FABBRI, Diego
Nacque a Forlì il 2 luglio 1911 da Augusto e Lina Camporesi. Il padre, repubblicano, era operaio in un'officina di pompe idrauliche; la madre, papalina, svolgeva lavori di cucito: genitori modesti ma non incolti, che consentirono al figlio, approdato a Bologna dopo gli studi forlivesi, di frequentare i loggioni teatrali di quella città. A Bologna il F. studiò scienze economiche, ma assisté con interesse alle lezioni di letterati e di storici. Era appena diciassettenne e già scriveva il suo primo testo teatrale, I fiori del dolore, che sarà rappresentato, come le opere immediatamente successive (Ritorno, I loro Peccati, Il fanciullo sconosciuto: 1933-1935) da filodrammatiche d'oratorio. Scriveva critiche teatrali e letterarie per Il Momento, settimanale cattolico di Forlì, e collaborava attivamente alla casa editrice Stella di Bagnocavallo.
La cultura del giovane F. (che si laureò all'università di Bologna in scienze economiche e commerciali nel 1936) sentì il fascino del modernismo, s'accostò ai filosofi, daTlatone a B. Croce a G. Gentile, per orientarsi poi verso la Francia contemporanea: P. Claudel, e ancora di più Ch. Péguy, J. Maritain, F. Mauriac che "gli è particolarmente caro", E. Mounier, G. Bernanos. Ma il F. non ignora F. Dostoevskij, H. Ibsen, L. Pirandello e U. Betti, e neppure Cesare Vico Ludovici, al cui teatro dedicherà un saggio critico nel 1941, indugiando sul dramma Eroica (1912), intenso dibattito dei superstiti di fronte a un bambino morto. Attraverso Betti non è difficile risalire a P. M. Rosso di San Secondo, ai suoi grovigli di passione e alle sue forti tensioni drammatiche (anche a Rosso il F. dedicò, sempre nel 1941, un saggio critico).
Il 29 dic. 1937 il F. sposò a Forli Giuliana Facciani, dalla quale avrà sette figli. Vivevano con i proventi delle lezioni private (egli insegnava filosofia, pedagogia, letteratura italiana; la moglie latino e greco). Nel '39 lasciò Forlì per Roma, dove venne a dirigere la casa editrice Ave della Gioventù di Azione cattolica presieduta da L. Gedda; nel '40 era segretario del Centro cattolico cinematografico (Gedda ne era il presidente). A Roma, dove arrivo con il fiocco degli anarchici (non era mai stato balilla e si era rifiutato di discutere la tesi di laurea in camicia nera), divenne presto amico di Ugo Betti e di Ennio Flajano. Completò la stesura di Paludi e scrisse Il prato, quindi Divertìmento, atto unico d'intonazione intimista: incanto lieto dell'adolescenza che scopre i primi turbamenti d'amore.
La sera del 12 genn. 1942 al teatro delle Arti (e con la regia di Turi Vasile) andò in scena Paludi (nuova redazione de Il nodo, che la censura fascista aveva bloccato perché "pervaso da un pnecoce senso di pessimismo e volto a deprimere i giovani"): fu un successo, anche se, come riferì Ruggero jacobbi, quel grido finale di giustizia! rivolto dai coloni di una falsa e demagogica bonifica contro gli intrallazzatori e gli sfruttatori "faceva raccapricciare il pubblico dei bempensanti".
Il 25 luglio del 1943 il F. con O. Costa, T. Pinelli, G. Guerrieri e V. Pandolfi firmò il Manifesto per un teatro del popolo, dove si dichiarava che "a un teatro inutile è da preferirsi un teatro brutto ma importante. Perché importante? Perché formerà in platea un uomo, un certo tipo d'uomo che comincerà a parteggiare per qualcuno che, dal palco, gli propone dei problemi, dei sentimenti, delle passioni, delle rigenerazioni, delle purificazioni in cui sentirà un accento di autenticità". Intanto il F. aveva scritto, insieme con Paludi, Orbite e La libreria del sole.
In Orbite, come egli stesso confesserà, si è lasciato "tenere per mano da Cechov". Tema centrale della commedia è l'incomprensione fra marito e moglie: un matrimonio che s'incrina. ma la realtà della provincia è una presenza costante, il presupposto di ogni gesto e di ogni parola. La musica di Lucio è "provincia"; le lezioni private di suo fratello Lino sono "provincia"; l'evasione così a lungo sognata dal padre rivela, nella sua limitatezza, l'accettazione cosciente e un po' melanconica della realtà provinciale. Anche Alba, la moglie di Lucio, vive ed agisce solo in funzione di una "ragion di provinciac quando il marito decide di aiutare il fratello e scende finalmente dal suo piedestallo di artista, Alba gli si ribella in nome della propria mentalità borghese e provinciale: "Maestro di musica... in una scuoletta... Chi lo saprà... Nemmeno lasciarmi quel po' di decoro che m'ero creata qui". E c'è, nella commedia, una diffusa e sospesa inquietudine, una ansiosa e quasi processuale volontà di sapere e di veder chiaro, che riappariranno con sempre maggiore evidenza nelle opere successive.
In Paludi, dov'è scoperta l'influenza ibseniana e bettiana, Carlo è corrotto come gli altri e come gli altri colpevole, ma sa trovare a un tratto il coraggio di guardarsi dentro, di vedere i propri errori e di confessare: vuole incontrarsi ormai con la giustizia, "metterla lui stesso in moto". Sa che a qualsiasi costo gli si vorrà impedir di parlare, ma non si ferma per questo e corre volontariamente incontro alla morte (la morte intesa come sacrificio destinato a dar frutti nel mondo è il tema che troviamo nella fiaba squisita del Prato - 1940 -: "lo sono morta fanciulla e la morte m'ha colto fanciulla perché vedessi di più e salvassi qualcuno").
Dopo Paludi, La libreria del sole, scritta fra il 1935 e il 1942: delle opere giovanili è quella che più da vicino prelude alla produzione della maturità.
Il protagonista, Anselmo, abbandona il seminario quando crede ingiusta la regola che impone ai sacerdoti di preservarsi, lontani dal peccato e dai peccatori. Anselmo rompe così la propria solitudine per incontrarsi con l'amore: per conoscere, capire e perdonare, per gettarsi nel vortice della vita. Passare accanto al mondo "col proprio Dio nel cuore" è egoismo e avarizia: è "avere un tesoro e non darlo", quando invece cristianesimo significa "soffrire e amare, inquietarsi e inquietare". Ma Anselmo capisce anche che "per conoscere la vita degli uomini non importa fare le loro stesse esperienze. È necessario mettersi dalla loro parte il giorno dell'incontro"; e senza la presunzione di cambiarli: "Ognuno rimanga quello che è ... È la legge più spaventosa delle cose create. Doverle accettare, non poterle mutare". Vivere accanto ai peccatori e al peccato, ma col cuore puro: di questo Anselmo è convinto. Solo così sarà possibile mettere in atto l'amore e aiutare gli altri a salvarsi.
Più esplicitamente il F. darà conto del "suo" cattolicismo in Cristo tradito, una conferenza che tenne a Roma nel 1944. Incontriamo qui le premesse ideologiche di tutta la sua opera teatrale, che sarà cattolica certamente, purché non si identifichi "cattolicesimo" con "manicheismo". Non dobbiamo, scrive il F., "creare in seno alla cristianità la persuasione di avere il monopolio di Cristo. L'idea di "noi" da una parte e degli "altri" da un'altra, viene da questa anticristiana persuasione. Ed è l'idea che ha tolto all'annuncio di Cristo il suo respiro di libera, universale circolazione, perché ha autorizzato il formarsi del primo, più pericoloso "privilegio": quello di considerarsi detentori del Cristo. Di qui la pericolosa identificazione tra il Cristo eterno e la cristianità storica".
Quasi insieme, fra il 1946 e il 1948, il F. scrisse Rancore e Inquisizione, dove l'ideologia si concreta in fatti e personaggi, senza residui letterari e "propagandistici".
La struttura-base di Rancore è quella del teatro crepuscolare: fuga-evasione della donna e suo ritorno alla routine della vita domestica. Ma il tema trova accenti di una concretezza estranea alla vaporosità di tanto teatro intimista (e del teatro, in primo luogo, del giovane Fabbri). All'inizio la figura di Stella, donna non più giovane ma ancora "irragionevole e istintiva come quand'era bambina", contrasta con "i funzionari del bene" e "i contabili dello spirito"; Stella poi si oppone a Renato suo genero (e marito di Linda), uomo orgoglioso, in famiglia padrone e giudice. I fatti precipitano quando Linda fugge da casa: vuole essere, per un giorno almeno, se stessa, libera delle proprie decisioni. Tornerà, ma dopo aver tradito Renato. A don Anselmo, ora, che indica la via: non basta accettare la donna, bisogna saperla perdonare: "è la cosa più difficile, ma bisogna giungervi". Il cristianesimo è eroismo, ed eroismo chiede la moglie a Renato quando vuole che la sincerità sia posta alla base di una vita che possa continuare insieme.
In Inquisizione i personaggi si riducono e l'autore giunge ad un maggiore approfondimento psicologico. Nel santuario che li accoglie, Renato, Angela e don Sergio dibattono le ragioni della loro crisi e dei loro tormenti. Renato si sente destinato ad ideali diversi da quelli del matrimonio: guarda alle vette di una solitudine che è insieme scontrosa e mistica, ed è per questo che i rapporti con la moglie sono presto approdati all'ostilità, al rancore e all'odio. Angela, la moglie, è invece una creatura tutta terrena, febbrile, violenta, sensuale. Ora che sta per essere abbandonata dal marito si ribella, con furore: in un crescendo che la porta a confondere amore ed odio, la donna protesta anche contro quel Dio in cui non crede; tentò di suicidarsi e di avvelenare Renato, e deve confessarlo: "non può più vivere con questo segreto addosso". Don Sergio è la terza presenza inquieta di questo strano rendez-vous; in procinto di lasciare il suo ministero ora che s'è accorto d'aver sbagliato strada, egli è diviso fra il dovere di "tener fede alla promessa fatta" e quello di non tradire la propria natura. Ma chiudono il dramma le parole dell'abate, che ha osservato i tre con severa e dolce mestizia: "Io vi guardavo e mi siete sembrata l'intera umanità". Bisogna accettare e amare, sapere che la soluzione di ogni umano dissidio è in Cristo e che "nessuna compagnia in fondo ci soddisfa". Dio inquietat Dio aiuta: è questa la verità che, trasmessa dalle parole dell'abate, fa da suggello a Inquisizione.
È ormai evidente che al F. interessa l'uomo intimo, "i tanti perché intrecciati" che stanno alla base di ogni azione e "la matassa imbrogliata dell'anima": anche se l'autore è convinto, come leggeremo in Ritratto d'ignoto, che "un. uomo è un mistero; un uomo è sacro; un uomo lo sa solamente Dio".
Ed è chiaro fin d'ora - se vogliamo ridurre a schema un'opera così densa di proposte, di motivi e di sfumature - che nel dramma del F. il conflitto si consuma sostanzialmente fra due tipici "esemplari" umani: l'uomo preso dall'orgoglio e l'uomo preso dall'amore (da cui discende la contrapposizione contabile-poeta, uomo di testa-uomo di fantasia o addirittura, e tout-court, uomo-donna: ragione il primo, passione e sentimento l'altra). Il F., senza dubbio, è dalla parte dell'uomo d'amore (o della donna); ma alla base della sua drammaturgia sta comunque (e sempre) la convinzione espressa nel già ricordato Cristo tradito.
Dove c'è l'amore - scriverà il F. nella prefazione a Delirio - c'è "l'occasione prossima di salvarsi, la speranza di pervenire alla luce". Nasce da questa convinzione il paradosso comico-drammatico del Seduttore (1951), dove il cammino percorso dal protagonista è - in chiave leggera ma non evasiva, ed elegantemente rarefatta - quello tipico del personaggio del F.: dalla solitudine all'amore; poi, la presa di coscienza che deve pur esserci, altrove, un regno dell'amore, se è tanto forte nell'uomo il bisogno di amare e se l'uomo può carezzare l'idea di unire tre donne "veramente, egualmente, sinceramente amate".
Il seduttore, presentato al Festival internazionale di Venezia il 4 ott. 1951, destò scandalo, soprattutto negli ambienti che al F. erano più vicini. L'Azione cattolica, vedendo nella commedia una ben poco ortodossa interpretazione dell'istituto familiare, "processò" l'autore. Il F. non ritrattò e non cedette all'autocriticascrisse invece, tre anni dopo, La bugiarda: commedia vivace e spregiudicata, che però con Il seduttore ha soltanto una somiglianza apparente: qui si, ma soltanto qui è possibile parlare, e a ragione, di pochade.
Il F. era intanto attivissimo nel campo dell'organizzazione culturale: fondò, nel 1945, con altri venticinque uomini di teatro, il Sindacato nazionale degli autori drammatici. E non venne meno il suo interesse per il cinema: dal '46 fu soggettista - collaborò alla sceneggiatura - di film di V. De Sica (La porta del Cielo), di A. Blasetti (Un giorno nella vita e Fabiola), di M. Soldati (Daniele Cortis), di R. Rossellini (Francesco, giullare di Dio, I sette peccati capitali, Europa '51); nel 1949 diresse la casa di produzione Film Costellazione. Visse parte degli anni '50 (a cominciare dal 1952) a Parigi, dove intensificò i contatti con Mauriac (di cui adatterà Teresa Desqueyroux per il teatro e Pane e vino per la televisione) e con l'opera di Bernanos (del quale porterà in Italia I dialoghi delle carmelitane e tradurrà per la scena Sotto il sole di Satana) e dove si prodigò per la diffusione del teatro italiano contemporaneo (Betti, Pinelli, Fabbri).
Nel 1955, dopo il successo di Processo di famiglia (un forte dibattito morale sulla sorte di un bambino: potrebbe diventare il "figlio di tutti" e resta, morendo, il "figlio di nessuno"), il F. terminò Processo a Gesù, al quale lavorava dal 1952 e che, premiato dall'Istituto del dramma italiano, andrà in scena al Piccolo Teatro di Milano il 2 marzo del 1955, con la regia di O. Costa.
Con Processo a Gesù, prima prova di "teatro aperto" all'interno dell'opus fabbriano, il discorso drammatico si fa corale, di una coralità intesa a trascendere i limiti del palcoscenico per chiamare in causa l'intera umanità. Un vecchio attore ebreo si presenta al proscenio e annuncia che sta per cominciare una rappresentazione insolita: il processo a Gesù di Nazareth: "Gesù era innocente o colpevole secondo la legge giudaica?". La rappresentazione ha inizio, ma manca un attore: manca Daniele, il marito di Sara. Sapremo nell'intermezzo che la sua morte, ad opera dei persecutori, avvenne quando egli stava per convertirsi al cristianesimo, ed era sul punto di credere all'innocenza di Cristo. Sara, allora, tormentata dal rimorso di non essergli stata fedele (e dunque già cristiana, se cristiano è il rimorso), rivive in scena le proprie angosce ed imprime nuovo corso al processo. La rappresentazione degli attori ebrei provoca, nel secondo tempo, un dibattito fra i presenti. Ognuno ha visto se stesso nell'uno o nell'altro personaggio della finzionè teatrale. Ormai le formule sono spezzate, ormai anche il pretesto storico cade per far posto ai sentimenti più veri degli uomini d'oggi e alla parola dei "nuovi testimoni". Ma il verdetto che chiude il processo potrà essere assolutorio? Certamente, solo nel caso, però, in cui sia possibile stabilire l'identità Cristo-Dio. Ora, se Cristo fu veramente figlio di Dio, avrebbe potuto morire? E infatti non morì, ma vive ancora: vive nel cuore dell'"uomo nuovo", del peccatore cristiano ("questa consapevolezza di fare il male, questa sofferenza, questo rimorso, questo strazio, questo bisogno di perdono prima non c'era"). Manca il coraggio di andargli incontro, di riconoscerlo; manca ai sacerdoti il coraggio di imitarlo. La "donnetta delle pulizie" ha compreso Cristo forse più d'ogni altro: sa che Cristo vive e deve vivere, Cristo è amore e vive anche per salvare gli uccisori di suo figlio: si avvicina a Davide (amante di Sara e responsabile della morte di Daniele) e lo bacia sulle guance. È il bacio di Cristo a coloro che lo hanno ucciso.
La rappresentazione di Processo a Gesù suscitò scalpore, sia tra i laici sia tra i cattolici. I tempi, certo, non erano maturi per accogliere le proposte spirituali del F., e l'Alleanza cattolica tradizionalista denunciò il dramma al S. Offizio (13 genn. 1956), motivando la denuncia, dopo attento esame dell'opera, "per offesa alla religione e istigazione all'odio sociale". L'autore non si sgomentò: dopo otto giorni, al teatro Manzoni di Milano, andò in scena La bugiarda; un anno dopo, alla Festa del teatro di San Miniato Veglia d'armi, che continuava i modi corali di Processo a Gesù (ma non la tecnica del teatro nel teatro) e dibatteva i problemi del cristianesimo contemporaneo, quali i rapporti tra cattolicesimo e politica, tra fede e scienza, tra la Chiesa dellospirito e la Chiesa delle istituzioni.
Veglia d'armi è nel suo complesso un dramma dispersivo e alquanto macchinoso; ribadisce comunque, e abbastanza chiaramente, le tesi di Processo a Gesù: la presenza di Cristo nel mondo, l'insopprimibile bisogno di Cristo, l'amore degli uomini quale testimonianza viva del Messia. Se il cristianesimo è in crisi (o soltanto ai suoi albori), lo è per scarsità d'amore: se il cristianesimo vuole diffondersi, ogni apostolato non deve essere altro che una crociata d'amore.
Dopo aver concluso la riduzione teatrale dei Demoni di Dostoevskij (un lavoro iniziato dieci anni prima) e dopo avere scritto il meno felice dei suoi drammi familiari, Delirio (1957), il F. ritornò al teatro nel teatro con Figli darte (1958).
Una compagnia di presa, sul palcoscenico del teatro Comunale di Cesena, sta provando una commedia nuova. Da una parte gli attori, gelosi della propria esperienza, dall'altra il regista, assertore di una mediazione interpretativa che trascenda il mestiere attorale. Ma lo scontro vero scontro non è soltanto questo. avviene sugli opposti fronti dell'intuizione e della ragione. Punto di divergenza è il significato da attribuire al finale del dramma che si sta provando. L'addio del protagonista (un emblematico Giovanni) alla suora sedotta è un ultimo gesto beffardo, o invece un arrivederci prodromo di ravvedimento e di conversione? L'intellettualismo del regista tende a credere vera la prima ipotesi; e dello stesso parere è Osvaldo, primattore della compagnia, gigione e superficiale. Matilde invece, attrice e moglie tradita di Osvaldo, guidata com'è dall'intuito ("spesso la verità s'indovina"), sente e propone una soluzione diversa; lei che "crede senza vedere" (e dunque appartiene alla "galleria" tipicamente fabbriana degli irrazionali, dei fantasiosi, dei "non complicati") sa che Giovanni rimarrà prigioniero delle proprie parole, perché non sì può giocare impunemente con "le cose di Dio". Il ritrovamento d'un ultimo foglietto manoscritto - l'autore è morto e sono questi soli appunti a parlare per lui - dà ragione alla donna, la quale dunque trasmette ad Osvaldo un particolare modo d'essere attore: si avvicini anche lui al testo con la verità dei sentimenti prima che con la soddisfatta certezza del mestiere e offra se stesso - un se stesso ritrovato - al personaggio che interpreta: è l'unica via possibile per essere veri e per dar vita alla vera poesia del teatro.
Nel 1960 il F. iniziò la propria collaborazione alla televisione sceneggiando, per Il novelliere di D. D'Anza, Ilfu Mattia Pascal di L. Pirandello (seguiranno Questinostri figli da Pane vivo di Mauriac, La leggenda del grande inquisitore dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij, Le inchieste del commissario Maigret da G. Simenon, Il segretodi Luca da I. Silone, Malombra da A. Fogazzaro, La fine dell'avventura da G. Greene, Il sospetto da F. Dürrenmatt). Nello stesso anno era direttore, insieme con Vincenzo Cardarelli, de La Fiera letteraria, subentra P. P. Trompeo; aprì il teatro della Cometa in Roma e ne assunse la direzione per due anni.
Nel 1961 il F. scrisse uno dei suoi drammi maggiori, quel Ritratto d'ignoto che andrà in scena al teatro della Cometa nel 1962: ed è l'anno in cui si aprì, ad opera di papa Giovanni XXIII, il concilio vaticano II.
Il F. fu l'interprete di un mondo che non esauriva nel "sociale" la propria realtà: i suoi personaggi parlano raramente (o non ne parlano mai) di lavoro, di fame, di povertà e di ricchezza, di sfruttatori e di sfruttati. L'autore immagina che, effettuatesi tutte le riforme e le rivoluzioni possibili, essi si trovino "in quell'ansioso stato di pausa, di quiete apparente in cui, dopo aver tanto faticato e tutto conquistato, ci si domanda: - E adesso? E poi? -". Sono i quesiti che non si cancellano; e allora "la quiete apparente" scompare, i problemi spirituali si fanno urgenti, chiedono d'essere posti e dibattuti. Casi limite, si potrà dire per le vicende del teatro del F., ma non si potrà mai sostenere che l'autore si eserciti in astrusi cerebralismi. È vero piuttosto che il F. "interpreta la platea" e "scrive per la platea" (nella sua opera il miracolo è più frequente del sofisma), proponendosi di realizzare le intenzioni che ebbe ad esprimere in una pagina di Ambiguità cristiana: "Scrivere per qualcuno; e scrivere per qualcuno significa dare alla nostra personale confessione una oggettiva struttura fantastica nell'intento di destinarla non più a sé, ma agli altri". E questa è una considerazione dell'arte in chiave sociale. Se è vero poi che il cristianesimo, con la sua conclamata rivalutazione degli umili, è un movimento di carattere sociale, tanto più lo è il cristianesimo del F., così pronto a privilegiare lo spirito nei confronti dell'istituzione e la "Chiesa del popolo di Dio nei confronti della "Chiesa gerarchica". È un discorso, questo, che ci introduce a due opere molto diverse di tono e di struttura, ma tuttavia vicine, scritte quasi contemporaneamente: Ritratto d'ignoto e Lo Scoiattolo (1961).
In Ritratto d'ignoto, ove il tema fondamentale è quello dell'inconoscibilità dell'essere ("un uomo lo sa solamente Dio"), vengono tuttavia affrontati argomenti di stretta attualità, come l'ipotesi di un dialogo con l'Europa dell'Est (al fine di una nuova evangelizzazione), la possibilità che i laici siano ormai chiamati a cristianizzare il mondo ("uomini e Aonne senza divisa ma col cuore infiammato di bene"), l'utilità d'una prassi cristiana, alienwda intransigenze.
Nello Scoiattolo c'è, in primo luogo, la delusione di Edmondo de Cavanis, celebre ladro soprannominato Scoiattolo. Egli forza, in Vaticano, la cassaforte delle "Opere cattoliche" e vi trova, anziché fede e mistero, "mucchi di valuta di tutti i paesi". Edmondo de Cavanis, eroe fantasioso e cordiale, fruga in Vaticano per sapere, per conoscere, per "trovare i segreti di Dio", scosso e preso, a suo modo, dall'inquietudine metafisica. Una volta scoperto, vuole che il suo processo si svolga in Vaticano. Perché? Perché spera che lì, nel luogo della Verità, il verdetto possa essere equo, e vengano capite le ragioni profonde della sua carriera di ladro speciale. Egli ha sempre rubato nel settore del sacro sperando in un segno rivelatore, chiedendo che Qualcuno rispondesse ai suoi dubbi. Accade, però che gli uomini, anche in Vaticano, decidano la sua condanna, paladini dell'ordine e della ragione; ma Scoiattolo, condannato dagli uomini, è assolto e salvato da Dio; è il "segno" tanto atteso e cercato: le manette che lo tenevano prigioniero si sciolgono e le guardie che lo avevano in custodia si trasformano in statue di pietra.
Lo Scoiattolo è un felicissimo paradosso, una metafora ilare e lieve, ove incontriamo un F. "in vacanza", ma non "in vacanza ideologica". La verità puoi dirla scherzando, ma resta verità.
Tra una vacanza e l'altra (l'ultima, Lascio alle mie donne, "continuazione" del Seduttore, è del 1969) il F. tornò al dramma corale-evangelico con L'avvenimento (1967), costruito sull'interferenza di un "piano reale" (quello che accade: una banda di ladri ha svaligiato un santuario e, braccata, ripara - uomini e donne - in uno scantinato di periferia) e un "piano storico" (ciò che è accaduto, secondo il Nuovo Testamento e gli Apocrifi, quando, morto Gesù, la banda degli apostoli - uomini e donne - si rifugiò nel cenacolo).
L'incrocio dei due piani è audace e rischioso, ma coerente con l'ideologìa del F., per il quale la vita dell'"uomo nuovo" è una costante verifica dell'avvenimento, della Risurrezione di Cristo come chiave del mondo; e la "presenza di Dio" lavora con fantasia, misteriosamente, al di là dei nostri ragionevoli calcoli. La conclusione dell'Avvenimento, concitata e fortemente drammatica, indica col suo appello alla violenza ("il regno dei cieli si conquista con la forza") la legittimità della difesa, quando la libertà di coscienza venga ad essere pericolosamente minacciata.
Nel 1968 (un anno prima di lasciare la direzione della Fiera letteraria) il F. venne eletto presidente dell'ETI (Ente teatrale italiano), ove realizzò una politica di espansione della cultura e degli spazi teatrali (aumento delle sale associate all'Ente, del pubblico, delle compagnie). Nel 1971 il teatro del F. tornò, con Non è per scherzo che ti ho amato, al "dramma familiare".
È una delle prove più intense e persuasive: un dialogo forte, insinuante, sottilmente inquisitorio sa portare i personaggi, dopo un inizio fatto di pacate indagini, all'esplosione della sincerità, allo scoperchiamento totale di sé e dei propri sentimenti. Ancora una volta c'incontriamo col tema del "non poter cambiare" ("tutto muta, ma non la radice secondo la quale siamo fatti in un certo modo"): e la sofferenza è fonda, ora che il "non poter cambiare" equivale al "non poter amare"; al "dover soffrire", al "dover essere soli". L'amore, in questo cupo dramma, è forza che distrugge, è fuoco che'brucia, e chi muore per amore sente confusamente che c'entra Dio in tutto questo; l'ha capito Ada, la donna semplice; "i troppo intelligenti" non credono, ma lei sì, lei pensa che "un giorno Lo ritroveremo e potremo chiedergli perdono, ma forse non ce ne sarà bisogno...".
Non è per scherzo che ti ho amato sarà pubblicato in volume nel 1972, insieme con Lascio alle mie donne e con Area fabbricabile, che è un lavoro a suspense decisamente minore: verrà rappresentato ancora nel '76 col titolo de Il cedro del Libano.
Nel 1974 il F. ricoprì la carica di presidente della CISAC (Confèdération internationale des Sociétés des auteurs et des compositeurs). Tre anni più tardi (1977) gli venne assegnato, dall'Accademia dei Lincei, il premio Feltrinelli per il teatro. Fu direttore della rivista IlDramma; e scrisse ancora. Nel 1978 Il commedione di Giuseppe Gioacchino Belli poeta e impiegato pontificio (premio Istituto dramma italiano), al quale lavorava da cinque anni, gli dette modo di tornare sul tema del temporalismo ecclesiastico e di tracciare un efficace ritratto del poeta romano ribelle e tribolato.
Fra il 1978 e il 1980 altri tre drammi (saranno pubblicati postumi): Incontro al parco delle terme, L'hai mai vista in scena ...? , Al Dio ignoto.
Nel primo, accanto a motivi tipicamente fabbriani, è centro vivo l'incontro-scontro fra il cardinale che ha perso la fede e Marco, prete spretato già guerrigliero in Sudamerica e toccato "per sempre" dall'inquietudine cristiana. Siamo ancora al conflitto fra due visioni teologiche (e morali) opposte: Chiesa del potere "fondata da Giuda" da una parte e dall'altra Chiesa della Risurrezione fondata da Cristo, un Cristo ancora e sempre vivo "nella sua reale e ininterrotta scorribanda, spesso non segnalata, tra le genti del mondo".
Sul tema della solitudine, abbandonati i contenuti teologici ed ecclesiali, si fondano i casi di L'hai mai vista in scena ... ?, dramma ben concertato, forse sovrabbondante e al limite del sensazionale, ma tuttavia intenso e tristissimo. La tristezza invade la protagonista, grande attrice, che è come spinta da un fato ostile verso la rovina, sua e degli altri: perde un figlio abortendo, perde l'innamorato che si distrugge al gioco, perde l'amante che si uccide. Il viso del ragazzino, bello e sfrontato, su cui il dramma si chiude (un finale felliniano!), è segno di speranza, o stabilisce invece l'inizio di un "nuovo corso", ineluttabile e sempre perdente?
Con Al Dio ignoto il F. torna alla struttura del "teatro nel teatro". Un gruppo d'attori sta recitando un poema drammatico che ha per tema il dolore e la paura nel mondo. Poi, "in dissolvenza", gli attori escono dal personaggio e tornano ad essere se stessi: sanno però che è possibile tportare le parole altrui" senza negare la propria intima verità, sacerdoti di un teatro "impegnato per la speranza" e partecipi (in quanto attori della speranza) di "uno strano ordine monastico". Tra di loro si muove anche s. Paolo. È lui che ricorda il significato della Risurrezione di Cristo; e gli attori allora, tornano a vivere la Risurrezione in scena.
Il F. terminò la stesura di Al Dio ignoto nel febbraio del 1980; nell'estate il dramma venne rappresentato a San Miniato con la regia di O. Costa.
Il 14 ag. 1980 morì a Riccione.
Altri suoi lavori teatrali: Ilviandante dagli occhi turchini (1934), Miraggi (1937), Ricordo (1937), Rifiorirà la terra (1937), Gli assenti (1938) in coll. con G. Chiesa, Contemplazione (1949), Trio (1949), I testimoni (1951), A tavola non si parla d'amore (1962), Il confidente (1964), L'avventuriero (1968), Il vizio assurdo (1974) in coll. con D. Lajolo. Il cadavere vivente da L. Tolstoj, Mastro Don Gesualdo da G. Verga, I viceré da F. De Roberto. La leggenda del ritorno (1966) e L'avventuriero per la musica di Renzo Rossellini.
Fonti e Bibl.: Necrologi in L'Osservatore romano, 20 ag. 1980; in Prospettive nel mondo, ottobre 1980, pp. 152-163; D. F. la lunga stagione dell'inquietudine, in Il Dramma, nn. 1-2, 1981; A. Fiocco, Correnti spiritualiste nel teatro moderno, Roma 1955, pp. 94-104; G. Pullini, Teatro italiano fra due secoli, 1850-1950, Firenze 1958, pp. 381-399 e 430-436; M. Apollonio, Introduzione a D. Fabbri, Teatro I, Firenze 1959; S. Torresani, Il teatro italiano degli ultimi vent'anni (1945-1965), Cremona 1965, pp. 185-215; A. Alessio, Ilteatro di D. F., Savona 1970; G. Pullini, Teatro italiano del Novecento, Bologna 1971, pp. 111-118; A. Bisicchia, Aspetti del teatro comico italiano del Novecento, Milano 1973, pp. 59-80; F. Doglio, Ilteatro postconciliare in Italia, Roma 1978, passim; G. Cappello, Invito alla lettura di D. F., Milano 1979; S. Torresani, D. F., in Otto/Novecento, V-VI (1980), pp. 197-251; D. Cappelletti-G. Vigorelli-U. Ronfani, Pref. a D. Fabbri, Tutto il teatro, Milano 1984; G. Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento, Roma 1986, pp. 160-172; D. F. (Atti del Convegno intern. D. F., Roma, 27-28 nov. 1985), Roma 1986.