà, cfr. Zamboni 1974; Marcato & Ursini 1998; Marcato 2002).
Le vocali sono le stesse del toscano, con la possibilità per le vocali intermedie /e/ e /o/ di essere pronunciate, in sillaba accentata, chiuse ([ˈmeze] «mese», [ˈsoto] «sotto») o aperte ([ˈmɛze] «mezze», [ˈsɔto] «zoppo») dando luogo a opposizione distintiva. Non compaiono le vocali anteriori arrotondate /y/ e /ø/, presenti nei dialetti gallo-italici. La struttura della parola è meglio conservata rispetto ad altre varietà settentrionali: non c’è infatti la riduzione di vocali o sillabe non accentate (➔ indebolimento) che portano, per es., il latino telarium «telaio» a [tlɛr] o [tlɛ].
Il trattamento delle vocali finali varia con curiosa regolarità muovendo dalla pianura al mare o verso nord. Nei dialetti centrali cadono solo la /e/ e la /o/ dopo /n/ ([paŋ] «pane», [boŋ] «buono»; ma non in [aŋˈkuzene] «incudine» e [ˈpano] «panno») e la /e/ resta quando è segno del plurale femminile. Il veneziano aggiunge la caduta di /e/ dopo /l/ ([kaˈnal] «canale»; ma [ˈkae] «calle») e dopo /r/ negli infiniti dei verbi e in nomi come [mar] «mare». Via via che ci si sposta verso nord le vocali finali dileguano in modo sempre più vistoso fino al feltrino e bellunese, in cui si sente [fok] «fuoco», [brut] «brutto», [nof] «nuovo», [faŋ] «fame», [dis] «dice», [saŋt] «santo», [falθ] «falce», e persino [kaŋ] «cane» e «cani», che nasconde la differenza tra singolare e plurale. Nell’inventario delle consonanti mancano la /ʃ/ di liscio, la /ʎ/ di aglio e (a parte alcune località periferiche, come Vittorio Veneto o Trieste) le ➔ affricate dentali /ʦ/ e /ʣ/, anche se questi suoni, o meglio la loro interpretazione veneta, compaiono nelle parole italiane che si introducono sempre più frequentemente nel parlato quotidiano. L’affinità con il resto dell’Italia settentrionale è assicurata dalla lenizione (➔ indebolimento) delle consonanti originariamente sorde, collocate tra vocali, che vengono sonorizzate (e a volte cancellate): [kaˈdena] «catena», [ˈfɔgo] «fuoco», [saˈvere] «sapere», [spoˈzada], [spoˈzaa] e [spoˈza] «sposata». Principalmente, se non esclusivamente, settentrionale è l’indebolimento delle consonanti lunghe (o scempiamento delle doppie): [ˈboka] «bocca». La /ʧ/ di cento e la /ʤ/ di gente del toscano corrispondono alla /s/ e alla /z/ di [ˈseŋto], [ˈzeŋte]. In posizione finale di parola o di sillaba /n/ e /m/ sono realizzate come [ŋ]: [paˈroŋ] «padrone», [ˈkaŋpo] «campo», [kaŋˈtar] «cantare».
Il capitolo dei pronomi personali è interessante per alcune particolarità che rendono i dialetti veneti più simili agli altri dialetti settentrionali (e, per alcuni aspetti, al francese) che all’italiano. Il fatto più rilevante è l’uso, in alcuni casi obbligatorio, di una serie di pronomi soggetto atoni, detti proclitici (➔ clitici) perché si appoggiano alla parola che segue.
Nella prima persona singolare e plurale si sente ancora, anche se sempre più raramente, la forma [a], che i grammatici faticano a spiegare, attestata con regolarità nel padovano antico fino all’Ottocento. Per la seconda persona singolare il pronome atono diffuso in tutto l’entroterra veneto è [te] ([te ˈpɔrti] «porti», in contrapposizione al modello veneziano cittadino [ti]; ➔ Venezia, italiano di). Nella terza persona sono attestati: [el] per il maschile singolare; [la] o [ea] per il femminile singolare; [i] per il maschile plurale; [le] o [e] per il femminile plurale. Le forme toniche [mi] e [ti] funzionano sia come soggetto sia come complemento: [mi ˈvado] «io vado», [vjɛn ko mi] «vieni con me», [ti te vɛ] «tu vai», [ˈvɛɲo ko ti] «vengo con te». La forma del pronome riflessivo usata per la prima persona plurale dei verbi pronominali ([se peŋˈtimo] «ci pentiamo») è, a differenza dell’italiano, la stessa che si ritrova nella terza persona singolare e plurale ([el se ˈlava] «lui si lava», [i se ˈlava] «loro si lavano») e con valore di passivo ([se saˈmena soˈturko] «si semina granturco»). Per quanto riguarda il verbo, le desinenze della terza persona singolare coincidono con quelle della terza persona plurale (la possibilità di distinguere è affidata ai pronomi atoni) e il ➔ passato prossimo ha sostituito il ➔ passato remoto.
Una complessa stratificazione determina settori di convergenza con il resto del settentrione e settori di specificità. Vi sono nomi di origine celtica (sbaro «cespuglio», carànto «terreno roccioso», braghe «pantaloni», tamìso «setaccio»), germanica (tacón «toppa», broàr[e] «scottare», sbregàr[e] «stracciare»), greca (góndola, angùria, pantegàna «ratto d’acqua», pirón «forchetta»). Due parole-bandiera del Veneto sono ascrivibili alla fase della dominazione asburgica (1797-1866): schèi «denaro» (dalla prima parte di Scheidemünze «moneta spicciola», letta come era scritta nei centesimi austriaci) e spriz «vino con acqua minerale», che compie un lungo percorso, fino a entrare nel lessico italiano contemporaneo.
Tipicamente veneziana è la realizzazione di /l/ tra vocali, detta evanescente (dorso-palatale rilassata). Il suono che più le si avvicina è una breve [e] o una [j]: si avverte meglio tra due /o/ ([ˈkɔeo «collo»), due /a/ ([ˈskaea] «scala»), oppure /o/+/a/ ([ˈspɔea] «spola», [ˈzaeo] «giallo»); non si sente affatto quando la vocale che segue è una /e/ ([ˈpɛe] «pelle») o una /i/ ([oˈiva] «oliva») (cfr. Lepschy 1962). Da Venezia irradia una forma che non manca mai nello stereotipo linguistico: si tratta di [ze], la terza persona del presente indicativo di «essere», uguale al singolare e al plurale e di discussa origine, che per una tradizione ortografica consolidata, difficile da scalfire, si scrive xe. Attualmente compare nell’uso cittadino, di Venezia e delle aree che ne hanno subito l’influsso, e alterna con [ɛ] nel veronese, nel feltrino-bellunese, nel trevigiano di provincia e in larga parte del Polesine. L’imperfetto [ˈʤɛro] «ero», [te ˈʤeri] «eri», ecc., similmente caratterizza il veneziano ([ˈjɛro], [te ˈjeri]), tendenzialmente il padovano, con punti di sovrapposizione e talora con pronunce intermedie. Considerazioni analoghe si possono fare per le forme di «avere» con [g] iniziale [mi gɔ], [ti ga], nate dall’incorporazione nel verbo della particella [ge] «ci»: sono diffuse nei dialetti di pianura, contro [mi ɔ], [tu a], ecc., nel Nord della regione. Da Venezia sembra sia partita anche l’espansione di un particolare tipo di participio passato: forme come [moˈvesto] «mosso», [toˈlesto] «tolto», [pjoˈvesto] «piovuto», rare nei testi veneziani antichi e sempre più frequenti nei secoli successivi, si riducono progressivamente a Venezia e si concentrano in aree periferiche, diventando in alcuni luoghi un indicatore di marginalità. Ancora una differenza originariamente geografica, oggi letta in chiave sociale, sussiste tra i suffissi [ɛr] e [ˈaro], corrispondenti al toscano [ˈajo] in nomi di mestiere, di luogo e di piante: [skarˈpɛr] ~ [skarˈparo] «calzolaio» e [fiˈgɛr] ~ [fiˈgaro] «(albero di) fico», a grandi linee, distinguono le varietà di Venezia, Treviso e Belluno da un lato e quella di Padova con la pianura centrale dall’altro, mentre nel veronese [boteˈgɛr] «bottegaio» convive con [muˈnar] «mugnaio».
Negli scritti di G.B. Pellegrini (1977 e 1991) compare l’ipotesi che il venetico abbia esercitato qualche influsso sul latino nell’area veneta centro-meridionale (➔ sostrato). Quindi si potrebbe ritenere che l’erede della ‘veneticità’ originaria sia il veneto della pianura padovana, e in parte vicentina e polesana (pavano), nel corso del tempo squalificato come rozzo dialetto di terraferma in contrapposizione al prestigio del veneziano. Il pavano è stato progressivamente snaturato dall’azione livellatrice di Venezia, ma nei dialetti centrali permangono alcuni tratti caratterizzanti (cfr. Trumper 1972; Trumper & Vigolo 1995).
I dati rilevati nel 1927 per l’Atlante linguistico italiano mostrano come l’interdentale sorda di [ˈθeŋto] «cento» si mantenesse ancora salda nel padovano meridionale, mentre la sonora di [ˈðeŋte] «gente» spesso alternava con l’occlusiva: [ˈdeŋte] «gente» suonava quindi come «dente». Probabilmente si tratta del momento di massima resistenza di questi foni, che con il secondo dopoguerra, colpiti dallo stigma di rusticità, tendono a scomparire. La metafonia caratterizzava in passato i dialetti di quasi tutta l’Italia settentrionale, comprese ampie zone del Veneto, con l’eccezione di Venezia. Attualmente restano solo pochi esempi, quasi cristallizzati, del passaggio di [e] a [i] ([ˈpese] «pesce», [ˈpisi] «pesci») e di [o] a [u] ([ˈtozo] «ragazzo», [ˈtuzi]) nei plurali dei nomi e in qualche verbo ([ˈʤiri] «eravate»; [te gaˈvivi] «avevi»; [viˈdi] «vedete»). Le differenze più appariscenti con le aree contigue oggi sono: la prima persona singolare dell’imperfetto [mi skolˈtava] «io ascoltavo», anche se cominciano a farsi largo le forme in [-o], veneziane e più vicine all’italiano; la seconda persona singolare e plurale del futuro [te skoltaˈre] «ascolterai», [voˈaltri skoltaˈri] «voi ascolterete», che contrastano con il veneziano [ti skoltaˈra], [voˈjaltri skoltaˈre]; [te vɛ] «vai», [te dɛ] «dai», [te stɛ] «stai» si oppongono ai ‘cittadini’ [ti va], [ti da], [ti sta]; [el ˈpoe] «può», [el ˈvoe] «vuole», [el ˈvae] «vale» sono le forme più diffuse nella terraferma, mentre il veneziano e le aree di più diretta influenza veneziana hanno [el pol], [el vol], [el val].
Il veronese, che fino ai secoli XVI-XVII presentava tracce del precedente carattere lombardo, attualmente ha un’originalità fatta di tratti arcaici e analoghi alle varietà di pianura nelle aree periferiche, che in area urbana tendono a essere in alternativa (o addirittura sostituiti) con innovazioni di tipo veneziano. Sono ancora presenti in misura variabile: la mancanza di dittongazione ([veŋ] «viene», [mel] «miele»); la caduta di /v/ iniziale e intervocalica ([ˈoze] «voce», [ˈpjoa] «pioggia»); tipi particolari di plurale ([prɛ] «prati», [aŋˈdɛ] «andati»); alcune desinenze del verbo ([kaŋˈten] «cantiamo», [kaŋˈtema] nell’area di contatto col mantovano); il pronome interrogativo [ʧi] «chi», che contrasta con [ki] «qui».
Parte del territorio e soprattutto il centro urbano di Treviso hanno risentito dell’espansione del modello veneziano: particolarmente colpite le pronunce con foni interdentali o aspirazione. Si conservano nella coniugazione del verbo tratti arcaici un tempo presenti anche in pianura e ora confinati in aree periferiche: le uscite in /e/ della prima persona singolare ([mi ˈbate] «io batto») e in /on/ della prima persona plurale ([parˈloŋ] «parliamo»); l’imperfetto in /ea/: [mi kaŋˈtea] «cantavo»; il condizionale in /ae/: [mi skoltaˈrae] «io ascolterei».
Nelle indagini dell’ISTAT sull’uso dei dialetti e della lingua italiana il Veneto è sempre stato ai primi posti per le percentuali attribuite alle varietà locali, pur nel quadro di un progressivo incremento dell’italiano. Nel 2007 l’uso prevalente, anche se non esclusivo, del dialetto riguardava quasi il 70% del campione generale, con una lieve crescita anche tra i giovani. Addirittura nel rapporto con estranei si dichiarava un uso esclusivo o prevalente del dialetto nel 15% dei casi, il dato in assoluto più alto a livello nazionale.
I motivi della tenuta sono stati individuati nella maggiore vicinanza strutturale all’italiano; nel maggior prestigio del veneto, che diversamente da altri dialetti ha una tradizione d’uso anche in situazioni relativamente formali (ai tempi della Repubblica Serenissima, il veneziano era impiegato negli usi ufficiali e scritti: Cortelazzo 1982); nella prevalenza di centri abitati di piccole e medie dimensioni, che consentono di conservare il modello linguistico locale. La valorizzazione, tutela e diffusione del patrimonio linguistico è oggi assicurata anche da una legge regionale del 2007.
La produzione letteraria più consistente è di matrice veneziana, con prime attestazioni che risalgono al XIII secolo. Tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento scrive in un misto di italiano e dialetto il poeta petrarchista Leonardo Giustinian. Nel Cinquecento compaiono, in una lingua composita in cui prevale il veneziano, le Cronache di Marin Sanudo e l’ampia produzione di commedie, poesie ed epistole di Andrea Calmo. Nel Settecento una singolare testimonianza viene dalla Raccolta de’ proverbi, detti, sentenze, parole e frasi veneziane di Francesco Zorzi Muazzo, una sorta di vocabolario dialettale monolingue; ma ➔ Carlo Goldoni è certo l’esponente di maggior prestigio. Poi la produzione teatrale e poetica prosegue, mostrando continuità nei secoli fino a oggi, con un numero così elevato di autori, che non è possibile considerarli in breve spazio. L’antico padovano, il pavano, assume piena vitalità nelle commedie di Angelo Beolco detto il Ruzzante (1502-1542): costituiranno l’inizio di un filone letterario, destinato a durare fino agli inizi del Novecento con la rappresentazione caricaturale del campagnolo rozzo e astuto (➔ latino macaronico). Il trevigiano emerge, sempre nel Cinquecento, nel testo poetico noto come Egloga di Morel e tra i contemporanei è indispensabile ricordare almeno Andrea Zanzotto (1921), che elabora come lingua poetica la varietà periferica e conservativa di Pieve di Soligo.
Nell’area feltrino-bellunese i nomi più noti sono Bartolomeo Cavassico (1480-1555) e Vittore Villabruna (1668-1767), ma pubblicazioni specifiche ne ricordano molti altri. L’area veronese si manifesta precocemente con la scrittura didascalica di Giacomino da Verona (XIII sec.); per il periodo più recente va ricordata la poesia di Berto Barbarani (1872-1945).
Per quanto riguarda le tradizioni popolari, anche se le prime raccolte ottocentesche sono di area cittadina (in particolare di Venezia), le forme dell’espressività orale sono state tramandate soprattutto all’interno della cultura contadina. Il filò, la veglia invernale che radunava nel calore delle stalle intere famiglie, occupate in piccoli lavori manuali, ha rappresentato fino al secondo dopoguerra il principale momento di condivisione di un vasto repertorio di fiabe, racconti, aneddoti, canti, preghiere, filastrocche. Dino Coltro (1929-2009), instancabile ricercatore delle tradizioni linguistiche e delle memorie della sua terra, ha raccolto e pubblicato centinaia di pagine di area veronese (cfr., per es., Coltro 1975-1978). Sillogi di minore entità sono state redatte anche per l’area bellunese e per la pianura centrale.
Data la relativa vicinanza delle varietà venete al toscano, i dialetti veneti sono facilmente rappresentabili attraverso il modello grafico italiano. Nei testi antichi compaiono i segni ‹ç› per l’affricata dentale sorda e sonora ([ʧ] e [ʤ]), e ‹x› per la fricativa dentale sorda e sonora ([ʃ] e [ʒ]), forse con una qualità fonetica diversa da quella attuale. La ‹x› mostra una notevole persistenza, soprattutto nel verbo ‹xe› «è, sono», diventando oggi una sorta di bandiera della veneticità.
Nel dizionario del veneziano di Giuseppe Boerio (1856) ‹ch(i)› corrisponde sia alla velare di chilo che alla palatale di chiesa [ˈʧeza], ‹z› indica l’affricata dentale sorda e sonora, ‹s› può valere sia per la sorda di [ˈseŋto] «cento» che per la sonora di [ˈzente] «gente», mentre ‹ss› intervocalica di cassa corrisponde a [s], non geminata nella pronuncia. I problemi fondamentali di rappresentazione nelle grafie non specialistiche (oltre all’opposizione tra [e] e [o] aperte e chiuse e alla distinzione tra sorda [s] e sonora [z], più frequente che in italiano in posizione interna e presente anche in posizione iniziale) sono: il nesso ‹sc› in parole come [ˈsʧɔpo] «schioppo», [ˈrisʧo] «rischio»; la laterale evanescente di tipo veneziano; la /ŋ/ in fine parola e in chiusura di sillaba. Una proposta di Grafia veneta unitaria, pubblicata nel 1995 a cura della Giunta regionale del Veneto, non ha trovato pieno consenso da parte di chi è legato alle proprie scelte grafiche, che, in qualche caso, hanno anche valore di identificazione culturale.
Boerio, Giuseppe (1856), Dizionario del dialetto veneziano, Venezia, Giovanni Cecchini.
Grafia veneta unitaria. Manuale (1995), a cura della Giunta regionale del Veneto, Venezia, Giunta regionale del Veneto; Battaglia Terme, La Galiverna.
Coltro, Dino (1975-1978), Paese perduto. La cultura dei contadini veneti, Verona, Bertani, 4 voll.
Cortelazzo, Manlio (1982), Il veneziano, lingua ufficiale della Repubblica? in Id. (a cura di), Guida ai dialetti veneti, Padova, CLEUP, 1979-1993, 15 voll., vol. 4º, pp. 59-73.
Lepschy, Giulio C. (1962), Fonematica veneziana, «L’Italia dialettale» 25, pp. 1-22.
Marcato, Carla (2002), Il Veneto, in I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, a cura di M. Cortelazzo et al., Torino, UTET, pp. 296-328.
Marcato, Gianna & Ursini, Flavia (1998), Dialetti veneti. Grammatica e storia, Padova, Unipress.
Pellegrini, Giovanni Battista (1977), Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa, Pacini.
Pellegrini, Giovanni Battista (1991), Dal venetico al veneto. Studi linguistici preromani e romanzi, Padova, Editoriale Programma.
Trumper, John (1972), Il gruppo dialettale padovano-polesano. La sua unità, le sue ramificazioni, Padova, Rebellato.
Trumper, John & Vigolo, Maria Teresa (1995), Il veneto centrale. Problemi di classificazione dialettale e di fitonimia, Padova, CNR, Centro di studio per la dialettologia italiana.
Zamboni, Alberto (1974), Veneto, in Profilo dei dialetti italiani, a cura di M. Cortelazzo, [poi] di A. Zamboni, Pisa, Pacini, 23 voll., vol. 5º.