Dialogo tra Corti in materia di immigrazione
L’applicazione delle norme dell’Unione europea in materia di immigrazione, basate sul principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri crea, sempre più frequentemente, obblighi contrastanti per gli Stati europei che, al contempo, hanno ratificato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La giurisprudenza della C. eur. dir. uomo e della C. giust. UE, nell’ambito delle rispettive giurisdizioni, pur presentando importanti punti di contatto, dimostra come non sempre sia possibile trovare un bilanciamento tra gli interessi dei singoli e il potere degli Stati in materia di ingresso, soggiorno ed allontanamento degli stranieri.
L’incremento dei flussi migratori che ha interessato i Paesi europei e il necessario bilanciamento tra i diritti dei migranti e la sovranità degli Stati, ha accresciuto l’attività della Corte europea dei diritti dell’uomo (in seguito C. eur. dir. uomo) e della Corte di giustizia dell’Unione europea (in seguito C. giust. UE) riguardo la compatibilità tra gli obblighi derivanti agli Stati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (in seguito CEDU) e il Sistema di Dublino, disciplinato dal regolamento (UE) n. 604/2013 e basato sulla reciproca fiducia e sulla cooperazione tra tutti gli Stati, come previsto per la realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia1. Secondo il sistema di Dublino, la responsabilità dell’esame di una domanda d’asilo spetta soprattutto allo Stato di ingresso, ma può trattarsi anche dello Stato che ha rilasciato il visto o il permesso di soggiorno a un cittadino di un paese terzo che decide di rimanere nel paese e chiedere asilo. Inoltre gli artt. 18 e 19 della Carta dei diritti fondamentali (in seguito Carta) sanciscono rispettivamente il diritto di asilo ed il principio di non-refoulement «verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti». Per la nostra indagine, degno di nota è l’art. 52, par. 3, della Carta secondo cui «laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa».
La CEDU, invece, conformandosi al principio di diritto internazionale secondo cui gli Stati sono liberi in materia di ingresso, soggiorno ed espulsione degli stranieri, contiene poche norme riguardanti i loro diritti. Al momento della sua adozione il riferimento ai diritti degli stranieri era contenuto solo negli artt. 5.1 lett. f) (privazione della libertà per ragioni legate all’ingresso irregolare o all’allontanamento) e 16 (limitazioni dell’attività politica degli stranieri); successivamente sono stati aggiunti, per coloro che si trovano regolarmente nel territorio dello Stato, l’art. 2 del prot. n. 4, che prevede la libertà di movimento e di scelta della propria residenza, e l’art. 1 del prot. n. 7, che accorda alcune garanzie procedurali in caso di allontanamento. Per tutti gli stranieri, invece, indipendentemente dalla regolarità della loro presenza nel territorio dello Stato, la sola norma a tutela dei loro diritti è l’art. 4 del prot. n. 4 che ne vieta le espulsioni collettive. La C. eur. dir. uomo ha più volte ribadito che la CEDU non contempla il diritto di asilo e che essa non ha competenza a giudicare sul comportamento degli Stati in merito alla concessione o meno del diritto dell’ingresso e dell’asilo. Malgrado tale rigidità formale del testo, la Corte ha esteso la tutela della Convenzione agli stranieri, riconoscendo ad essi una protezione par ricochet (indiretta) nel caso in cui siano colpiti da un provvedimento di allontanamento o di rifiuto del permesso di soggiorno, che possa comportare una violazione, in particolare, dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti). La sua formulazione generica, infatti, ha permesso alla C. eur. dir. uomo di adottare un’interpretazione estensiva, così da farvi rientrare variegati comportamenti e individuare più facilmente una responsabilità degli Stati. Ad avviso della C. eur. dir. uomo, infatti, il principio di diritto internazionale di non-refoulement, deve essere considerato «already inherent in the general terms of article 3». Gli Stati violano tale disposizione anche quando consentono che altri tengano una condotta illegittima nei confronti di una persona che era nella loro disponibilità: essendo il diritto sancito dall’art. 3 assoluto, per quanto gravi siano i motivi che giustificano l’allontanamento, essi non possono mai prevalere sulla sua efficacia2. Circa la compatibilità dell’applicazione del “sistema di Dublino” con gli obblighi derivanti agli Stati dalla CEDU, dalla originaria affermazione del principio della protezione equivalente secondo cui sarebbe necessario verificare se l’Unione europea assicuri una tutela dei diritti fondamentali equivalente, sia a livello sostanziale sia a livello procedurale a quella garantita dalla CEDU, affermata nella sentenza Bosphorus, sempre più frequentemente si è richiamata la cd. clausola di sovranità del reg. 64/2013, che accorda agli Stati il potere di farsi carico dell’esame di una domanda di asilo, in deroga ai criteri previsti dal reg. Lo strumento della clausola di sovranità, introduce un margine di discrezionalità che esclude l’applicazione del principio di protezione equivalente rispetto al meccanismo di Dublino, ed è funzionale a garantire la compatibilità tra gli obblighi convenzionali e il sistema stesso, consentendone una deroga, in caso di manifesto “malfunzionamento”3.
La nostra attenzione è rivolta, nel prosieguo dell’indagine, alla giurisprudenza recente delle Corti, mettendo in evidenza le novità dal punto di vista interpretativo, le simmetrie e le eventuali asimmetrie che si sono realizzate. Per quanto riguarda la C. eur. dir. uomo le più recenti sentenze che hanno affrontato il problema della responsabilità statale per violazioni collegate a comportamenti derivanti dal diritto dell’Unione europea dell’immigrazione, hanno riguardato principalmente casi di espulsione, permettendo alla Corte di ampliare il significato dell’art. 3 CEDU e quindi della protezione par ricochet che ne deriva. Nel caso F.C. c. Svezia del 23.3.2016, il ricorrente, cittadino iraniano, ha presentato domanda di asilo in Svezia, giustificandola con la propria attività politica a sostegno degli oppositori del governo, attraverso la creazione di pagine web, ma non facendo riferimento alla sua conversione al cristianesimo. Le autorità svedesi rigettano tale domanda, considerando l’attività politica del ricorrente di basso profilo, ed evidenziando che il soggetto non è ricercato dal governo iraniano dal 2009, né la sua famiglia ha subito ritorsioni. Il ricorrente chiede allora la sospensione dell’ordine di espulsione, motivandola – questa volta – con la sua conversione alla religione cristiana, ma anche in questo caso ottiene un rifiuto. Nel suo ricorso egli lamenta che le autorità svedesi non avrebbero considerato in modo adeguato le sue passate vicende giudiziarie. Il fatto poi che egli non abbia inizialmente addotto la conversione a fondamento della domanda di asilo è giustificato sostenendo di non aver voluto banalizzare la sua fede, utilizzandola a sostegno della domanda di asilo. Pur ribadendo che gli Stati contraenti hanno il diritto di controllare l’entrata, il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri, la Corte ribadisce la sua competenza ad esaminare la situazione dei paesi di destinazione per evitare che si possano verificare violazioni dell’art. 3 CEDU. Per quanto riguarda l’attività politica del ricorrente, la Corte ritiene che non ci sarebbe stata violazione degli artt. 2 e 3 CEDU, in caso di espulsione verso l’Iran. Circa la conversione religiosa, invece, la Corte sostiene che, in presenza di un rischio conosciuto e di carattere generale (come quello riguardante gruppi religiosi regolarmente discriminati), le autorità statali devono stabilire d’ufficio se il rischio vale anche nel caso concreto. Non avendo le autorità svedesi assolto a tale obbligo ci sarebbe una violazione dell’art. 3 se egli fosse rinviato in Iran. Da segnalare, ancora, la sentenza J.K. e altri c. Svezia del 23.8.2016, in cui la Corte valuta il comportamento di attori non statali. Il caso riguarda tre cittadini iracheni che hanno chiesto asilo in Svezia e sono destinatari di una decisione di espulsione verso l’Iraq. La Corte ha ammesso che la situazione generale in materia di sicurezza in Iraq non impedisce, di per sé, l’allontanamento dei ricorrenti, tuttavia la situazione personale di questi ultimi, secondo le informazioni provenienti da fonti attendibili, fa ritenere che vi sia il fondato dubbio che in Iraq sarebbero esposti a rischi provenienti da attori non statali. Infatti, a causa dell’aumento della violenza interconfessionale nonché dell’avanzata dello Stato islamico, ampie zone del territorio sfuggono al controllo effettivo del governo iracheno, che non ha più la capacità di proteggere la popolazione, specialmente le persone particolarmente a rischio. La situazione personale dei ricorrenti e la capacità ridotta delle autorità irachene di proteggerle comportano un rischio reale di maltrattamenti in caso di rinvio verso l’Iraq e quindi di violazione dell’art. 3 CEDU. Nel caso in esame la violazione delle situazioni giuridiche soggettive dei richiedenti, non deriva da un atto volontario dello Stato, ma dalle condizioni oggettive del Paese di destinazione che ne potrebbero mettere a rischio la sopravvivenza. Considerazioni simili sono alla base della sentenza Papashvili c. Belgio del 13.12.2016. Nel caso di specie si tratta di una persona affetta da una grave malattia che riceve in Belgio le cure necessarie a tenere sotto controllo le sue condizioni di salute e che, in caso di espulsione verso il suo Paese di origine, la Georgia, non avrebbe avuto più di sei mesi di vita, come documentato dai certificati medici. Nella sentenza, la Corte supera il concetto di “very exceptional cases”, e precisa che è compito delle autorità statali verificare caso per caso se le cure mediche offerte siano adeguate ed ottenere garanzie sufficienti dallo Stato ricevente da far si che «the persons concerned do not find themselves in a situation contrary to article 3».
Per quanto riguarda l’Unione europea, le recenti sentenze della C. giust. UE, hanno messo in evidenza come il principio di mutua fiducia non sia illimitato, ma subisca delle restrizioni dovute all’obbligo degli Stati membri di rispettare i diritti fondamentali degli individui. La sentenza del 16.2.2017 nel caso C.K. e al. c. Slovenia, sull’interpretazione dell’art. 3, par. 2, e dell’art. 17, par. 1, reg. n. 604/2013, e dell’art. 4 della Carta, trae origine da una controversia tra la signora C.K., cittadina siriana, il signor H.F., cittadino egiziano, del loro figlio neonato e la Repubblica di Slovenia, a seguito della decisione di quest’ultima di non trattare le loro domande di asilo e di trasferirli in Croazia, competente in forza dell’art. 12, par. 2 del reg. Dublino. A causa dell’avanzato stato di gravidanza della richiedente si può procedere al trasferimento verso la Croazia solo alcuni mesi dopo la nascita del bambino, ma il Tribunale amministrativo annulla la decisione, in attesa di conoscere il trattamento che la Croazia è in grado di fornire ai richiedenti. Avendo ottenuto positive informazioni sulle condizioni dei richiedenti asilo in Croazia, il Ministero degli interni decide per il trasferimento, ma la famiglia chiede la sospensione del provvedimento sino all’adozione di una decisione giurisdizionale definitiva nel merito. A supporto di ciò, i richiedenti presentano certificati medici che comprovano il cattivo stato di salute della signora C.K., dovuto principalmente all’incertezza della sua situazione e allo stress che ne deriva, incidendo ciò anche sul benessere del neonato. La novità della pronuncia in esame è dovuta al fatto che la Corte supera la posizione espressa nella sua precedente giurisprudenza, in particolare nella sentenza del 12.12.2011, N.S., in cui riconosce solo le carenze sistemiche del sistema di asilo dello Stato membro come violazione dell’art. 4 della Carta.Non accogliendo l’opinione dell’AG, Tanchev, secondo cui «la Corte non è affatto tenuta a seguire la posizione della Corte EDU in sede di applicazione della Carta», sottolinea che il reg. in parola richiede precise garanzie per evitare il rischio che l’interessato subisca trattamenti inumani o degradanti: in tal senso lo Stato che deve effettuare il trasferimento deve accertarsi non solo dell’inesistenza di carenze sistemiche, ma anche far precedere quel trasferimento da precise precauzioni e ricevere informazioni che possano assicurare che l’individuo ottenga adeguata protezione. Nella sentenza in esame il limite oggettivo al principio di mutua fiducia dovuto all’esistenza di carenze sistemiche dello Stato, viene ulteriormente rafforzato divenendo funzionale a soddisfare esigenze di ordine soggettivo legate alla protezione di ciascun richiedente asilo. Una preoccupante battuta di arresto nella tutela dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo, si è avuta invece con la sentenza X e X c. Belgio del 7.3.2017 determinata dal rinvio pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 25 par. 1 lett. a) del regolamento (CE) n. 810/2009 che contiene il cd. codice dei visti e degli artt. 4 e 18 della Carta dei diritti fondamentali. La richiesta di visti per motivi umanitari di breve durata (90 gg) era stata presentata da una coppia siriana con tre bambini in tenera età, residente nella città di Aleppo, presso l’Ambasciata belga a Beirut. Le autorità belghe negano il visto, ritenendo che altrimenti si sarebbe riconosciuto il cd. asilo diplomatico, istituto non presente in ambito europeo ed espressamente escluso dalla direttiva 2013/32, cd. direttiva procedure. La famiglia siriana contesta la decisione del rifiuto dinanzi al Conseil du Contentieux des Étrangers sostenendo che la Carta dei diritti fondamentali e la CEDU prevedono un obbligo positivo per gli Stati membri di garantire il diritto di asilo: in questo senso la concessione di una protezione internazionale sarebbe l’unico mezzo per evitare il rischio di violazione del divieto della tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti. Nella sua richiesta di rinvio pregiudiziale, il Conseil des Étrangers fa notare, che il codice dei visti prevede specificamente che sia rilasciato un visto quando uno Stato membro lo “ritiene” necessario in virtù di obblighi internazionali e, nello stesso tempo si interroga sull’ampiezza del margine discrezionale lasciato agli Stati membri a tale riguardo. La Corte disattendendo le indicazioni contenute nelle Conclusioni dell’AG Mengozzi, basate sulla tutela dei diritti fondamentali ed il rispetto dei valori fondanti dell’UE, si limita ad una rigida interpretazione delle norme richiamate. Essa rileva innanzitutto che il codice dei visti fissa le procedure e le condizioni per il rilascio dei visti per il transito o per soggiorni previsti sul territorio degli Stati membri per una durata massima di 90 giorni su un periodo di 180 giorni: la famiglia siriana ha presentato domanda di visto per motivi umanitari con l’intenzione di chiedere asilo in Belgio e quindi un permesso di soggiorno non limitato a 90 giorni. Da ciò deriva che le domande non rientrano nell’ambito di applicazione del codice dei visti, né del diritto europeo, quindi le disposizioni della Carta non sono applicabili, e la competenza è esclusivamente statale. Per la Corte consentire a cittadini di Paesi terzi di presentare domande di visto per ottenere protezione internazionale nello Stato di loro scelta lederebbe l’impianto generale del sistema istituito dall’Unione per determinare lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale; in tal senso la valutazione di tali domande rientra unicamente nelle prerogative del diritto nazionale.
La sentenza X e X c. Belgio è un’occasione mancata per chiarire gli obblighi degli Stati sull’ingresso per motivi umanitari di persone bisognose di protezione. Se scopo dell’Unione è combattere il traffico di migranti, una sentenza riguardante gli obblighi degli Stati in materia di ingressi protetti poteva essere determinante. Da un punto di vista generale, l’esame della giurisprudenza della Corte UE rileva come essa non abbia fatto una applicazione sistematica del principio generale di diritto di interpretare gli atti normativi dell’Unione in modo conforme a quanto stabilito dalla CEDU. Il bilanciamento della tutela dei diritti conferiti dalla CEDU con il principio della fiducia reciproca fra gli Stati dovrebbe essere oggetto di una più attenta verifica da parte della Corte UE. Da un esame della giurisprudenza più recente delle due Corti, si ritiene comunque che sia possibile trovare una linea comune: pur affermando con forza il rispetto dei diritti fondamentali, da entrambe le parti, si prevede un doppio esame della questione, ampliando il margine di apprezzamento degli Stati per quanto riguarda la verifica finale delle condizioni di rispetto e garanzia dei diritti degli individui. In materia di protezione degli immigrati e nel contesto storico attuale, non si ritiene che tale modus operandi sia sempre positivo.
1 Il sistema è completato dalla dir. 2013/33 sulle condizioni di accoglienza, e dalla dir. 2013/32 sulle procedure.
2 C. eur. dir. uomo, 15.11.1996, Chahal c. Regno Unito; C. eur. dir. uomo, 28.2.2008, Saadi c. Italia.
3 Va segnalato che l’accresciuta competenza pregiudiziale della Corte UE, secondo quanto previsto dall’art. 267 TFUE, ha comportato un notevole incremento dei rinvii pregiudiziali circa l’applicazione del diritto primario e derivato dell’UE avente ad oggetto i diritti di richiedenti protezione internazionale, proprio in rapporto alla sua compatibilità con il valore attribuito alla CEDU dal Trattato di Lisbona.