DIANA
Divinità femminile italica, equivalente della greca divinità Artemis, così come Marte è l'equivalente di Ares. L'etimologia della parola è da riportarsi secondo alcuni a Diviana, da dius, divino (arcaico divios), secondo altri a dies (il giorno). Diana è perciò la dea della luce diurna, con tutti i suoi benefici effetti sul mondo della natura. Riportando l'etimologia della parola a dius o divus, Diana significherebbe la dea del puro (sereno) cielo, invece che del puro giorno. Comunque la parola non contiene alcun rapporto con l'astro lunare, detto in latino semplicemente Luna, e soltanto tardi identificato con Diana.
Questa è considerata divinità non soltanto latina, ma italica poiché il suo culto era praticato ancora in età repubblicana fuori del Lazio, come ad es. sul monte Tifata presso Capua (S. Angelo in Formis), dove la dea era venerata col nome di Diana Tifatina. La stessa divinità era nota presso altri popoli dell'Italia meridionale e centrale, gli Equi, i Sabini, e presso gli Ernici nel Lazio. Il suo culto, diffuso per tutta la regione dei Colli Albani, era localizzato specialmente nel territorio di Aricia (Ariccia), donde il nome di Diana Aricina; e come sembra, precisamente a specchio del suggestivo lago di Nemi, detto Speculum Dianae (un laghetto dello stesso nome si trovava presso Labico). Ivi Diana era venerata anzitutto come la divinità protettrice dei boschi, essendo a lei sacro il vasto bosco (nemus) di Aricia, di cui tuttora si può avere un'idea. Sotto questo aspetto il culto di Diana si collega a quello della ninfa Egeria, nonché al culto di Virbius, divinità secondaria boschereccia (il dio del bosco più tardi consacrato a Diana, secondo L. Morpurgo). Il sacrario nemorense, ricordato da scrittori dell'età imperiale (Vitruvio, Appiano), era uno dei più importanti del territorio laziale, e certamente le sue origini risalgono molto indietro nel tempo, sebbene la maggior parte del materiale archeologico recuperato negli scavi poco sistematici del secolo scorso sulle rive del lago, appartenga all'età imperiale, o non sia molto lontano da questa. La notevole antichità del santuario è dimostrata dal fatto che esso era il centro dell'alleanza delle città latine (Tusculum, Tibur, Lanuvium, Laurentum, Ardea, Cori, Suessa Pometia). Ciò può valere a spiegare come il sacerdote di Diana Nemorensis riceva il titolo straordinario di rex Nemorensis. V'è chi ritiene che il santuario di Aricia sia sorto unicamente come santuario della lega latina. Né è da escludere, con ciò, che un semplice culto boschereccio precedesse la fondazione del tempio. Un altro antico e venerato santuario di Diana sorgeva nel territorio di Tuscolo. In Roma il culto di Diana Aricina era stato introdotto, secondo una tradizione a fondo politico, sin dai tempi di Servio Tullio. Al culto di Diana era stato assegnato il colle Aventino, dove era sorto (filiazione del tempio originario di Ariccia) il primo tempio a Diana, comune dei Latini e dei Romani, cioè dell'elemento latino in genere (cfr. Varrone, De lingua lat., V, 43). Alla Diana dell'Aventino era stato consacrato come giorno festivo quello stesso di Diana Aricina: le Idi di Agosto. Tutte le caratteristiche del culto nemorense si riscontravano in quel suo duplicato, che fu il culto di Diana sull'Aventino. Nel tempio dell'Aventino, rinnovato da L. Cornificio al tempo di Augusto, si conservavano importanti leggi e trattati di alleanza, tra cui il Foedus latinum, incisi nel bronzo. Ivi era venerata una immagine di Diana Aventinense, dello stesso tipo iconico, greco, dell'Artemide dei Massalioti.
Dal culto di Diana nelle varie località indicate, emerge chiaro anzitutto il carattere di divinità strettamente collegata col mondo vegetale, protettrice dei boschi e delle selve. Perciò il suo culto si trova facilmente associato, in iscrizioni dedicatorie, al culto del dio dei boschi Silvano. Altra accezione comune era quella di Diana come dea della luce, ma piuttosto per le ragioni etimologiche note, che per i riti che accompagnavano la sua festività o per altre ragioni: come quella delle donne che, secondo Ovidio (Fasti, III, 397), si avviavano la vigilia della festa da Roma ad Aricia munite di fiaccole (il che si spiega con la marcia fatta di notte per arrivare all'alba); e come l'altra di Virbio identificato da alcuni col Sole, come divinità solare, dato che tale identificazione può essere il riflesso dell'identificazione di Diana con la Luna.
Unitamente ai boschi e alle selve, sta sotto la protezione di Diana tutto quanto vive e si muove nei boschi e nelle selve, cioè la selvaggina. Per questo mezzo Diana passa come la protettrice non soltanto delle piante, ma anche degli animali. Contemporaneamente essa è venerata sotto l'aspetto di divinità cacciatrice, al pari di Silvano. Gli animali a lei particolarmente sacri, e con cui viene di solito rappresentata, sono il cane e la cerva; suoi attributi l'arco (e la faretra) e la fiaccola. Dal punto di vista, forse, di divinità che presiede alla vegetazione e alla fertilità della natura, in genere, Diana era venerata dalle donne come dea dei parti e della fecondità, parificata in ciò a un'altra dea molto onorata dai Romani, Giunone Lucina, così detta sia perché dea della luce (cfr. Diana Lucifera), sia perché preposta a dare la luce ai nuovi nati. Si spiega così maggiormente il culto di Diana Aricina, tanto vivamente professato dalle matrone romane. Il culto di Diana aveva inoltre in tutto il Lazio, come in Roma, un alto significato politico, poiché il tempio sull'Aventino era luogo di periodico ritrovo per le varie popolazioni latine, al pari di quello di Iuppiter Latiaris (Giove Laziale) sul monte Albano. Il carattere democratico e popolare del culto di Diana ci è finalmente confermato dalla qualità di protettrice della plebe e degli schiavi, riconosciuta a Diana. Presso il tempio sull'Aventino si trovava un asilo per gli schiavi fuggitivi. Perciò il dies natalis o giorno festivo di Diana, era anche detto servorum dies festus (festa degli schiavi). Di un affine diritto di asilo godeva il santuario di Diana Nemorense.
Nonostante la varietà degli aspetti sotto i quali Diana viene considerata nel mondo latino e italico in genere, la figura della dea sembra non aver avuto quasi alcuna presa nel campo dei miti e delle leggende, cosicché la sua immagine o rimane del tutto astratta ed evanescente, o comunque isolata nelle stesse figurazioni plastiche ad essa riferibili; importantissima quella di divinità cacciatrice, di un'evidente dipendenza dal repertorio della religione e dell'arte greca. Il carattere astratto della Diana latina, carattere comune alla massima parte delle divinità italiche, vale come ulteriore conferma delle origini italiche della dea, anteriori agl'influssi del mito e della figura della greca Artemide. Un influsso di leggenda forestiera si riscontra anche nella figura di Virbio, dio o eroe locale di Aricia, con il quale il nuovo culto di Diana dovette stabilire una specie di convivenza, giustificata dalla leggenda. Virbio venne identificato con l'Ippolito della leggenda greca, figlio di Teseo. Dopo che il corpo di Ippolito era stato straziato dalla corsa dei cavalli imbizzarriti, Diana avrebbe raccolto quel corpo e con l'aiuto di Asclepio lo avrebbe restituito in vita, nascondendo quindi il giovane nel Nemus Aricinum, dov'era venerato sotto il nuovo nome di Virbio (Ovid., Metam., XV, 497 segg.). Virbio è dunque il prediletto di Diana, così come Ippolito è il prediletto di Artemide. L'identificazione perfetta di Diana in Artemide si riscontra nei Ludi Saeculares (Hor., Carm. Saec., 59-70). Insieme a Virbio, presso Diana, si venerava un'altra divinità secondaria, femminile, Egeria, considerata come la sposa di Numa Pompilio, rifugiatasi presso la dea dopo la morte di Numa e dalla dea convertita in fonte, per effetto del suo inconsolabile dolore.
Per quanto del tempio nemorense non si abbia più traccia, tuttavia le ricerche topografiche eseguite sui primi del secolo permisero di accertare la presenza di un tempio di notevoli dimensioni (m. 30 × 15 ,90) in località "Giardino", presso l'attuale paese di Nemi a nord-est di questo e più in basso, cioè più vicino al lago. La suppellettile votiva rinvenuta nella località va dai piccoli frammenti di bronzo informe (aes rude), moneta o mezzo di scambio primitivo, alle monete imperiali, e comprende ex-voto di ogni genere, come statuette votive di bronzo e terracotta, del tipo iconico di Artemide, statuette di madri con bambini, relative al culto di Diana Lucina, e insieme frecce, piccole faretre, astragali, doni di cacciatori. A giudicare dal materiale votivo, il culto di Diana Aricina andrebbe dal sec. IV a. C. sino alla tarda età imperiale, essendosi riscontrata tra il materiale votivo la presenza di monete costantiniane: segno del persistente culto di Diana sino ai più tardi tempi pagani.
Prendendo sempre più risalto la caratteristica della verginità della dea, questa diviene automaticamente anche la protettrice delle fanciulle, che nel caso di morte avanti nozze, vengono, anche plasticamente, parificate a Diana (sacrum Deanae et memoriae Aeliae Proculae, Corp. Inscr. Lat., VI, 10958).
Iconografia. - Anche l'arte figurata adattò a D. tipi e motivi già creati dall'arte greca per Artemide. Nei monumenti etruschi la figura di D. non presenta caratteristiche notevoli: porta in genere lunghe vesti ed è armata di arco e faretra; talvolta regge o ha accanto una bestiola: è dunque immaginata e rappresentata per sincretismo cacciatrice e protettrice degli animali. A quanto affermano gli scrittori classici, nei santuarî di D. dell'Aventino e di Aricia, al primitivo culto barbarico si sarebbe sovrapposto quello dell'Artemide di Efeso e il simulacro stesso sarebbe stato una riproduzione del tipico idolo asiatico; ma in seguito D. Aricina fu certo venerata come cacciatrice e non più come mostruoso simbolo della fecondità. Divinità della natura e selvaggia cacciatrice era concepita anche nel santuario campano del Tifata; molte terrecotte architettoniche campane, di diversa e spesso incerta provenienza, ripetono tipi già noti all'arte greca arcaica (Artemis-Nike nello schema di corsa, Artemis Persica, che ghermisce belve o uccelli); più caratteristica è la rozza immagine di alcune antefisse (fig. 1, esemplare conservato nel Museo Campano, d'ignota provenienza: Koch, Dachterracotten, p. 50, tav. XI; altra replica già nella coll. Castellani, Gazette Archéol., 1881-82, tav. XIV), dove la dea di aspetto giovanile appare ignuda o appena velata da vesti sottili e aderenti, seduta a bisdosso su un cavallo galoppante, sotto il quale è un'oca; porta a tracolla il balteo cui è sospesa la faretra, tiene nella sinistra l'arco e con la destra regge le briglie della cavalcatura. Un folto gruppo di terrecotte votive conservate nel Museo Campano riproduce con poche varianti un tipo non ignoto all'arte ellenistica, e che fu forse adattato all'idolo della dea tifatina: Diana (fig. 3), vestita di corto chitone con cintura e larga piega pendente (apoptygma), tiene nella destra una lunga fiaccola, poggia la sinistra sul fianco incrociando i piedi dagli alti calzari, quasi in atto di momentaneo riposo: ha il capo generalmente cinto da un grosso serto di fiori e il braccio sinistro ravvolto nel mantello; alla sua destra è seduto il cane; spesso lo schema è invertito, e non manca in molti casi la faretra sostenuta sulla spalla dal balteo. Molto analoga, se pure diversa per ponderazione, è la figura della dea in un dipinto murale anche campano (fig. 2), in cui notiamo l'aggiunta dell'arco nella mano sinistra e di una pelle ferina sul braccio, la corona fiammeggiante sovrapposta ad altra di alloro e il nimbo. Dunque, adottato per D. il tipo dell'Artemide ellenica, prevalsero principalmente i tipi del sec. IV e dell'ellenismo, e godé di speciale favore la rappresentazione della vivace e snella cacciatrice, vestita di breve chitone, caratterizzata dalle armi, spesso affiancata da cani e cervi; in alcuni casi le condizioni della scoperta rivelano che la statua, pur replica o rielaborazione di un originale greco, era stata adattata a simulacro di culto in un tempio romano. Per dimostrare la persistenza del tipo con lunga veste sia ricordata la statua rinvenuta a Gabi e conservata ora nella Gliptoteca di Monaco. Infine, quando con l'estendersi delle conquiste dei Romani i numi del loro Olimpo vennero a contatto con quelli barbarici e vi si sovrapposero, come l'Artemide ellenica era stata assimilata a D., così questa fu assimilata ad altre divinità femminili concettualmente più o meno analoghe; fu quindi confusa con la cartaginese Virgo Caelestis (Tanit, derivata a sua volta dalla fenicia Astarte), con la celtica Abnoba, con le galliche Arduinna e Sirona (Salus), ora assumendo l'aspetto di queste divinità e serbando il suo nome, come nell'ultimo caso menzionato, ora al contrario mantenendo tutti i suoi caratteri tipologici e prendendo invece il nome della divinità barbarica (Abnoba, Arduinna).
Bibl.: Oltre le voci dedicate a D. nei varî repertorî (Th. Schreiber, in Roscher, Lexikon d. griech. u. röm. Mythologie, I, col. 594 segg.; Th. Birt, ibid., col. 1002 segg.; P. Paris, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire d. antiq. grec. et romaines, II, p. 154 segg.; G. Wissowa, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 325 segg.; L. Cesano, in De Ruggiero, Dizionario epigrafico, II, Roma 1900, p. 1728 segg.) v.: L. Preller e H. Jordan, Röm. Mythologie, I, 3ª ed., Berlino 1881, p. 312 segg.; G. Wissowa, Religion u. Kultus der Römer, 2ª edizione, Monaco 1912, pp. 39 e 247 segg.; J. Beloch, Der italische Bund unter Roms Hegemonie, Lipsia 1880, pp. 180 e 187; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, Parigi 1889-90, II, p. 55 e passim; G. Mancini, Calendario Anziate, in Not. Scavi, 1921, p. 106; L. Morpurgo, Nemus Aricinum, in Monum. Lincei, 1903, coll. 297-368; id., La rappresentazione figurata di Virbio, in Ausonia, IV (1909), fasc. 2; G. Calza, Il tipo di Artemide Amazzone, in Ausonia, X (1921), p. 160 segg.; W. Altmann, Römische Grabaltäre, Berlino 1905, p. 282. La pittura e le terrecotte votive campane sono inedite; per le terrecotte architettoniche v.: H. Koch, Dachterracotten aus Campanien, Berlino 1912; per la Diana di Gabi, v.: S. Reinach, Répertoire de la statuarie, I, 2ª ed., Parigi 1920, pp. 303-306.