Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’elevata densità di popolazione, raggiunta già nel Cinquecento, impone un ritorno a un’alimentazione basata sui cereali con un deterioramento della qualità della dieta. La diffusione delle nuove specie alimentari americane, come il mais e la patata, rimane limitata a qualche zona. Nella seconda metà del secolo, le bevande “coloniali” incontrano un crescente successo.
Conseguenze dell’incremento demografico: la rivincita dei cereali
Durante il Cinquecento la popolazione europea aumenta in misura considerevole e questi livelli elevati di popolamento vengono sostanzialmente mantenuti nel corso del Seicento. Le conseguenze di questa pressione demografica sui modelli di consumo alimentare sono rilevanti. L’aumento della popolazione aveva già imposto la messa a coltura di terreni poco produttivi e la riconversione di aree precedentemente dedicate al pascolo. A parità di superficie, infatti, un terreno coltivato a cereali è in grado di sostentare un numero di persone molto più elevato di quanto lo stesso terreno non potrebbe fare se utilizzato per l’allevamento.
Durante il Seicento prosegue la tendenza, delineatasi nella seconda parte del Cinquecento, al ritorno a una dieta basata prevalentemente sui cereali, con una riduzione dei consumi di carne, di grassi, di frutta e di verdura fresca. Questa situazione incoraggia anche la diffusione della coltivazione e del consumo di due succedanei, di origine americana, dei cereali: mais e patata. Le diffidenze non sono superate ma i vantaggi appaiono evidenti e quantificabili. Un acro e mezzo coltivato a patate è in grado di sfamare una famiglia di cinque persone che, con un’alimentazione a base di cereali, avrebbe bisogno di almeno cinque acri. La patata trova un illustre patrocinatore niente meno che nel fisico Robert Boyle – non a caso un irlandese – che nel 1662 promuove un’iniziativa della Royal Society a favore della coltivazione delle patate come rimedio ai rischi di carestia. Discorso analogo per quanto riguarda il mais, che si conquista faticosamente un suo spazio nelle rotazioni delle tre grandi penisole dell’Europa mediterranea, e in aree molto più limitate, il riso, di origine asiatica.
Il prezzo da pagare, non subito evidente, è comunque alto sul piano della qualità dell’alimentazione. Ma a pagarlo sono naturalmente soprattutto le fasce sociali più deboli, costrette a concentrare i propri consumi su cereali minori per lasciare cereali pregiati, come il frumento, e, a maggior ragione, la carne e i vegetali freschi, alla vendita sul mercato e al consumo di quei pochi che se lo possono permettere. Le differenze fra ricchi e poveri si manifestano con drammatica evidenza nei momenti di carestia, quando il prezzo dei cereali si impenna e si deve ricorrere a qualsiasi cosa: radici, erba, carogne di animali.
Città e campagna…
La quantità e, soprattutto, la qualità dei consumi alimentari variano infatti enormemente in funzione della posizione sociale ma anche del contesto ambientale e delle tradizioni culturali e religiose. Nei consumi alimentari possiamo individuare tre contrapposizioni, che solo in parte si sovrappongono: una generale tra ricchi e poveri, una fra Europa settentrionale e Europa mediterranea, e una fra città e campagna. A queste si potrebbe aggiungere forse una quarta contrapposizione, particolarmente importante in Italia: quella fra pianura e montagna.
La dieta dei pochi ricchi non solo è decisamente più abbondante – 5000 calorie contro 2000 circa – ma anche più variata. L’apporto dei cereali diminuisce con l’aumentare del livello sociale, mentre cresce la quota dei consumi di carne, grassi, verdura e frutta fresca. I contadini invece debbono sempre più accontentarsi di zuppe, farinate, polente, che arrivano a coprire più della metà della loro spesa alimentare, mentre la parte restante è riservata alle bevande alcoliche, importanti non solo per il loro apporto di calorie, ma anche perché più salubri.
Certamente non tutti gli abitanti delle città sono ricchi, ma è un fatto che i consumatori urbani, anche quelli dei ceti più modesti, godono di sensibili vantaggi su quelli rurali. I privilegi annonari di cui usufruiscono molte città e la diffusione della proprietà urbana nelle campagne porta a una netta divisione: alla città il pane bianco di frumento (o una mistura di frumento e altri cereali) acquistato al mercato o proveniente direttamente dalla rendita dei terreni che i cittadini possiedono nelle campagne; agli abitanti del contado rimangono i cereali minori come il miglio, il panico, il grano saraceno, che si diffonde proprio in questo periodo, e i legumi. A questi, o più precisamente al pane di fava, si riferiscono i versi di Giulio Cesare Croce che mette appunto in risalto il contrasto fra consumi urbani e rurali: “O pan di fava… che sei venuto a fare in questo sito [in città] dove non sei gradito né prezzato? Perché tra i contadini non vai, u’ sei amato e riverito?”
I consumatori urbani dei ceti popolari sono favoriti anche dalla distribuzione di cibo, soprattutto nei momenti di carestia, da parte delle autorità municipali, di enti assistenziali o di conventi. Una delle preoccupazioni principali delle autorità municipali e governative è infatti il pane a buon mercato per le plebi urbane, le quali, consce del loro potere, ricorrono eventualmente a quelle forme violente ma ritualizzate di rivolta che costituiscono uno dei modi peculiari di dialogo fra governanti e governati nelle città di Antico Regime.
Pianura e montagna, nord e sud
Anche per quanto riguarda l’alimentazione, la montagna costituisce un mondo a sé, ma le sue peculiarità non sono affatto sinonimo di isolamento e le difficoltà ambientali non si traducono necessariamente in condizioni di vita peggiori, soprattutto per quanto riguarda l’alimentazione. La montagna ha un deficit cronico di cereali. Le superfici sulle quali coltivarli infatti scarseggiano. Nelle montagne più meridionali è la castagna – il “pane degli alberi” – a sostituirli, almeno in parte. Fino alla metà del Seicento, sulle pendici delle Alpi, dei Pirenei o nel Massiccio Centrale in Francia, il castagneto continua a guadagnare terreno a spese delle querce – le ghiande non sono commestibili, anche se il legno di quercia è decisamente migliore come combustibile o legna da opera –, dei faggi e di altre essenze. L’alimentazione montana è comunque in genere più varia, se non più abbondante, di quella della pianura, per il concorso dei prodotti dell’allevamento di bovini, ovini e suini.
Un altro spartiacque è quello che separa le tradizioni alimentari dell’Europa settentrionale e quelle dell’Europa meridionale. Se la preponderanza dei cereali nella dieta accomuna tutti gli Europei, a distinguerli è il diverso uso dei grassi. A sud – in Spagna, Italia centro-meridionale, Francia meridionale – si consuma soprattutto olio d’oliva. A nord si ricorre invece maggiormente ai grassi animali come il burro e lo strutto e, in generale, si consuma più carne. Questo crinale grossomodo coincide con quello, altrettanto importante, che separa l’uso del vino da quello della birra. Il contrasto fra le due culture alimentari, che è una realtà di lungo periodo, è tuttavia stato accentuato dalla Riforma, che ha eliminato a nord gli interdetti cui era soggetta la carne nei giorni di magro e ha diminuito la domanda di vino e olio a fini liturgici.
Il confine tra le due tradizioni alimentari non è comunque così netto. In molte aree dell’Europa mediterranea, l’allevamento del maiale o degli ovini riveste una notevole importanza nell’economia contadina e quindi si fa un ampio uso dei rispettivi grassi animali. E il limite settentrionale della vite si spinge ben più a nord di quello dell’ulivo, come testimoniano le grandi tradizioni viticole della Champagne e della Renania.
Inoltre a contaminare le tradizioni alimentari delle due parti d’Europa sono i flussi di scambi, sempre più importanti. Nei momenti di crisi, sono i grani baltici trasportati dalle navi olandesi a sfamare le popolazioni delle città mediterranee. E sono sempre gli Olandesi e gli Inglesi – protestanti – a fornire all’Europa cattolica il pesce atlantico essicato e sotto sale – baccalà e stoccafisso – molto richiesto nei periodi di Quaresima e digiuno. Nella direzione opposta, le stesse navi trasportano i preziosi vini del Mediterraneo, molto apprezzati nel nord Europa, dove il confine fra bevitori di birra e di vino diventa un confine sociale.
La mondializzazione dei consumi alimentari: il declino delle spezie
Comunque, anche nel Seicento, l’uomo non vive di solo pane, soprattutto se appartiene alla cerchia ristretta di coloro per cui la sopravvivenza quotidiana non è in questione. Tra gli alimenti in qualche misura voluttuari un posto importante lo hanno quelli che provengono da regioni lontane. Nel Seicento prosegue, e in realtà si intensifica notevolmente, quel processo di mondializzazione del gusto e dei consumi alimentari che ha preso avvio durante il secolo precedente.
A questo proposito occorre però distinguere fra quelle piante di origine esotica che possono essere acclimatate e quindi coltivate in Europa o almeno in alcune sue zone, e quei prodotti di origine tropicale che devono essere importati direttamente dalle zone di coltivazione, per altro non sempre corrispondenti a quelle originarie. Nel primo caso rientrano patata e mais di cui si è già detto, ma anche pomodori, fagioli, peperoncino e altro. Si tratta di alimenti che sebbene inizino la loro carriera in Europa come curiosità – quindi riservati a una clientela ristretta – o addirittura come prodotti medicinali, sono destinati a diventare alimenti di largo consumo o anche, come appunto mais e patata, destinati prevalentemente ai ceti meno abbienti.
Nei modelli di consumo dei prodotti tropicali ci sono importanti mutamenti. Il consumo delle spezie orientali (zenzero, noce moscata, macis, cannella, chiodi di garofano ecc.) va incontro a un certo declino proprio in concomitanza con una maggiore disponibilità delle stesse grazie all’intensificarsi dei collegamenti con l’Asia orientale. La maggiore disponibilità, del resto, fa sì che il consumo di spezie perda il valore di simbolo di status. Inoltre il mutamento dei gusti dei ceti più abbienti che abbandonano la cucina speziata e agrodolce a favore di una maggiore separazione fra dolce e salato e dell’uso di salse cremose si accompagna alla diffusione di nuovi ideali di comportamento dei ceti privilegiati, lontani dalle tradizioni venatorie della cucina aristocratica.
Tè, caffè, cacao e zucchero
Se il consumo di spezie declina, a partire dalla seconda metà del secolo incontrano un successo crescente le bevande a base di prodotti coloniali di origine mediorientale (il caffè), asiatica (il tè) o americana (il cacao), apprezzate soprattutto per le loro virtù toniche e moderatamente eccitanti. Le nuove bevande si diffondono, con velocità diversa, in tutti i ceti sociali, dando anche origine a nuove forme e a nuovi luoghi di socializzazione, come i caffè. I primi sorgono probabilmente a Venezia, la città a più stretto contatto con il mondo mediorientale, verso la metà del secolo. Alla fine del Seicento, in tutte le principali città europee, i caffè si affermano come nuovi luoghi di incontro, dove ci si reca per discutere, leggere e informarsi. Un universo maschile e informale alternativo a quello femminile della casa e del salotto e nel contempo controparte borghese e aristocratica dell’osteria popolare.
Parallelamente aumenta anche considerevolmente il consumo di zucchero.
Le bevande alcoliche come il vino e la birra in primo luogo, ma anche il sidro, avevano da sempre dato un contributo importantissimo alla dieta europea. Il consumo giornaliero di vino è senz’altro superiore al litro e quello della birra anche maggiore. Nel corso del Seicento si diffonde, con gravi conseguenze sociali, l’uso di distillati ad alta gradazione, sia a base di cereali (whisky o vodka), sia a base di frutta (calvados, kirsh o grappa).
Stare a tavola
Accanto a questo cambiamento nel tipo di cibo consumato dalle classi abbienti, bisogna registrare quello nelle modalità di consumo, che si fa meno “cruento”, in sintonia con il progresso di quella “civiltà delle buone maniere”, già delineatasi negli ultimi secoli del Medioevo. In questo tipo di trasformazione una funzione determinante ha la volgarizzazione in strati sociali via via più larghi dei modelli proposti dalla corte.
“Un tempo la minestra la si mangiava dal piatto comune, senza cerimonie… e nello spezzatino si intingevano dita e pane. Oggi ciascuno mangia la zuppa dal suo piatto e bisogna servirsi con garbo di cucchiaio e forchetta”. In questa canzone composta verso la metà del Seicento il marchese di Coulanges si riferisce ovviamente solo all’élite.