Didone (Dido)
Regina di Cartagine, che D. nelle opere in volgare cita sempre nella forma nominativale ‛ Dido '. Didone, detta anche Elissa (cfr. Giustino Epit. XVIII; secondo Servio [ad Aen. I 340], Didone sarebbe il soprannome attribuitole dai Cartaginesi dopo morte), fu figlia di Belo, re di Tiro, e sposa di Sicheo (secondo Virgilio; per altri, di Sicarba).
Il fratello di lei Pigmalione, succeduto a Belo nel trono, cupido d'impossessarsi delle ricchezze di Sicheo, lo uccise; ma Didone, caricati con uno stratagemma i tesori su una nave, fuggì con molti uomini in Africa; sbarcata nel golfo di Utica, ottenne da Iarba, re della Mauritania, di poter avere tanta terra quanta potesse contenerne una pelle di bue: allora fece tagliare la pelle in striscie sottilissime circondando un terreno su cui fece edificare Cartagine. Iarba, adirato per l'inganno ma preso dalla bellezza di Didone, la chiese in moglie. Ella, ancora ignara di tale richiesta, aveva sentenziato che il singolo cittadino doveva piegarsi dinanzi ai supremi interessi della patria, e non potendo smentire tale dichiarazione, né volendo acconsentire alle nozze per non venir meno alla fedeltà alla memoria di Sicheo, si uccise (cfr. Giustino Epit. XVIII 4-7). Virgilio, com'è noto, dà ben altra visione, narrando di Didone l'incontro con Enea e l'amore che ne nacque. Didone sperò che Enea rimanesse a Cartagine, sposandola; ma l'eroe, ammonito dagli dei a riprendere il suo fatale viaggio verso l'Italia, l'abbandonò, benché addoloratissimo; e Didone per la disperazione si trafisse con una spada dopo aver lanciato una maledizione preconizzante il mortale odio di Cartagine per Roma (Aen. IV 1 ss.). Enea ne incontrò poi nell'Averno l'ombra, che, piena di sdegno e di rancore, non gli rivolse parola (Aen. VI 450-476).
La prima versione, attestata in Servio, Giustino e Macrobio, e cara alla Patristica, in particolare a s. Agostino e a s. Girolamo, non è in alcun modo conciliabile con l'antitetica narrazione virgiliana: la quale perciò non mancò di suscitare perplessità, soprattutto in una cultura, quale la medievale, che attribuiva al racconto poetico valore di testimonianza storica; e si adducevano contro la possibilità stessa dell'incontro tra Didone ed Enea tavole cronologiche secondo le quali i due sarebbero vissuti in tempi tra loro lontani; mentre invece D. accoglie, con intera fede, il racconto virgiliano (cfr. anche Fiore CLXI 3-5). Benzo d'Alessandria e poi il Petrarca (e, sulla scia del maestro, il Boccaccio delle opere della maturità) esaltarono in Didone, contro Virgilio e quindi anche contro D., l'eroina della fedeltà vedovile: cfr. V. Branca, note a G. Boccaccio, Amorosa Visione, Firenze 1944, XXVIII 1-9; G. Billanovich, Restauri boccacceschi, Roma 1947, 137-138.
Mentre nella canzone Così nel mio parlar (Rime CIII) è chiamata in causa (v. 36) la spada con la quale Amore uccise Didone (sempre citata, virgilianamente, solo con questo nome; cfr., per contro, il Carmen di Giovanni Del Virgilio, v. 32 " regnum... Helyssae "), in Cv IV XXVI 8 la passione che avvinse i due personaggi dell'Eneide è interpretata secondo i moduli allegorico-morali propri di Fulgenzio e di Bernardo Silvestre, secondo cui le peregrinazioni di Enea rappresentano le vicissitudini dell'anima umana attraverso i vizi (Creta, Tracia, ecc.) fino al conseguimento della virtù (Lazio); e Cartagine raffigurerebbe il vizio della lussuria dal quale l'eroe si parte alfine per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa. Si capisce pertanto che D. ponga colei che s'ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo (If V 61-62) nell'Inferno tra i lussuriosi, e in particolare nella schiera di coloro che tinsero il mondo di sanguigno (vv. 85 e 90), sviluppando alcune indicazioni virgiliane (cfr. Aen. VI 440-444; l'esegesi medievale riconosceva appunto nei " Campi lugentes " il cerchio dei lussuriosi, i quali " curae non ipsa in morte relinquunt "). Ancora nel Paradiso (IX 97-98) il poeta ribadisce il torto che fu recato alla memoria di Sicheo e di Creusa dalla passione che travolse la figlia di Belo (per cui le genti antiche dissero che Cupido sedette in grembo a Dido, Pd VIII 9; cfr. Aen. I 685-688, 717-719). Singolarmente diverso è il giudizio che traspare nella Monarchia, dove D. intende esaltare al massimo Enea e la sua missione provvidenziale di fondatore dell'Impero romano; e perciò Didone non è ricordata come esempio d'insana passione amorosa o come vizio che si oppose al conclusivo approdo dell'eroe nel Lazio, bensì come coniunx di Enea, alla stessa stregua di Creusa e di Lavinia, sforzando perciò il senso di Aen. IV 171-172, addotto a prova del connubio, considerato matrimonio, per dimostrare che Enea ebbe come mogli tre nobili donne, rispettivamente dell'Asia, dell'Africa e dell'Europa (Mn II III 14-16), secondo il disegno provvidenziale volto a sanzionare dinanzi agli uomini la missione imperiale affidata all'eroe troiano.