Die Puppe
(Germania 1919, La bambola di carne, bianco e nero, 60m a 20 fps); regia: Ernst Lubitsch; produzione: Projektions-AG Union; soggetto: da motivi dell'omonima operetta di A.E. Willner, ispirata a racconti di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann; sceneggiatura: Hanns Kräly, Ernst Lubitsch; fotografia: Theodor Sparkuhl; scenografia e costumi: Kurt Richter.
Ernst Lubitsch trae da una scatola degli oggetti, con i quali dispone uno scenario in miniatura: una casa, un prato, alcuni alberi. Vi colloca anche i pupazzi di un uomo e una donna. Lancelot, l'uomo, appare ora in carne e ossa. Nipote del facoltoso e moribondo barone di Chanterelle, ne diverrà anche l'erede, al patto di contrarre un matrimonio. Ma il giovane è terrorizzato dall'altro sesso, da cui è perseguitato in ragione dell'eredità. Perciò scappa e cerca rifugio in un monastero, dove i prelati crapuloni gli suggeriscono una soluzione: l'acquisto di una bambola che faccia le veci di coniuge agli occhi del mondo. A tale scopo, Lancelot si reca da Hilarius, sopraffino fabbricante di bambole meccaniche; tra queste, la più perfetta ha le sembianze di Ossi, la figlia di Hilarius. Lancelot intende acquistare questa bambola, ma il maldestro aiutante di Hilarius la rompe giocando. Per risparmiare al ragazzo la punizione, Ossi si finge l'automa. Ne consegue una catena di equivoci, destinati a concludersi con l'unione della coppia e la guarigione dello zio.
Die Puppe occupa una posizione chiave nella produzione tedesca di Ernst Lubitsch, collocato tra le brevi farse della serie con protagonista Meyer, e i racconti più ambiziosi e complessi del primo dopoguerra, da Madame Dubarry (Madame Du Barry, 1919) a Die Flamme (La fiamma, 1922). La tradizione storiografica più nota ha stigmatizzato le prime, valutandole "piuttosto grossolane" (L. Eisner), così come i secondi, per "l'illusoria miscela di realismo convenzionale e di presuntuosa psicologia" (S. Kracauer). In verità, entrambi i modelli produttivi dimostrano un'eccezionale capacità di penetrazione, sui mercati interni gli uni, e internazionali gli altri. Quanto a Die Puppe, in un testo retrospettivo scritto a quasi trent'anni di distanza Lubitsch ne parlava come di "un successo da ogni punto di vista, alla pari di Die Austernprinzessin (La principessa delle ostriche, 1919)". Entrambi i film rivelano la matura sapienza spettacolare del loro regista, che si manifesta tra l'altro nella consapevolezza con cui gestisce lo spazio e gli interpreti, nell'integrazione dell'azione in ambientazioni significative, e nel ritmo narrativo, a cui contribuiva lo sceneggiatore Hanns Kräly, collaboratore di Lubitsch fino alla fine degli anni Venti.
Il racconto si apre con una sequenza riflessiva, nella quale lo stesso cineasta predispone l'universo di finzione in cui si svolgerà il racconto. Questo anche in seguito manifesta caratteri di evidentissima artificiosità: agli oggetti reali si sostituiscono i loro disegni a due dimensioni; all'uso metaforico delle espressioni della lingua verbale corrispondono delle trasformazioni reali nell'immagine; i pupazzi mutano in personaggi in carne e ossa, ma continuano a recare cuori di carta appuntati al petto… Da più parti si è voluto vedere in questa spregiudicatezza nei confronti della verosimiglianza rappresentativa un indizio dei rapporti non dichiarati di Lubitsch con l'espressionismo cinematografico: a sostenere tale esegesi, anche l'impiego di alcuni temi ricorrenti in quella corrente (l'inventore, l'automa). In maniera particolare, la critica francese ha parlato di "espressionismo comico", nel quale "la pesantezza diviene leggerezza, lo schematismo arabesco" (J. Domarchi). Indubbiamente, il film si distingue per il rutilante aspetto figurativo, proprio anche all'impiego frequente di mascherini dalle fogge inusuali, spesso a discapito del realismo. Nondimeno, bisogna notare altri elementi, necessari a collocare nella giusta prospettiva Die Puppe: in primo luogo, sin dai primi anni Dieci la produzione tedesca ricorre a elementi metacinematografici, e in senso più ampio metatestuali, in maniera analoga alle cinematografie francese e italiana ‒ d'altro canto, sempre nel 1919 Lubitsch diresse Meine Frau, die Filmschauspielerin (Mia moglie, l'attrice cinematografica); inoltre, i motivi della creazione, dell'automa e del Doppio allignano nella tradizione letteraria tedesca ottocentesca, ben prima dell'avvento dell'espressionismo. L'impiego di scenografie bidimensionali, invece, pare essere debitore di un modello di spettacolo cinematografico assai diverso da quello successivamente maggioritario, incentrato sulla verosimiglianza e l'assorbimento dello spettatore nell'universo diegetico. Infatti, in questi stessi anni il cineasta adatta per lo schermo mondi altrettanto fantastici e spesso imparentati con il teatro di Max Reinhardt: è il caso della pantomima Sumurun (1920), grande successo del celebre regista teatrale, o del racconto fantastico Die Bergkatze (Lo scoiattolo, 1921), le cui stravaganti scenografie sono opera di Ernst Stern, abituale collaboratore dello stesso Reinhardt.
Il contributo degli attori va inquadrato nei modelli performativi diffusi nel contesto culturale e spettacolare tedesco, tra anni Dieci e Venti, e non può essere dischiuso con il passe-partout dell'espressionismo. Ossi Oswalda fu la diva prediletta di Lubitsch, che non ebbe più collaborazioni altrettanto durature e prolifiche neppure nel più lungo soggiorno hollywoodiano. In Die Puppe l'attrice alterna atteggiamenti meccanici ad altri naturali; ma gli uni e gli altri vanno considerati alla luce dell'influenza che la pantomima e la danza avevano sugli interpreti cinematografici tedeschi, costretti al mutismo dalle limitazioni tecnologiche e pertanto non pienamente assimilati dalla cultura nazionale agli istrioni delle scene. L'ulteriore aspetto da sottolineare nell'impiego degli attori è il bozzettismo, l'inclinazione di Lubitsch per la resa grottesca dei personaggi: la sequenza del convento è emblematica, e preannuncia analoghe figurazioni in Anna Boleyn (Anna Bolena, 1920). Il riferimento ricorrente alla sessualità e alla sua conquista, poi, è e resterà una costante dell'intera opera del regista berlinese: "Il fascino malizioso di Lubitsch, ecco ciò che faceva di lui un vero principe", ha scritto François Truffaut. Il complesso di questi aspetti rappresentativi suggerisce una consistente distanza di Die Puppe dai successivi e più celebri film hollywoodiani, fondati in prevalenza sull'ellissi e sulla figura retorica della litote. Infatti, la produzione tedesca di Lubitsch, e questo film in maniera particolare, si fondano sul gusto per l'esibizione smaccata dell'artificio, sul piacere del confronto diretto tra spettacolo e spettatore, sulla ironica rivelazione della materia delle illusioni.
Interpreti e personaggi: Ossi Oswalda (Ossi/la bambola), Hermann Thimig (Lancelot), Victor Janson (Hilarius), Jacob Tiedtke (priore del convento), Gerhard Ritterband (aiutante di Hilarius), Marga Köhler (moglie di Hilarius), Max Kronert (barone di Chanterelle), Josefine Dora (governante di Lancelot), Ernst Lubitsch (sé stesso).
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