CACCIATORE, Diego
Originario di Lodi, visse nella prima metà del sec. XVII (non si conosce la data di nascita), e si laureò in legge a Bologna. Si trasferì nel capoluogo lombardo all'età di ventitré anni.
Fu cancelliere del Senato di Milano e, quindi, del presidente del Senato Ottavio Picenardi: "in questo posto - scrisse il Picinelli - come che intelligente al pari, ed officioso egli era, aiutò con vigorosa energia le giuste pretensioni della … Badia di San Pietro in Po di Cremona [appartenente all'ordine dei canonici regolari lateranensi], travagliata da parte potente, circa il possesso di certe acque, e condusse la lite alla sentenza favorabile al Monastero…". Nient'altro si conosce della sua vita pubblica. Del resto il Picinelli, che ebbe a tracciarne un breve profilo nel 1670, pochi anni dopo la morte del C., lo descrive come uno dei tanti eruditi di rango minore, forse "molto d'ingegno, ma non molto di fortuna", "amico de' virtuosi, e amatore delle lettere", che "conversava genialmente co' dotti, o impiegava quel tempo tuttoà che gli veniva permesso, in rivoltar i libri; havendo nella libraria Ambrosiana consumata si può dire una parte più notabile della sua vita".
Delle sue opere, poche e di breve lena, la più nota, non tanto per motivi intrinseci di merito ma per luce riflessa, è certo la Censura al diciottesimo Ragguaglio del Boccalini, stampata a Monza e pubblicata a Milano nel 1651, dedicata a Pietro Isimbaldi, marchese del Cairo, membro del Consiglio segreto di Milano e questore del Magistrato ordinario.
Prendendo spunto da un breve passo del ragguaglio XVIII della centuria I, il C. intendeva dimostrare come fosse inverosimile che Apollo avesse cacciato fuori dalla sala reale gli ambasciatori degli Ircani, i quali gli si erano rivolti per sapere se ai popoli fosse lecito abbattere il tiranno. In realtà, la confutazione del C. non è che il pretesto per un lungo sfoggio di erudizione, suffragato da ampie citazioni di filosofi e scrittori politici più diversi e da molteplici esempi tratti dalla vita politica moderna, accumulati gli uni sugli altri senza rigore concettuale, per giungere all'assunto che ben difficilmente il contegno di un principe potesse discostarsi dalla norma, per cui egli "ha obbligatione d'esser savio, prudente, maestoso et padrone di se stesso". In sostanza, dietro le variazioni su questo tema e sul "diritto degli ambasciatori", ciò che al C. premeva era di smorzare in qualche modo l'eco della rilettura in chiave antispagnola (allora rimessa in voga specialmente dagli editori olandesi) di un tipo di satira come quella del Boccalini, non certo tenera, sotto il velo di un'analisi disincantata, per le simulazioni, le ipocrisie e il costume politico del suo tempo e, quel che più importava, di pungente polemica contro il dominio spagnolo. E quanto si deduce anche dalle note introduttive premesse dal C. alla sua dissertazione, scritte non certo in punta di penna, in cui egli osservava riferendosi all'autore dei Ragguagli:"perquanto belli e sani che siano i meli granati, han sempre qualcosa di putrido; anche nei terreni fertili nascono delle herbe più inutili; anche i gran corpi son seguitati da ombre grandi. Di rado si vede un gran spirito senza qualche mescolamento di follia, di cui la più pura procede dalla fina sapienza…". Al di là di certa animosità polemica di circostanza, più interessante è semmai la conclusione apposta dal C. alla sua Censura quando egli scrive - senza tuttavia entrare in pieno nel vivo del dibattito - che "a Dio dispiacciono di modo i Tiranni, che benedice gli uccisori, leggendosi che Ioel fu benedetto per aver ucciso il re Sicara, che era Tiranno, et al Tiranno più di ogni altro, come confessa Hierone, conviene finir la vita con un laccio".
Sull'altra opera del C., Cremona festeggiante (Milano 1653), non è il caso di indugiare. Dedicata al conte Giorgio Rainoldi e stesa su commissione, onde Cremona non si mostrasse "ingrata e mal conoscente del beneficio, che segnalatissimo ha ricevuto dal destro invincibile del marchese [di Caracena]", essa non è che uno zibaldone, sia pur elaborato, ricco di artifici retorici, di tirate polemiche alla brava, ma senza effettivo mordente politico, contro i Francesi (dal cui assedio la città era stata appunto liberata) e di gratuiti luoghi comuni sulle presunte attitudini dei sudditi della monarchia francese, "efferrati, cupidissimi d'oro, sempre desiderosi di far guerra, che non mantengono ad alcuno la fede, barbari e leggieri, che si muovono più tosto da ira, che da ragione".
Il C. lasciò altri scritti, fra cui L'Istoria essere il vero libro dei Prencipi (Milano s.d.), unitamente ad alcuni lavori rimasti inediti, che valgono le precedenti opere già ricordate. Di fatto, esse appartengono ad un genere letterario convenzionale, paludato e con infingimenti moralistici, lontano sia dall'impegno della ricerca critico-erudita, sia dal filone spicciolo, ma in compenso vivace e versatile, del libello e della memorialistica divulgativa, che era proprio di certo robusto giornalismo politico di propaganda e di battaglia.
Il C. morì all'età di cinquantotto anni a Roma, dove si era recato al seguito del cardinale Giulio Sacchetti (ex nunzio a Madrid e dal 1655 vescovo della diocesi suburbicaria di Sabina) con cui era entrato in rapporti di familiarità.
Bibl.: F. Picinelli, Ateneo de' letterati milanesi, Milano 1670, pp. 162 s.; G. Mestica, Traiano Boccalini e la letteratura critica e politica del Seicento, Firenze 1878, p. 121; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1929, p. 317. La prima edizione, sempre del 1651, del lavoro del G. in polemica con il Boccalini, dal titolo originario di Censura d'un Ragguaglio del Boccalini, èconservata presso la Biblioteca Trivulziana di Milano.