DIALETTOLOGIA
La d. nasce nel 19° secolo con ritardo rispetto alla linguistica tout court, e non soltanto perché ne forma un sottoinsieme ancillare, dedito all'indagine sulle varietà (di frequente segnate da inferiorità sociale) di una lingua, cioè, di un'entità linguistica di maggior diffusione o vetustà o prestigio. Piuttosto occorreva che si affermasse il modello comparatistico della linguistica genetica prima che lo studio dei dialetti europei potesse assurgere a dignità e forma scientifica.
Così nacque la d. sotto il segno dello Stammbaum, cioè l'albero genealogico delle filiazioni storiche di idiomi affini ramificantisi nel tempo e nello spazio, e quindi i suoi primi oggetti di studio saranno i dialetti per divergenza (v. oltre) ipotizzati come specimina microcosmici dei processi globali che si venivano scoprendo nell'indoeuropeistica ottocentesca.
Primordi della dialettologia. − Come non mancarono, nel passato, abbozzi più o meno completi di rassegne dialettali (da Dante e Lionardo Salviati, con scopi negativi, a una schiera di seicentisti campanilisti), così non sono mancati precursori (anche preterintenzionali) di una proiezione genetica storicistica della dialettologia. Con riguardo all'Italia, l'illuminista piemontese C. Denina (1731-1813) iniziava le sue Observations sur les dialectes (1797) avvertendo che "i dialetti o linguaggi particolari delle diverse provincie d'un grande paese non sono figli della lingua alla cui nazione appartengono, ma piuttosto le sono fratelli ... sono nati dalla medesima lingua primaria ... da cui si formò quel dialetto che in seguito divenne la lingua dominante del paese"; e, nella monumentale Clef des langues (1804), tentava una classificazione dei dialetti italiani in seno al gruppo neolatino. Il viaggiatore pomerano C. L. Fernow (1763-1808) offrì un'antologia dialettale commentata con erudizione, ma i suoi criteri restano sostanzialmente geografici o elencatori, senza cercare di proporre un qualche paradigma dinamico, pur se Fernow si richiamasse alla tendenza storica delle lingue a differenziarsi in Dialekte o verschiedenen Mundarten.
Dialettologia in espansione: ''dialetto'' in senso lato. − I sinonimi Dialekt e Mundart presto invaderanno, nell'uso scientifico, lo spazio semantico di Sprache, almeno su quella parte che coinvolge la lingua in una prospettiva storico-genetica. Nell'epoca in cui L. Diefenbach (Über die jetzigen romanischen Schriftsprachen, 1831) e F. Diez trasposero il paradigma indoeuropeo al gruppo romanzo, si comincerà a parlare di grandi entità linguistiche (quali il francese, lo spagnolo o il tedesco) come dialetti per la loro posizione storico-genetica. La Grammatik der romanischen Sprachen di Diez (1836, dedicata a J. Grimm, di cui ricalca la grammatica comparata germanica del 1822) intese le stesse lingue romanze come "romanischen Mundarten" e spiegò come il "Galliens romanischer Dialekte", ossia il gallo-latino, si scindesse in due grosse "romanischen Mundarten Galliens" (le lingue d'oc e d'oil). In quest'ottica, dialetto veniva impiegato senza connotati sociali: cfr., per es., Les dialectes indo-européens, fortunata sintesi con cui A. Meillet nel 1922 inaugurò la serie monografica della Société de linguistique de Paris. Peraltro, sul nuovo uso ''tecnico'' di dialetto già nel 1845 giocava Manzoni nella lettera a G. Carena, servendosi dell'impossibilità di una distinzione scientifica, ossia fenomenologica e antropologica, tra esso e lingua, come piattaforma per la sua tesi ''fiorentina''.
A rigor di termini, tutta la linguistica genetica, per non dire più ampiamente comparativa, avrebbe potuto finire per identificarsi, al limite, con la dialettologia. Ma, come contrappeso o freno pragmatico, intervenne, per effetto inerziale, l'uso consuetudinario per cui si continuava a riconoscere in dialetto le sfumature sociali che da circa due secoli vi erano state collegate.
Già nelle polemiche linguistiche rinascimentali si era verificata la translatio del grecismo dialetto (〈dialectos/-us, "parlata particolare, sottospecie locale di lingua" 〈διάλεϰτοϚ femm., ma già al masch. presso Lionardo Salviati, verso il 1589), dapprima limitandone l'uso alle cinque antiche parlate greche − che diedero luogo alla koiné livellata −, e poi estendendolo al più generico rapporto tra favelle o parlari particolari di una subarea e una lingua sopraregionale comune. Tale subordinazione geolinguistica comportò ineluttabilmente un correlato sociolinguistico, per cui si giunse nel Settecento all'odierno binomio che contrappone lingua, varietà di prestigio, ai dialetti multipli e infimi, subalterni per via dei loro utenti e ristretti e frammentati per via degli ambiti geoculturali dei loro usi.
Centralità dell'Italia nella giovane dialettologia. − In breve tempo l'ampio modello indoeuropeo venne trasferito nel più ristretto ambito romanzo, e l'Italia doveva assumere un posto privilegiato per due motivi: in primo luogo, per la ricchezza del suo mosaico linguistico; gli intellettuali romantici erano sensibili alla sua profonda frammentazione dialettale, e Madame de Staël ne rimase tanto colpita dopo il viaggio del 1805 (guidata da Sismondi e Schlegel) da affermare che l'Italia era "l'unico paese europeo i cui diversi dialetti vantavano ognuno un proprio ''genio'' indipendente" (Corinnexvi, 1). In secondo luogo, a far sì che l'Italia assumesse tale posto privilegiato negli studi dialettologici fu il concorso degli ingegni che s'impegnarono nello studio del patrimonio dialettale italiano. Se non il primo nell'applicare le lezioni d'oltralpe, B. Biondelli (1804-1886) fu certamente il più originale e metodico dei membri di quell'avanguardia milanese che si raccoglieva intorno a Cattaneo e al Politecnico.
Biondelli era a conoscenza dell'opera grammaticale di Grimm (nel 1840 sul Politecnico apparve un suo articolo sulla Grammatica di tutte le lingue germaniche del Dott. Jacopo Grimm), del quale condivideva a pieno l'entusiasmo per l'etnostoria: ma, più che alle antiquitates filologiche, preferì rivolgere l'attenzione, verso il 1845, alle parlate vive, per cui gli si rese necessaria una trascrizione semi-fonetica, mentre per il corpus accettò l'uso della Parabola del figliuol prodigo, sancito dalla tradizione europea, pur con gravi riserve (e soltanto per consentire la comparazione diretta con i lavori preesistenti), in quanto avrebbe preferito un campione antropologicamente più radicato nella vita contadina, e quindi meno esposto a influssi estranei.
La sua classificazione dei dialetti altoitaliani è rimasta sostanzialmente valida; e altrettanto valido è il riconoscimento delle loro sfumatissime transizioni, attraverso dialetti intermedi, definizione capitale ripresa successivamente da C. Tenca e da N. Caix, e naturalmente da H. Schuchardt (v. oltre).
Sin dal titolo, il suo Saggio sui dialetti gallo-italici (1853) dichiara l'impegno antiquario "di rivelare quanto copiosi appaiano i ruderi di antiche lingue onde i nostri dialetti compongonsi", fondandosi sul concetto di sostrato come pietra angolare del cambiamento linguistico: "ogni provincia parlò latino a suo modo ... non era in suo potere dimenticar interamente le forme né molto meno la nativa pronuncia ... delle antiche lingue che precedettero la latina. ... Di qui appunto ebbe origine quella varietà di dialetti che distinguono tutt'ora le varie provincie d'Italia".
La ricerca di putative vestigia celtiche e l'attribuzione di un cospicuo numero di tratti dialettali padani al sostrato prelatino sembrano oggi gli elementi più antiquati dell'opera biondelliana, ma proprio tali ''motivi etnologici nelle trasformazioni del linguaggio'' vennero accolti dal suo maggiore critico, G. I. Ascoli (1829-1907).
L'illustre goriziano, che poco tollerava rivali, attese per quattro anni agli Studj critici (tra gli Studj orientali e linguistici, 1861) che misero nell'ombra le attività linguistiche di Biondelli (la riabilitazione del linguista veronese sarebbe avvenuta solo a distanza di un secolo con S. Pop, B. Terracini, T. De Mauro e altri). I Saggi ladini pubblicati da Ascoli nell'Archivio glottologico (1873) offrono già una grammatica storica comparata in senso paradigmatico e moderno. L'opera, che mirava a "ricomporre, nello spazio e nel tempo, una delle grandi unità del mondo romano... dalle sorgenti del Reno-anteriore in sino al mare Adriatico", venne dedicata a Diez, il grande studioso innovatore di Bonn che per altro era ignorato da Biondelli. Appare chiaro, anche in ciò, lo sforzo di Ascoli di superare ogni provincialismo; va ricordato che 15 anni prima il linguista goriziano aveva dedicato un suo saggio sul friulano (e il romeno) al lessicografo udinese, abbate J. Pirona.
Ma, comunque, Ascoli andò ben oltre il modello dieziano, estendendone i criteri in senso prettamente linguistico per la sua ''ricostruzione'' alpina: gli idiomi sotto esame non fornivano infatti una documentazione letteraria consistente (quale la forniva il provenzale che era stato il ''primo amore'' di Diez), per cui Ascoli dovette far ricorso a una rete di corrispondenti e immigrati valligiani; inoltre tali idiomi non potevano vantare un'unità politico-culturale, come, per es., il portoghese rispetto allo strutturalmente prossimo castigliano, né tanto meno compattezza geografica, come il romeno in mezzo al mare alloglotto mitteleuropeo. Le ''frontiere'' delle parlate alpine erano semmai logore e frante da secolari interpenetrazioni, tanto che il 40% dei Saggi doveva essere riservato a esaminare le ''anfizone'' periladine onde desumerne un profilo distribuzionale della triade più conservatrice.
I Saggi ladini riscossero un immediato successo in Europa, consentendo ad Ascoli di vincere il premio della Boppstiftung, mentre i successivi Schizzi franco-provenzali (in circolazione già dall'anno seguente, cio'e il 1874) incontrarono maggiori contestazioni.
Dialettologia come sede di scontro scientifico (dalla classificazione alla casualità). − P. Meyer già a una prima lettura degli Schizzi franco-provenzali espresse delle riserve che s'incentrarono sullo stesso concetto di ''dialetto'' come entità definibile, e quindi sui criteri per distinguere entità discrete in un continuum di parlate finemente sfaldate; lo studioso parigino sostenne che "le dialecte est une espèce bien plutôt artificielle que naturelle; que toute définition du dialecte est une definitio nominis et non une definitio rei. Or, si le dialecte est de sa nature indéfini, on conçoit que les groupes qu'on en peut former (c'est-à-dire le groupe franco-provençal) ne sauraient être parfaitement finis" (in Romania, 4 [1875], pp. 294-96).
Al limite sarebbe lecito fissare confini soltanto per i singoli fenomeni, come questi andavano assumendo storicamente un andamento a onde; si ricorderà che in base alle proiezioni cartografiche dell'Atlante Italo-Svizzero (AIS) gli spartiacque linguistici italiani saranno concepiti come fasci di isoglosse, la ''linea La Spezia-Rimini'' o la ''linea Roma-Ancona'', ecc.
La metafora del disporsi a onde dei tratti linguistici nello spazio in funzione del tempo (già presente in Tenca in rapporto ai ''dialetti intermedi'' e alle ''zone commiste''), si fece esplicita in Der Vokalismus des Vulgarlateins (1868) di H. Schuchardt, che propose d'immaginare "la lingua nella sua unità come uno specchio d'acqua; esso è messo in movimento dal fatto che in diversi punti si formano centri di onde, i sistemi dei quali, più o meno ampii, secondo la intensità della forza motrice, si vengono a incrociare" (si cita dalla trad. it. di C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Bologna 19726, p. 19). Tale immagine assunse poi la forma di una completa Wellentheorie (sempre primariamente in ambito indoeuropeistico) con J. Schmidt nel 1872 (Die Verwandschaftsverhältnisse der indogermanischen Sprachen). Tale teoria della diffusione e della mescolanza linguistica doveva necessariamente mettere in crisi la visione di processi storici di divergenza soltanto attraverso cambiamenti regolari (rappresentati dalle Lautgesetze), o almeno di ragione interna (Analogie), in quanto implicava una fase essenziale di variazioni nella comunità, di scelta poi da parte dei parlanti, e, infine, di formazione dei dialetti per convergenza (simile è il pensiero di Whitney, 1867, p. 373 ss.).
Per di più, proprio nel settore ritenuto il bastione della regolarità, la fonologia, quanto più si approfondivano gli studi di fonetica, tanto più si sgretolava l'unità del singolo dialetto: la genesi e la diffusione dei mutamenti si trasferivano così all'interno di ogni minimo villaggio.
Bastarono un ritorno al paese natio e poche chiacchiere con la madre a convincere P. Rousselot che "à l'étude géographique il est nécessaire d'ajouter l'étude généalogique des patois" (Les modifications phonétiques du langage étudiées dans le patois d'une famille de Cellefrouin (Charente), Parigi 1891, p. 2), per cui egli si dedicò a registrare le variazioni, percepite come cambiamenti in corso, in seno alla propria famiglia.
Uno studio analogo, focalizzato su un solo borgo franco-provenzale, indusse L. Gauchat a concludere che "rigoureusement il n'y a pas d'unité dans le parler de Charmey, parce que les générations ne sont pas d'accord" (L'unité phonétique dans le patois d'une commune, in Festgabe für Heinrich Morf, Halle 1905, pp. 175-232). Questi due studi spinsero un giovane, B. Terracini (1886-1968), a corredare di un'importante Appendice sulla "varietà nel parlare di Usseglio" la propria descrizione di quel dialetto (franco-provenzale in Val di Viù: Il parlare d'Usseglio, in Archivio Glottologico Italiano, 17-18 [1914-22]), dandole così un taglio più geolinguistico, fondato anche sul contatto e ''la lotta'' tra varianti all'interno delle cinque borgate usseglienghe.
In tal modo la microdialettologia comportava macroconseguenze per la teoria del mutamento linguistico: ne emergeva che la variazione, anche minuta, doveva manifestarsi sul piano diastratico (e diafasico) non meno che su quello diatopico.
Il paradigma della dialettizzazione (ossia del cambiamento in nuce), nato e cresciuto come scienza della diversificazione genetica à longue période, venne così completandosi in meno di un secolo con il concetto della convergenza o dell'ibridizzazione, e l'ascoliana ''reazione etnologica'' (fondata su vaghe ''predisposizioni orali'') venne soppiantata dalla reazione sociale, ben più adeguata alla lingua come istituzione umana.
La dialettologia e le discipline contigue. − Se Schuchardt, nell'insistere sull'atto linguistico come fatto sociale, scatenava una crisi teorica incentrata sul problema della diffusione e della convergenza dei fenomeni linguistici (cfr. le sue riserve nei riguardi dei neogrammatici espresse nel 1885 nel famoso Über die Lautgesetze. Gegen die Junggrammatiker), le sue posizioni erano però anche all'origine di una meno felice reazione antiteorica in direzione di un empirismo che condusse alla fine all'atomismo (ogni parola vanta la propria storia individuale) e a una certa emarginazione della d. rispetto alla sua matrice più decisamente linguistica.
L'indagine sul contesto socio-economico e fin'anche ergologico, integrando lo studio delle parole nella storia della cultura materiale (Wörter und Sachen; cfr. Vàrvaro 1968, pp. 251-76), minacciò dopo la prima guerra mondiale d'indebolire il taglio linguistico della disciplina, rendendola ancella delle discipline folkloriche o dell'antropologia. Contribuiva a ciò forse anche il notevole fascino che la vita contadina tradizionale esercitava presso gli stessi dialettologi che privilegiavano le varietà più arcaiche (''pure'') proprie di parlanti meno raggiunti da intrusioni forestiere (i NORM = nonmobile, older, rural males di J. K. Chambers, P. Trudgill, Dialectology, Cambridge 1980, pp. 33 ss.; cfr. anche Y. Malkiel, Revisionist dialectology and mainstream linguistics, in Language in Society, 13 [1984], pp. 29-66), a scapito della d. urbana che, nonostante pionieri isolati come R. J. Cuervo, venne praticata soltanto a partire dagli anni Settanta di questo secolo (cfr. Parole e metodi, della rinnovata scuola torinese, oppure, in chiave storica, il volume del 1970 di G. Ernst sul romanesco).
Mentre un'aggiornata ''demolinguistica'' non può fare a meno di un'accurata valutazione del contesto sociale, né della frequentazione di discipline per certi versi contermini (come la storia femminile, la storia dell'infanzia, o quella delle minoranze, degli ambulanti, ecc., o anche la storia della cultura materiale, delle ''mode'', ecc.), la d. continuava a trovare il suo oggetto primario d'indagine nella diversificazione del parlato, tracciata nei suoi vettori convergenti o divergenti, e nelle modalità con cui tali dinamismi complementari illuminano le cause intime del comportamento linguistico.
Per la realtà italiana e il rapporto dialetto-lingua, v. italia: Lingua, in App. IV, ii, p. 262.
Bibl.: Sui ''primordi'' della dialettologia v. soprattutto M. Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia (fino al 1800), Tubinga 1980, e P. Benincà, Piccola storia ragionata della dialettologia italiana, Padova 1988; di Denina v. il vol. Storia delle lingue e polemiche linguistiche (dai saggi berlinesi 1783-1804), a cura di C. Marazzini, Alessandria 1985; su Fernow, cfr. H. J. Izzo, Carl Ludwig Fernow as Italian dialectologist and Romanist, e H. Thun, Carl Ludwig Fernow (1763-1808). Sein Beitrag zur Romanistik und zur Italienistik, entrambi in In memoriam Friedrich Diez, a cura di H. J. Niederehe e H. Haarmann, Amsterdam 1976, pp. 125-43 e 145-73.
Un impiego di dialetto privo di connotati sociali si ha, ben prima di Meillet, in W. D. Withney, Language and the study of language: twelve lectures on the principles of linguistic science, New York 1867, p. 175 (e persiste ancora oggi, per es., fin nel titolo Ancient indo-european dialects, a cura di H. Birnbaum e J. Puhvel, Berkeley - Los Angeles 1966). Sui primi usi di dialetto in ambito rinascimentale v. M. Cortelazzo, Avviamento critico allo studio della dialettologia italiana. 1: Problemi e metodi, Pisa 1969, p. 12 e passim. Su Biondelli, v. S. Pop, La dialectologie: aperçu historique et méthodes d'enquêtes linguistiques, Lovanio 1950; B.A. Terracini, Aspetti geografici dei problemi della dialettologia italiana, parte i, Torino 1954 (ma cfr., meno favorevole, la voce Biondelli, Bernardino, in questa Enciclopedia, vol. vii, p. 55); P. Faré, I manoscritti di Bernardino Biondelli nella Bibl. Ambrosiana di Milano, in Aevum, 44 (1970), pp. 155-90 (e cfr. D. Santamaria, Bernardino Biondelli e la linguistica preascoliana, Roma 1981, pp. 110-18); T. De Mauro, Bernardino Biondelli e l'inizio degli studi linguistici in Italia, ora in Idee e ricerche linguistiche nella cultura italiana, Bologna 1989, pp. 49-52; per i ''motivi etnologici nelle trasformazioni del linguaggio'', A. Vàrvaro, Storia, problemi e metodi della linguistica romanza, Napoli 1968, pp. 167-71; cfr. S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa 19692, pp. 247-48; D. Silvestri, La teoria del sostrato. Metodi e miraggi, ivi 1977, pp. 149, 155-56; sui ''dialetti intermedi'', C. Tenca, Crepuscolo, Milano 1853; N. Caix, Saggio sulla storia della lingua e dei dialetti d'Italia, con un'introduzione sopra l'origine delle lingue romanze, Parma 1872, pp. 9-10 (cfr. D. Santamaria, Bernardino Biondelli, cit., pp. 103, 123-24).
I Saggi di Ascoli si erano avvalsi anche di studi austriaci precedenti: cfr. E. F. Tuttle, Ladinisch, in G. Holtus e altri, Lexikon der Romanistischen Linguistik, vol. iii, Tubinga 1989, pp. 733-42.
Per la difesa della sua "scoverta", cfr. G. I. Ascoli, P. Meyer e il franco-provenzale, in Archivio Glottologico Italiano, 2 (1876), pp. 385-95; e anche N. Maccarrone, Il concetto dei dialetti e l'''Italia dialettale'' nel pensiero ascoliano, in Silloge linguistica G. I. Ascoli, Torino 1919, pp. 302-32, e Vàrvaro, Storia, cit., pp. 106 n. 7, e 114-18.
Sulla linea ''La Spezia-Rimini'' (o meglio ''Carrara-Fano''), cfr. G. B. Pellegrini, Carta dei dialetti d'Italia, Pisa 1977; sulla linea ''Roma-Ancona'', G. Rohlfs, La struttura linguistica dell'Italia, in Studi e ricerche su lingue e dialetti d'Italia, Firenze 1937, pp. 6-25 (e v. ora U. Vignuzzi, Marche, Umbrien, Lazio, in G. Holtus e altri, Lexikon, cit., vol. iv, Tubinga 1988, pp. 606-42); per una rassegna critica sulla geografia linguistica, v. S. Pop, La dialectologie, cit., e L. Massobrio, Gli atlanti linguistici, Novi Ligure 1988.
Di R. J. Cuervo, v. Apuntaciones críticas sobre el lenguaje bogotano, Bogotà 1867-72; Parole e metodi (= Bollettino dell'Atlante Linguistico Italiano) è stato pubblicato a Torino dal 1970 al 1973; il vol. di G. Ernst è Die Toskanisierung des romischen Dialekts im 15. und 16. Jahrhundert, Tubinga 1970.