Didascalia
Una definizione esatta del concetto di d. richiederebbe un inventario esaustivo degli inserti scritturali utilizzati nel corso della storia del cinema. Bisognerebbe in primo luogo considerare, accanto alla scrittura extradiegetica (titoli, sottotitoli, d.), sovrimpressa direttamente all'inquadratura o più spesso disposta su cartelli che interrompono arbitrariamente il flusso delle immagini fotografiche in movimento, la scrittura diegetica (pagine di diario, lettere, telegrammi, titoli di giornali, insegne di negozi o locali, cartelloni pubblicitari ecc.), presentata come appartenente allo spazio scenografico in cui si svolge l'azione. Infatti, nonostante il suo diverso statuto, anch'essa può svolgere altrettanto bene la medesima funzione informativa nei confronti dello spettatore (è nota l'esagerata circolazione nel cinema muto di messaggi epistolari, finalizzati evidentemente a 'naturalizzare' una parte dell'informazione verbale, evitando una proliferazione eccessiva delle d. vere e proprie), e al tempo stesso può interferire con la diegesi facendo avanzare l'azione (un biglietto del marito infedele all'amante, intercettato dalla moglie, può modificare sensibilmente il corso degli eventi, oltre a fornire al pubblico un'informazione necessaria alla comprensione del plot).
Un'analisi più approfondita imporrebbe di distinguere nel vasto insieme degli inserti scritturali extradiegetici almeno tre diversi tipi di occorrenze: 1) i titoli di testa o di coda (contenenti, oltre al titolo del film, una lista più o meno completa del cast e del personale te-cnico-artistico che vi ha partecipato ed eventualmente altre informazioni paratestuali: elenco delle locations, ringraziamenti, lista dei brani musicali inclusi nella colonna sonora ecc.); 2) i sottotitoli con la traduzione del dialogo in una lingua straniera; 3) le d. del cinema muto, incaricate di comunicare allo spettatore le battute pronunciate dai personaggi nel corso dell'azione o di veicolare gli interventi 'esterni' di un narratore, con funzione di denotazione spazio-temporale o di commento. Benché i titoli, a differenza dei sottotitoli, siano a tutti gli effetti parte integrante del film, essi occupano per propria natura una posizione liminale, decentrata. Al contrario, le d. del cinema muto ‒ vere e proprie schegge di scrittura conficcate nel corpo di un testo che si pretende non verbale ‒ sono disseminate lungo tutto l'arco del racconto in rapporto diretto con le inquadrature. Per via di questo loro statuto di 'testo intercalare', tali inserti meriterebbero la denominazione meno generica e sicuramente più adeguata di intertitoli.Poiché nei primi anni di vita del cinema i film non contenevano alcun inserto di scrittura extradiegetica, allo scopo di presentare i numerosi ed eterogenei cortometraggi che formavano il programma di una proiezione cinematografica si ricorreva spesso alle parole di un commentatore, incaricato di spiegare al pubblico presente nella sala il contenuto e il succedersi narrativo delle immagini che si avvicendavano sullo schermo. Non si conosce con assoluta certezza la data di nascita della d.: di solito si cita il caso precoce di Uncle Tom's cabin, diretto da Edwin S. Porter per Th.A. Edison nel 1903, ma esistono alcuni altri esempi lievemente anteriori, tra cui Ali Baba et les quarante voleurs, prodotto dalla Pathé Frères l'anno precedente. Come accade normalmente nei lavori di una certa estensione realizzati nel periodo primitivo, i due film sono composti da una successione di quadri girati in continuità di ripresa con la macchina fissa, ciascuno dei quali presenta un'azione unitaria e compiuta. In entrambi i casi gli intertitoli sono collocati fra un quadro e l'altro, e descrivono anticipatamente il contenuto dell'episodio che segue, combinando la funzione dei titoli di capitolo in un romanzo con quella delle d. esplicative che accompagnano le illustrazioni sulla carta stampata.
L'evoluzione del sistema degli intertitoli procede storicamente di pari passo con l'acquisizione del montaggio: a mano a mano che si incomincia a frammentare il quadro unico dei film primitivi in una pluralità di inquadrature, riprese da posizioni e da distanze differenti, si inizia anche a inserire i cartelli all'interno di ogni singola scena, dando vita a una sintassi verbovisiva sempre più elaborata e complessa. Se i film storici e i melodrammi italiani della prima metà degli anni Dieci si distinguono per un uso ridondante delle d. di commento, dotate di risonanze letterarie e talora poetiche, il cinema americano degli anni Venti sfrutta soprattutto le risorse degli intertitoli in funzione del dialogo, applicandoli a costruzioni di montaggio in campo-controcampo che anticipano lo stile del sonoro, mentre alcuni cineasti sovietici, tra cui Džiga Vertov, utilizzano la scrittura cirillica, disposta sui cartelli secondo il gusto costruttivista della grafica russa dell'epoca, per scagliare parole d'ordine rivoluzionarie che interpellano direttamente lo spettatore: si pensi all'imponente "Vy" ("Voi") che scandisce come una sorta di ritornello ossessivo le immagini del documentario Šestaja čast′ mira (1926, La sesta parte del mondo).
Lungi dall'essere riducibili a mero veicolo di un'informazione verbale, gli intertitoli di molti film muti si presentano come enunciati sincretici, caratterizzati dalla presenza accanto alla parola scritta di elementi extralinguistici ‒ tipografici, decorativi, iconici ‒ che arricchiscono e talora modificano il significato del testo: dai caratteri gotici di Nosferatu ‒ Eine Symphonie des Grauens (1922) di Friedrich W. Murnau e di altri film espressionisti a quelli da epigrafe classica delle d. dannunziane di Cabiria (1914) diretto da Giovanni Pastrone; dai marchi delle case di produzione, come il gallo della francese Pathé Frères, alle illustrazioni simboliche o connesse tematicamente al racconto impiegate un po' ovunque come sfondo a partire dagli anni Dieci; dagli eleganti cartigli in stile floreale che incorniciano le d. dei film muti italiani alle raffinate composizioni geometriche di sapore déco che impreziosiscono i cartelli di The lodger ‒A story of the London fog (1926; Il pensionante) di Alfred Hitchcock; dalla progressione dimensionale, ascendente o discendente, delle parole e delle frasi, che culmina con un cubitale "Brat′ja!" ("Fratelli!") nel finale di Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin) diretto da Sergej M. Ejzenštejn, o al contrario si spegne in un "Gossip" di formato sempre più esiguo in Lady Windermere's fan (1925; Il ventaglio di Lady Windermere) di Ernst Lubitsch, all'unica, fatale battuta pronunciata all'inizio di Sunrise (1927; Aurora) di Murnau dai due amanti omicidi, "Couldn't she get drowned?" ("Non potrebbe annegare?"), con le lettere che cominciano a liquefarsi colando verso il margine inferiore dello schermo.
Nonostante l'importanza degli intertitoli nella trasmissione dell'informazione narrativa, il dibattito teorico coevo è avaro di riflessioni specifiche su questa componente insostituibile del linguaggio cinematografico muto, guardata per lo più con una certa diffidenza, e non di rado con aperta ostilità. Presenza imbarazzante ma necessaria, la d. rivelava infatti con la sua stessa esistenza la congenita incompletezza del cinema muto, incapace di esprimere interamente il proprio contenuto attraverso l'immagine fotografica in movimento e quindi costretto ‒ volente o nolente ‒ ad appoggiarsi a un puntello verbale, laddove una parte della riflessione teorica, già dalla seconda metà degli anni Dieci, tendeva a rifiutare come estrinseco e spurio l'apporto di ogni altro elemento significante in nome di un'ideale e irraggiungibile purezza visiva. Esemplare è a questo proposito l'opinione di Hugo Münsterberg, che nel 1916 scrisse: "Qualunque sceneggiatura che abbia bisogno di simili stampelle linguistiche per essere capita denuncia un fallimento estetico della nuova arte. Il passo ulteriore verso l'emancipazione del cinema dovrà essere la creazione di film che parlino solo il linguaggio delle immagini" (The photoplay: a psychological study; trad. it. Film. Il cinema muto nel 1916, 1980, p. 109). Negli anni Venti alcuni cineasti della stessa opinione realizzarono talora dei lungometraggi privi totalmente (o quasi) di intertitoli: è il caso di Die Strasse (1923; La strada) di Karl Grune, di Menil′montant (1927) di Dmitrij Kirsanov e soprattutto delle opere sceneggiate dall'austriaco Carl Mayer, il più lucido e coerente fautore del film senza testo (titelloser Film), come Scherben (1921), Sylvester (1924), entrambi di Lupu Pick, e Der letzte Mann (1924; L'ultima risata o L'ultimo uomo) di Murnau. Si tratta nondimeno di episodi del tutto eccezionali nel quadro di una produzione mondiale abituata a ricorrere abbondantemente e senza falsi pudori all'ausilio della parola scritta intercalata alle immagini.Se l'affermazione internazionale del sonoro all'inizio degli anni Trenta renderà subito obsolete e superflue le d. con il dialogo, sostituite dalla voce degli attori, nel decennio successivo la diffusione dell'artificio della voice over (o voce narrante) nel film di finzione potrà offrire un'alternativa agli intertitoli come veicolo di un commento extradiegetico, ripristinando una funzione dell'elemento verbale che sembrava destinata a scomparire con l'avvento del parlato. Una presenza residuale della d. narrativa è nondimeno riscontrabile, seppure sporadicamente, nel cinema sonoro maturo, classico e perfino moderno. È il caso della versione originale di Red river (1948; Il fiume rosso) di Howard Hawks, in cui il commento over di Walter Brennan è sostituito da cartelli che riportano brani del suo libro di memorie, Early tales of Texas, oppure di The shining (1980; Shining) di Stanley Kubrick, dove l'azione è scandita da una serie di intertitoli con funzione di denotazione temporale ("Closing day", "A month later", "Tuesday", "Saturday" ecc.). E, se si esclude l'usanza tuttora frequente di affidare a un testo scritto introduttivo, di estensione variabile, il fastidio di chiarire gli antefatti del plot (si pensi a tanta fantascienza contemporanea, da Star wars, 1977, Guerre stellari, di George Lucas, in avanti), soltanto la funzione denotativa ‒ spaziale e temporale ‒ della d. del film muto sembra sia riuscita a sopravvivere nel cinema sonoro, dove spesso il testo si riduce a uno scarno toponimo seguito dalla data e dall'ora in cui si svolge l'azione e sovrimpresso all'immagine, come accade all'inizio di Psycho (1960; Psyco) di Alfred Hitchcock. Del tutto peculiare e isolato è dunque l'approccio di Jean-Luc Godard in film come Deux ou trois choses que je sais d'elle (1966; Due o tre cose che so di lei), La chinoise (1967; La cinese) o Week-end (1967; Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica), dove l'uso sistematico degli intertitoli da parte del regista, contemporaneo alla sua riscoperta del montaggio ejzenštejniano, sembra alludere, nella composizione tipografica e nella funzione ideologico-critica attribuita alle d., alla retorica verbovisiva propria del cinema muto sovietico.
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Scrittura e immagine. La didascalia nel cinema muto, a cura di F. Pitassio, L. Quaresima, Udine 1998.
L. Quaresima, Absolument muet. Le débat sur le titelloser Film allemand, in "Cinéma & cie", 2001, 1.