Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fra il 1759 e il 1781 – in occasione delle esposizioni organizzate dall’Académie Royale al Louvre – Diderot analizza la pittura moderna in una serie di reportage scritti per la Correspondance littéraire, seguendone lo sviluppo dal tramonto del rococò di Boucher alle prime affermazioni pubbliche di David: è la nascita della moderna figura dello scrittore d’arte e del polemista, ma è soprattutto l’affermazione dell’autonomia del giudizio e del fare artistico, di un nuovo rapporto fra pittore, critico e pubblico.
Una nuova figura d’artista
Uno degli aspetti caratterizzanti dell’arte nel Settecento è la sua definitiva apertura a un più vasto pubblico, l’affermarsi del mercato in forme sempre più ampie e l’allentarsi di quel rapporto, se non esclusivo certo determinante nei secoli precedenti, fra l’opera e uno specifico committente. L’artista imprenditore di se stesso che dipinge per propria ispirazione e senza la certezza di un guadagno o di un acquirente – dunque il prototipo dell’artista moderno – è certo affermazione settecentesca. Il secolo dei virtuosi conosce ancora la grande committenza laica ed ecclesiastica, ma trova altri momenti di promozione, in particolare nelle esposizioni d’arte dove un pubblico di amatori, di dilettanti e di possibili acquirenti in numero sempre crescente ha modo di accostarsi senza intermediari alle opere contemporanee, segnando talvolta le future fortune degli artisti. E poiché il Settecento è anche il secolo dell’editoria, di una diffusione ormai capillare ed europea delle idee affidata alla nascita della stampa periodica, va da sé che nel campo dell’arte la stessa letteratura e la critica sappiano ora guadagnarsi spazi, occasioni, margini di discussione ben più vasti che in passato e soprattutto sempre meno condizionati da ufficialità e titolazioni accademiche.
Parigi, capitale della cultura e del gusto nell’Europa settecentesca, è il luogo in cui le nuove tendenze dell’arte e della critica si rivelano prima e con i migliori risultati. E proprio a Parigi fra il 1759 e il 1781, in margine alle periodiche esposizioni organizzate dall’Académie Royale al Louvre (dove a ritrovarsi è il meglio dell’arte francese contemporanea), Denis Diderot fa la sua esperienza di critico “militante”. In una serie di reportage scritti per la Correspondance littéraire, il filosofo si confronta con la pittura moderna, seguendone lo sviluppo dal tramonto del rococò di François Boucher alle prime affermazioni pubbliche di Jacques-Louis David con giudizi originalissimi e autonome prese di posizione polemiche: in quelle pagine arte, critica e letteratura si incontrano in una forma nuova, lontana dai canoni e dagli schemi della tradizione accademica. È la nascita della moderna figura dello scrittore d’arte e del polemista, ma è soprattutto l’affermazione dell’autonomia del giudizio e del fare artistico, di un nuovo rapporto fra pittore, critico e pubblico che tanta fortuna avrà, specie in Francia, fino a Emile Zola e a Charles-Pierre Baudelaire.
Le mostre d’arte in Europa: i precedenti
Il Settecento non inventa le esposizioni d’arte. Già a partire dal Cinquecento infatti, in occasione di mercati e festività religiose, è attestata l’usanza di decorare piazze e vie con pitture e altri manufatti artistici tanto in Italia (Roma, Venezia), quanto nelle Fiandre (Anversa) e in Francia (a Parigi in occasione della festa di Saint Denis). Ma è nel Seicento che le esposizioni d’arte, pur mantenendo il tradizionale collegamento con specifiche festività religiose (in particolare il Corpus Domini), acquistano un carattere definito. A Roma sono le stesse famiglie patrizie che, a turno, prestano opere delle loro quadrerie per esporle presso l’oratorio di San Giovanni Decollato. Alla confraternita dei Virtuosi spetta invece il compito di organizzare la mostra annuale al Pantheon (documentata fino al 1764), dove amava esporre Salvator Rosa, artista rinomatamente insofferente nei confronti di intermediari, mercanti e committenti troppo esclusivi, e a cui nel 1650 partecipa anche Diego Velázquez, appena giunto in Italia.
Nel corso del Settecento in Italia non mancano tentativi di incanalare simili iniziative, sempre in bilico fra esibizioni suntuarie, promozioni artistiche e mercantili, verso finalità dichiaratamente educative. Così nel 1706 a Firenze, per volontà di Leopoldo de’ Medici, 250 dipinti di antichi maestri vengono esposti all’Annunziata col fine di promuovere la rinascita delle arti nel Granducato; a Venezia, invece, è possibile acquistare direttamente per tutto il Settecento opere d’arte moderna –Canaletto, Francesco Guardi) – alle mostre della Scuola di San Rocco. Ma queste mostre a giudizio di un contemporaneo, il filofrancese Francesco Algarotti, rappresentano anche un vero e proprio “tribunale della pittura” dispensatore di critiche e onori per gli artisti: qualcosa di paragonabile, in Italia, a quello che in Francia sono già i celebri Salons di Parigi.
Emanazione diretta di quella stessa politica culturale di stampo centralistico che aveva voluto la fondazione dell’Académie Royale (1648), il Salon parigino – nato nel 1667 – per tutto il Settecento ha in realtà ben pochi confronti in Europa. Patrocinato direttamente dalla corte e organizzato dal direttore delle fabbriche reali (Directeur des Bâtiments) col concorso di un giurì accademico, si tiene dal 1725 a scadenza biennale nel Salon Carré del Louvre. E se in Francia l’Académie Royale è l’istituzione ufficiale nel campo della promozione delle arti, il Salon ne è certo l’espressione pubblica e propagandistica: l’occasione in cui l’arte francese dimostra la propria superiorità ad maiorem Regis gloriam; non ha fini commerciali ma nessun artista, benché già famoso, può esimersi dall’esporvi.
Diderot ai Salons
Il Salon rappresenta l’appuntamento più importante della scena artistica parigina, non soltanto per i pittori, gli scultori e gli incisori, ma anche per il pubblico: si calcola che nel 1759 furono almeno in 7.000 a visitarlo e nel 1781 oltre 17.000. Proprio nel 1759 Diderot accetta l’incarico di scrivere un reportage sull’esposizione su invito dell’amico Friedrich Melchior Grimm, direttore della Correspondance littéraire, rivista periodica diffusa nelle principali corti europee, fino a quella di Caterina II di Russia. La collaborazione si replica anche per esposizioni successive, terminando soltanto nel 1781; ma già nel 1767 Diderot conferisce alle sue impressioni artistiche il respiro e l’ampiezza di un’opera letteraria, autonoma dalla stessa rivista che inizialmente la ospita.
L’interesse di Diderot per la pittura è recente, cresciuto in parallelo alla stesura delle prime voci artistiche per l’Encyclopédie e attraverso una sempre più ampia conoscenza di artisti contemporanei e di atelier.
Ma i temi specifici quali la sensazione e l’espressione sono già al centro della sua riflessione filosofica in opere quali la Lettera sui ciechi a uso di quelli che vedono (1749) e la Lettera sui sordi e i muti; le sue doti di brillante divulgatore e di critico acuto sono quindi già ben note. Con tutto ciò il nuovo incarico affidatogli per la Correspondance gli pone anzitutto problemi di scrittura, di uno stile letterario che, volendosi adattare ai soggetti da descrivere, sperimenta da subito l’inadeguatezza delle formule ereditate dalla letteratura artistica tradizionale.
“Per raccontare un’esposizione”, confessa nel 1763, “bisognerebbe avere tutti i tipi di gusto, un cuore sensibile a tutte le attrattive, un animo suscettibile di un’infinità di entusiasmi diversi, una varietà di stile che risponda alla varietà dei pennelli: poter essere grandi e voluttuosi con Deshays, semplici e veri con Chardin, delicati con Vien, patetici con Greuze, produrre tutte le illusioni possibili con Vernet”.
Se la pittura, come la poesia, deve sapere risvegliare un’emozione mediante la scena che rappresenta, se “è l’arte di arrivare all’anima attraverso gli occhi”, allora anche lo stile letterario per Diderot deve essere evocativo, animato e multiforme.
Talora è proprio la letteratura a superare l’opera d’arte, come nel caso dei paesaggi di Joseph Vernet che, nelle pagine dei reportage, divengono pretesto per suggestive descrizioni di una natura primordiale, turbinosa e quasi romantica, all’opposto di quella che l’arcadia rococò addomestica nelle apprezzatissime pastorali di Boucher.
La polemica contro il rococò e l’orientamento verso una nuova pittura morale
Gli anni che vedono l’entrata in scena di Diderot nelle vesti di critico d’arte sono quelli del tramonto del rococò. Le aspirazioni a una nuova pittura di storia, auspicata anche a corte e negli ambienti accademici, si accompagnano infatti alla montante avversione per la petite manière, il petit goût e i soggetti galanti di Jean-Antoine Watteau, van Loo, François Boucher.
Proprio contro Boucher, Diderot affina i propri strali, amareggiando gli ultimi anni di vita dell’artista, riconoscendogli tutt’al più un “eccesso di immaginazione, di effetto, di magia, di abilità” (1763).
La condanna della pittura “falsa” e “chiassosa” di Boucher è però senza appello, anche perché essa è specchio eloquente di quel decadimento dei costumi contro cui Diderot non cesserà mai di scagliarsi: “l’eleganza, la leziosaggine, la galanteria romantica, la vanità, il gusto, la facilità, la varietà, lo splendore, i visi imbellettati, la dissolutezza devono conquistare i damerini, le donnine, i giovani, la gente di mondo, la folla di coloro che sono estranei al vero gusto, alla verità, alle idee giuste, alla severità dell’arte”.
Fedele ai principi della nuova filosofia, quelli stessi che ispirano tante pagine dell’Encyclopédie, Diderot ingaggia anche in campo artistico la propria battaglia per la verità, la natura e una pittura di alto contenuto morale.
A fronte di questi ideali vacillano le codificazioni accademiche e la stessa gerarchia dei generi artistici (pittura di storia, scena di genere, ritratto, paesaggio, natura morta), cui viceversa i Salons parigini si ispirano fin nelle scelte dell’allestimento delle opere. E se alla pittura di storia il filosofo riserva particolari attenzioni, convinto com’è che la carica emotiva di un’opera sia già tutta nella scelta di un adeguato soggetto tragico o drammatico, non di meno altissima e quasi caratterizzante di tutta la critica diderotiana è l’ammirazione per Jean-Baptiste-Siméon Chardin (“non è un pittore storico ma è un grand’uomo”) o l’attenzione per i temi morali di Jean-Baptiste Greuze e i paesaggi di Claude-Joseph Vernet.
“Semplici e veri come Chardin”
“Il ragionamento filosofico”, scrive Diderot nel 1767, “necessita di paragoni sempre più precisi, più severi, più rigorosi, poiché il suo cammino circospetto è nemico del movimento e delle figure. Il regno delle immagini passa mentre si estende il regno delle cose”. Proprio il regno delle cose è quanto lo attrae nella pittura di Chardin che, a partire dal 1759, abbandona la pittura di figura, dedicandosi in modo pressoché esclusivo alla natura morta. Ed è qui che per Diderot l’arte si rivela al suo stadio quasi primordiale di verità e natura: “Per vedere i quadri degli altri pittori”, confessa nel 1763, “mi pare sempre di aver bisogno di nuovi occhi: per vedere quelli di Chardin non devo far altro che tenermi quelli che la natura mi ha dato e servirmene”. Davanti alle opere di Chardin e nel corso dell’amicizia che per anni lo legherà al pittore, Diderot ha modo di affinare la propria sensibilità di critico con osservazioni sui valori della luce, gli effetti dell’atmosfera, il tocco e lo stile, di cui farà tesoro anche nel suo più tardo Saggio sulla pittura, ma che già si segnalano con rara efficacia nelle pagine dei Salons: “Chardin! Non è il bianco, il rosso, il nero quello che mescoli sulla tavolozza: è la sostanza stessa degli oggetti, è l’aria e la luce che catturi con la punta del pennello e diffondi nella tela”.
Verso una nuova pittura morale
Se la misura e la verità di Chardin rappresentano il riscatto dell’arte dalle “accozzaglie di oggetti disparati” di Boucher, “acerrimo nemico del silenzio” (“Ci si ferma davanti ad un Chardin come d’istinto, come un viaggiatore stanco del cammino che, quasi senza accorgersene, si sieda in un luogo dove può stare nel verde e nel silenzio”), contro la futilità, “i fronzoli”, le scenette di genere del rococò al tramonto, il filosofo reclama ormai una pittura animata da grandi emozioni, da azioni che destino interesse, da esempi in grado di “istruire, correggere, invitare alla virtù”. Diderot caldeggia la nascita di un’arte in cui la bellezza, l’utile e la virtù vengano a coincidere, ma i tempi non sono maturi; al momento, infatti, solo i dipinti di Greuze sembrano rispondere alle nuove idee e coerentemente Diderot sa apprezzare l’“esattezza del genere” unita alla “serietà della storia” in questa pittura a sfondo borghese, attratta dai temi lacrimosi, sentimentali e facilmente didascalici (Il figlio ingrato, Parigi, Louvre; Il ritorno dell’ubriaco, Portland Maine, Museum of Art). Ne parlerà come di un genere ormai elevato a pittura morale.
Anche la pittura di Greuze, tuttavia, è solo un primo passo verso un’arte che, più globalmente, deve recuperare il senso catartico della tragedia antica. La critica di Diderot, che negli ultimi anni si esprime in una scrittura frammentaria, emotiva – modello di riferimento più tardi per i romantici tedeschi – interpreta originalmente alcuni dei temi più caratteristici dell’estetica e del gusto tardosettecentesco: il sentimento del sublime naturale, le suggestioni rovinistiche, l’esperienza dell’antico, del barbaro e del primordiale come reazione all’uomo moderno civilizzato, ma soprattutto l’evocazione di un’età, quella dei tragici greci, in cui filosofia e arte camminavano ancora appaiate. Nei Pensées détachées sur la peinture (1776-1781) Diderot invita a “dipingere come si parlava a Sparta” e, senza dover attendere molto, nel 1781 David espone al Salon il suo Belisario; i reportage si chiudono idealmente con la scoperta di “questo giovane [che] mostra una così gran maniera nel condurre la sua opera” “un’espressione senza affettazione”, “attitudini nobili e naturali”, una nuova pittura tragica e morale insieme, a commento della quale si può anche parafrasare Racine: “la vedo tutti i giorni e mi sembra sempre di vederla per la prima volta”.