DIDATTICA
(XII, p. 771)
In senso generale, la d. si configura tuttora come l'arte di insegnare. Essa indica soprattutto l'attività di esporre in maniera facilitata, con procedure adatte ai destinatari, giovani o adulti, i contenuti di apprendimento. In ciò si distingue dai termini pedagogia e pedagogico, che designano piuttosto l'attività teoretica di riflessione, fondazione e ricerca, concernenti in generale l'educazione, l'istruzione e la formazione. Anche la d. ha tuttavia un suo nucleo teoretico, che è in parte connesso con le teorie pedagogiche alle quali può ispirarsi, e in parte dipendente dalle teorie della comunicazione e delle tecnologie da essa utilizzate. L'educazione in generale e l'istruzione in particolare, come il suo atto esplicito di attuazione nel rapporto bilaterale fra maestro e scolaro, sono un tipo di comunicazione particolare e privilegiata in quanto intenzionale e selettiva, e per lo più impartita in situazioni istituzionali, ove assume l'aspetto di una delega sociale. La d. pertanto incorpora (ovvero, secondo alcuni, ne è incorporata, ma il rapporto resta d'implicazione reciproca) la metodologia intesa come lo studio critico dei metodi applicati in situazioni di apprendimento-insegnamento. Ogni procedimento del pensiero e dell'azione ha una sua procedura, ovvero un suo intrinseco metodo più o meno strutturato: dal minimo che consiste in alcuni casi nell'andare per ''prove ed errori'', al massimo che percorre un itinerario più volte ripetuto e consolidato. Ma la metodologia suppone che alla presenza di fatto di un metodo si aggiunga la sua consapevolezza riflessa, e possibilmente critica, ovvero la presentazione delle sue ragioni, del perché delle scelte.
Una questione preliminare ricorrente nella problematica didattica riguarda la distinzione fra educazione e istruzione. La prima, secondo l'uso corrente, riguarderebbe piuttosto la formazione morale in senso largo, quindi quella etica in senso proprio, ma anche quella civica, politica, religiosa, ossia attinente ai ''valori''; la seconda sarebbe invece dedicata agli aspetti cognitivi. In tempi di rapide trasformazioni e transizioni, in cui i valori possono essere molti e conflittuali, l'educazione a senso unico è vista con sospetto come prevaricazione di parte, e si reclama che essa lasci luogo all'istruzione. La prima infatti opta decisamente per una visione del mondo e della vita e cerca di trasmetterla, con la persuasione, o se non basta con la coercizione; mentre la seconda è critica e problematica, e preferisce fornire informazioni il più possibile ''neutre'' dalle quali ognuno possa formarsi proprie opinioni e atteggiamenti.
Al di sotto di questa rappresentazione semplificata (e semplicistica) del rapporto ne esiste un'altra più fondamentale e antica. L'educazione si rivolgerebbe a tutto l'uomo, ma principalmente attraverso ciò che esprime il suo impegno personale: ossia la sua volontà, le sue motivazioni, preferenze e scelte, che si sintetizzano nella sua personalità e in un tipo di carattere, dal quale discendono di conseguenza le sue azioni. L'istruzione si rivolgerebbe anch'essa a tutto l'uomo, ma principalmente attraverso la sua conoscenza: ovvero i suoi processi percettivi, immaginativi, intellettivi e raziocinativi, ritenendo che siano questi in ultima istanza a dirigere anche la condotta. Qualcuno non stenta a riconoscere nelle due posizioni le tendenze volontaristiche o intellettualistiche, che con vece alterna prevalgono nella nostra cultura.
Quando i termini sono presi in coppia, facilmente tendono a spartirsi il campo semantico e a radicalizzare la loro opposizione: che nel nostro caso diventa quella ben nota di ''cuore'' e ''cervello'', o di ''sentimento'' e ''ragione''. Difficilmente l'uomo può essere suddiviso in compartimenti a questo modo, e allora i due termini cominciano a scambiarsi i contenuti: occhio non vede, cuore non ama. Si desidera solo ciò che si conosce, almeno inizialmente: ignoti nulla cupido (non c'è nessun desiderio per ciò che non si conosce). Quindi, rincalzano i dottori scolastici, nihil volitum quin praecognitum (nulla si vuole, a meno che non sia prima conosciuto). D'altra parte, anche i processi cognitivi non procedono solo da se stessi. Si conosce solo ciò che risalta, che si stacca come ''forma'' significativa dallo sfondo, che riveste per noi un interesse, un'attrattiva. A questo punto il circolo si avvita in senso contrario: le motivazioni appaiono determinanti ai fini dell'attenzione, e di tutto ciò che segue. Un soggetto atono e indifferente è come cieco e sordo.
Esaurito il circolo dialettico (che mostra come ogni termine trapassi nel suo opposto), la contrapposizione è finalmente superata. I due termini sono due solo perché ciascuno è in rapporto indissolubile con l'altro e quindi perché partecipi entrambi di un'unità superiore.
Un'altra questione preliminare riguarda il rapporto fra il primo e il secondo sapere, ove per primo s'intenda quello originario che si attua nell'arte e nella scienza, nella vita morale e nelle istituzioni, e per secondo quello che viene trasmesso nei processi d'inculturazione-acculturazione e di socializzazione. Il fatto stesso di parlare di un sapere ''secondo'' e quasi derivato sembra relegarlo in una zona di riflesso e di minor valore: da qui la svalutazione che spesso accompagna gli atteggiamenti pedagogici e didattici, quando assumono aspetti pedissequi e pedanti di mera ripetizione.
Bisogna riconoscere che il processo di apprendimento-insegnamento in situazioni ordinarie di rapporto maestro-scolaro è per lo più successivo alla ricerca e quindi alla produzione stessa della scienza e alla sua sistemazione almeno provvisoria. S'insegna ciò che già si sa e che si ritiene utile e degno di trasmissione ad altri. Tuttavia − come diceva uno dei fondatori della d., il moravo J. A. Comenio nella sua opera fondamentale Didactica Magna (1658) − l'arte segue la natura. In altri termini, il processo di apprendimento-insegnamento non si sovrappone in maniera estrinseca a un sapere già interamente compiuto, ma in qualche maniera ripercorre in forma abbreviata quello stesso di prima scoperta della verità. Lo scolaro apprende ciò che ancora non sa, ma muovendo da propri interessi e cognizioni pregresse, e deve appropriarsi del nuovo sapere in qualche modo rigenerandolo in sé e non solo imitandolo passivamente. Ciò connette la riflessione sul metodo di presentare i contenuti di apprendimento a quella sui metodi in generale della scienza. Deve ritenersi pertanto superata l'opinione che si possa dare un metodo a priori per così dire ''vuoto'', nel quale verrebbe poi calato, a riempirlo di volta in volta, un contenuto. Quando si cade in questo errore, ci si perde in vaniloqui, com'è accaduto a certi logici antichi o a certi epistemologi moderni che hanno preteso di dettare legge alla ricerca scientifica; quest'ultima ha in effetti proceduto per proprie strade senza di loro. La vera metodologia è dunque quella immanente alla ricerca, che si costruisce con essa, e che spesso è generata dalla necessità di evitare contraddizioni imprevedibili sorte nel corso dell'indagine.
In d. hanno corso lo stesso rischio quegli autori che presumevano di avere scoperto le leggi generali dell'insegnamento-apprendimento: definite le quali, sarebbe stato sufficiente applicarle ai diversi casi, per ottenere risultati infallibili. Caddero in simili illusioni, per entusiasmo di iniziatori, anche educatori illustri come Comenio e J. H. Pestalozzi, e perfino autori non privi di vigilanza critica come J. F. Herbart e i suoi successori, e positivisti come A. Angiulli, R. Ardigò, F. S. De Dominicis e perfino ai nostri tempi alcuni seguaci di J. Piaget. Un'attenuante in questi casi era costituita dal fatto che gli autori indicati (anche se s'illudevano di farlo) non formulavano tanto le leggi dell'insegnamento quanto piuttosto quelle dell'apprendimento, che come tali sono appunto più radicali e generali; la mancanza di chiara distinzione poteva indurre a ritenere di avere con questo esaurito l'argomento, che era invece solo aperto. Certamente, sotto questo aspetto l'ambizione pan-metodica offrì il fianco alle penetranti critiche dell'attualismo di G. Gentile, il quale però non si avvide di aver facile vittoria su un concetto improprio.
Una più corretta impostazione richiederebbe pertanto di definire anzitutto le leggi dell'apprendimento, prima quelle generali, poi quelle speciali riferite a diversi compiti e contenuti che possono variare significativamente. In seguito bisognerebbe passare allo studio dei processi d'insegnamento che possono sollecitare, sostenere e confermare quegli apprendimenti: rammentando che gli ''schemi'' d'intervento pedagogico non si limitano a riprodurre i ''modelli'' che la ricerca psicologica propone, ma vanno oltre e se ne fanno attivi promotori. L'apprendimento appartiene a tutti gli animali superiori, mentre l'insegnamento è una caratteristica specifica dell'uomo come soggetto storico; moltissime cose necessarie alla vita dell'uomo civile non verrebbero mai apprese da sole se non fossero indotte dall'insegnamento come attività che promana dai rapporti sociali.
Il concetto di d., e quello più generale di metodologia, vanno quindi rapportati alle dimensioni complesse del fenomeno studiato. Di recente alcuni autori (spiritualisti e personalisti) hanno proposto quella che essi chiamano una concezione ''integrale'' dell'educazione considerata sotto tre punti di vista: come teleologia o studio dei fini dell'educazione; come antropologia o studio dei soggetti dell'attività educativa nel rapporto maestro-scolaro; e infine come metodologia o studio dei metodi appropriati per condurre i soggetti a realizzare i fini. La metodologia in questa concezione realizza pertanto il compito proprio della ''mediazione'' pedagogica. Essa è conoscenza critica (e quindi razionalmente e sperimentalmente giustificata) delle vie e dei mezzi per conseguire gli scopi desiderati.
Nella letteratura sull'argomento, si trova talvolta la distinzione tra metodologia generale e speciale (e taluni identificano la d. con quest'ultima); in alcuni autori del sec. 19° si usa anche il termine metodica con lo stesso significato; negli herbartiani è presente anche il grecismo odegetica per indicare l'arte di seguire un ''sentiero'' opportuno. Abbiamo già espresso motivate riserve circa le ambizioni a fondare una metodologia generale, sul tipo di quella che propone precetti come ''procedere dal noto all'ignoto, dal facile al difficile, dal concreto all'astratto'' e simili. Tali precetti sono spesso non falsi, ma ovvi e banali; se non dicono cose scontate come fossero solenni principi, sono spesso soggetti a cento eccezioni, come quelle che provengono dall'ambiguo concetto di ''facile'' per il bambino (per il quale il complesso può essere più accessibile, in modo globale, del semplice ma astratto). Tuttavia non si può respingere l'opinione di far precedere alle considerazioni puntuali sui vari metodi alcune considerazioni introduttive: se si vogliono chiamare metodologia o didattica generale, non è proibito chiamarle così.
La metodologia che apre una d. generale deve semmai occuparsi con maggior ragione di definire il rapporto sopra citato di non-identità ma di tensione dialettica tra apprendimento e insegnamento, e i problemichiave della comunicazione e della libertà. Questo giustifica anche in parte la tendenza di vari autori a tenere distinta la metodologia dalla d., intesa più strettamente come l'arte dell'insegnare questo o quel contenuto. Per lo stesso motivo, è preferibile parlare di metodologia dell'educazione morale (che comporta non solo contenuti cognitivi; si pensi alla rieducazione dei soggetti asociali) piuttosto che di d. della stessa.
La d., o la metodologia nella sua parte speciale (per coloro che mantengono la distinzione), tratta invece specificamente di metodi e tecniche. La distinzione è largamente accettata, riservando il nome di metodi a procedimenti complessi (per es. il metodo Montessori) e dando quello di tecniche ad aspetti particolari (come l'uso di incastri nel metodo citato). In alcuni casi, l'adozione di metodi particolarmente complessi, dipendenti da scelte educative di fondo, richiede una ristrutturazione della scuola anche nei suoi moduli organizzativi: allora si può parlare in maniera più impegnativa di piani o di sistemi (come il piano di Dalton o di Oakland e il sistema di Winnetka negli USA o il piano di Mannheim in Germania) o semplicemente di scuole o istituti specialmente caratterizzati (come la ''scuola delle rocce'' in Francia, la scuola dell'Odenwald o le scuole steineriane Waldorf in Germania, le scuole libere o aperte, ecc.). Non di rado però, per ragioni storiche o polemiche, queste definizioni vengono respinte; per es., A. S. Makarenko sosteneva di non avere un metodo, ma di fare ciò che tutti avrebbero dovuto fare; a sua volta, C. Freinet insisteva nel dire di aver proposto solo delle tecniche; L. Tolstoj, P. Geheeb e A. Neill rifiutavano l'idea stessa di metodo; R. Tagore e S. Aurobindo si ricollegavano invece alle tecniche yoga o di raccoglimento e di meditazione proprie della tradizione induista.
Il concetto di ''metodo'' ottiene in ogni caso il più largo consenso quando si tratta di designare i principi psicopedagogici e le applicazioni in campi specifici dell'insegnamento-apprendimento, come nelle lingue materne (metodi sintetici dalle parti al tutto, come il metodo alfabetico, sillabico, fonico o fonematico; ovvero metodi analitici dal tutto alle parti, come il metodo delle parole normali, quello globale, quello naturale, i metodi simultanei o successivi per la lettura-scrittura, e fra questi i metodi che partono dallo stampatello, dallo script o dal corsivo). Nella glottodidattica che concerne le lingue straniere si distinguono pure metodi diretti, naturali, grammaticali di vario tipo, recentemente integrati dall'uso di laboratori linguistici (passivi, attivi, audio-attivi-comparativi, strutturo-globali e simili).
Nell'ambito della matematica hanno destato rumore negli ultimi vent'anni le proposte (in parte oggi ridimensionate) della ''nuova'' matematica legata all'approccio insiemistico; e accanto a esse quelle basate sull'uso di materiali strutturati come i ''blocchi logici'', gli abaci multibase, i ''geopiani'', e oggi il computer. Nelle scienze, in polemica con l'insegnamento cartaceo e verbalistico, si è largamente promosso il metodo induttivo fondato sull'osservazione e sull'esperienza diretta, almeno finché il concetto stesso d'induzione non è stato sottoposto a revisione dalla nuova epistemologia di K. R. Popper che ha rivalutato il ruolo creativo delle ipotesi e del loro controllo. Va da sé che propri metodi sono stati messi a punto nelle scuole artistiche, musicali, ginnico-sportive, che al riguardo hanno sviluppato metodologie articolate e complesse.
Di fronte al concetto onnicomprensivo di metodo, quello di tecnica circoscritto all'impiego di particolari sussidi o materiali didattici non desta obiezioni. In tempi recenti, con l'introduzione dei mezzi audiovisivi, delle macchine per insegnare e infine del calcolatore per l'insegnamento è venuta però diffondendosi la dizione tecnologie dell'educazione (dall'ingl. educational technologies) o meglio tecnologie didattiche, che fa riferimento a mezzi complessi, risultato di sviluppi scientifici e industriali. La locuzione ha avuto fortuna e oggi si tende ad attribuirla in senso esteso a tutte le applicazioni sistematiche all'insegnamento, per es. di ''istruzione programmata'', di ''istruzione personalizzata'', di mastery learning o di metodi di valutazione ispirati all'attuale docimologia (v. in questa Appendice). Di più, riprendendo la distinzione introdotta da E. Claparède fra momento pedognostico e momento pedotecnico, si parla ormai di aspetto genericamente tecnologico per indicare la fase d'intervento didattico in quanto distinta dai preamboli di ricognizione psicologica o sociologica.
Bibl.: Questioni di Metodologia e didattica, a cura di M. Peretti, Brescia 1974; Questioni di Tecnologia didattica, a cura di R. Titone, ivi 1974; G. Ballanti, Il comportamento insegnante, Roma 1975; Id., Analisi e modificazione del comportamento insegnante, Teramo 1979; H. Aebli, Forme fondamentali dell'insegnamento, trad. it., Firenze 1980; G. Ballanti, Discorso e azione nella pedagogia scientifica, in collab. con L. Fontana, ivi 19843; Id., Modelli di apprendimento e schemi di insegnamento, ivi 1988; R. Zanzarri, L'educazione in quanto comunicazione privilegiata, ivi 1988.