‘Difesa’ del Risorgimento
Con il «Settecento riformatore», per riprendere il titolo del bel libro di Franco Venturi (5 voll. in 7 tomi, Torino 1969-1990), l’Italia si inserisce pienamente nel vivo della cultura europea, come dimostra, in primo luogo, la grande fortuna del libro di Cesare Beccaria, che si impone subito all’attenzione degli intellettuali europei più autorevoli:
Ce livre, quoique d’un petit volume, suffit pour assurer à son auteur une réputation immortelle. Que de philosophie, que [de vérité], que de logique, de precision et en même temps de sentiments et d’humanité dans son ouvrage,
scrive il 9 luglio del 1765 Jean-Baptiste d’Alembert a Paolo Frisi (cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, 1965, p. 313). Né era solo Beccaria a presentare all’Europa un nuovo, e moderno, volto dell’Italia: sulla stessa onda si muovevano figure di primissimo piano come Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri, che con la Scienza della legislazione suscitò consensi ed entusiasmo in tutta Europa.
Ma per comprendere le origini del Risorgimento ‒ e il fervore intellettuale, civile e politico, che lo caratterizzò ‒, occorre guardare oltre il «Settecento riformatore», e mettere a fuoco l’importanza decisiva della Rivoluzione francese e anche dell’età napoleonica. È di qui che partì la scintilla da cui sarebbe nato, e si sarebbe sviluppato, il moto risorgimentale.
Non che siano mancati sostenitori di un’origine autoctona del Risorgimento, specie nel ventennio fascista, contrastati, però, con durezza da studiosi come Adolfo Omodeo e Luigi Salvatorelli. Quest’ultimo nel 1943 pubblicò quello che oggi è un classico della storiografia risorgimentale, Pensiero ed azione del Risorgimento: secondo Walter Maturi, il «più vivo e il più brillante di tutti i suoi volumi» (Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, 1962, p. 556). In questo libro – come osservò proprio Omodeo recensendolo sulla «Critica» ‒ «il carattere rivoluzionario del Risorgimento è affermato risolutamente contro i celebratori del ‘metodo indigeno’ delle riforme» e «l’unità del moto risorgimentale con la vita e la cultura europea, contro i miti tendenziosi dell’autoctonismo, è dimostrata con un vigore irresistibile». In questo modo ‒ concludeva Omodeo ‒ è definitivamente «travolta la tesi mitica territoriale sabaudica, secondo cui il Risorgimento altro non sarebbe che l’espansione territoriale di Casa Savoia, il completamento della politica del carciofo» (Difesa del Risorgimento, 19552, p. 532).
In effetti, Salvatorelli nel suo libro aveva preso con rigore e nettezza le distanze sia dalle posizioni ‘autoctone’, sia da quella che egli definiva la «concezione modernistica estrema». Infatti, già «prima della costituzione dello stato italiano esisteva da secoli un popolo italiano»; né la «molteplicità politica dell’Italia medievale» poteva significare che «non esistesse in quel tempo l’idea e la realtà di una nazione italiana» (L. Salvatorelli, Pensiero ed azione del Risorgimento, 1963, p. 19). Ciò però non toglieva – anzi ribadiva ‒ che il Risorgimento era stato «un fatto, o meglio un processo di carattere spirituale, una trasformazione intima e completa della vita italiana, una affermazione di autonomia nazionale e individuale» (p. 16).
In conclusione, muovendo dalla critica sia della «tesi modernistica estrema» («europeista pura»), sia di quella «passatistica» («nazionalista»), Salvatorelli, nel suo agile libro, riusciva a presentare un’interpretazione convincente, ed equilibrata, del moto risorgimentale, valorizzando in modo particolare il triennio rivoluzionario 1796-99; l’azione dei giacobini italiani (sia di «quelli morti sul patibolo» sia dei «sopravvissuti»); la funzione di intellettuali di primo piano come Ugo Foscolo, Vincenzo Cuoco o Melchiorre Gioia, il quale, nel 1798, interrogandosi su Quale dei governi liberi convenga alla felicità dell’Italia, da un lato critica l’ipotesi di un assetto dell’Italia in molte repubbliche indipendenti, dall’altro tiene fermo il principio della libertà. «L’Italia ‒ egli dice ‒ dovrà la sua rigenerazione alla filosofia rivoluzionaria che ha liberato l’America e la Francia», e potrà rigenerarsi sia perché gli uomini sono eguali in ogni parte del mondo, sia perché ha dato prova, in altri momenti, di questa sua capacità (L. Salvatorelli, Pensiero ed azione del Risorgimento, cit., pp. 59-61). In breve, conclude Salvatorelli,
nel corso di tre anni vennero posti tutti i problemi del Risorgimento: libertà, democrazia, indipendenza, unificazione federale o unità. […] E furono posti in maniera concreta, storica e attuale a un tempo, in relazione al presente e al passato d’Italia (p. 62).
Dal libro di Salvatorelli è trascorso più di mezzo secolo, nel corso del quale gli studi sul Risorgimento sono andati avanti, progredendo in modi significativi e in territori prima sconosciuti, anche attraverso un intreccio di temi storiografici e discussione politica. Basti pensare, per fare solo un esempio, al confronto di Rosario Romeo con le tesi sostenute da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere sia sui limiti strutturali che avevano connotato il moto risorgimentale ‒ anche per i problemi del Partito d’azione, incapace di sottrarsi, e reagire, all’egemonia dei moderati; sia sui caratteri e le forme del processo di modernizzazione realizzatosi nello Stato unitario (cfr. R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, 1959).
Volutamente si sono fatti però i nomi di Salvatorelli e di Omodeo: per sottolineare la distanza, ma, al tempo stesso, la vicinanza e la paradossale attualità della loro «difesa del Risorgimento» (come si intitola l’importante libro di Omodeo, pubblicato nel 1951). Era stato proprio Romeo a evidenziare, nel 1970, la «profonda frattura che la seconda guerra mondiale e le sue conseguenze» avevano segnato nella storia «non solo politica ma intellettuale e morale della penisola», incidendo anche nella storiografia sul Risorgimento:
Nazione e patria, che durante un secolo e mezzo di storia erano gradualmente assurte a valori e criteri di giudizio, dopo il 1945 sono, non dirò scomparse, ma certo assai scadute nella coscienza e nella cultura in confronto ad altre esigenze e valori (R. Romeo, L’interpretazione del Risorgimento nella nuova storiografia, in Id., Momenti e problemi di storia contemporanea, 1971, p. 13).
Era un rilievo giusto, ma era sbagliata l’individuazione delle cause che Romeo faceva di quella situazione, ritenendone responsabili le forze politiche allora giunte alla direzione del Paese: cattolici e socialisti. La critica, anzi la denigrazione, del Risorgimento sarebbe venuta da altre parti, rivelatesi con chiarezza proprio lungo gli anni Settanta, quando avrebbe cominciato a muovere i primi passi una nuova forza politica, anch’essa estranea alla tradizione risorgimentale e liberale, ma nettamente antagonistica – a differenza dei cattolici e dei socialisti ‒ nei confronti dello Stato nazionale unitario costituitosi nel 1861.
È questo che rende oggi paradossalmente attuale la ‘lezione’ – e la ‘difesa’ ‒ di Salvatorelli e di Omodeo, ma con una fondamentale differenza rispetto alla situazione civile e politica nella quale essi operarono. Al centro della loro ‘difesa’ c’era una polemica dura, ed esplicita, contro le interpretazioni in chiave nazionalistica, e fascista, del moto risorgimentale, del quale essi rivendicavano – sia pure da punti di vista diversi ‒ la dimensione europea e l’autonomia civile e culturale, riferendosi in maniera speciale alla formazione e alle posizioni di Giuseppe Mazzini (cfr. tra l’altro A. Omodeo, La missione religiosa e politica di Giuseppe Mazzini, in Id., Difesa del Risorgimento, 19552, pp. 74-85); oggi, il quadro si è completamente rovesciato. Ciò che viene messo in discussione è il Risorgimento in quanto tale, il valore e il significato del processo di unificazione italiana; e prima ancora, quello che viene contestato è l’esistenza di quella nazione italiana cui Salvatorelli faceva esplicito riferimento e alla quale ora vengono contrapposte le ‘piccole patrie’ che il Risorgimento aveva avuto la funzione, e il merito, di superare, convogliandole nell’organismo del nuovo Stato nazionale italiano (qualunque sia il giudizio che si voglia esprimere sulle forme attraverso le quali esso si era realizzato).
In breve: prima bisognava ‘difendere’ il Risorgimento da concezioni ‘autoctone’ di matrice nazionalistica; oggi si tratta di ‘difenderlo’, cioè di rivendicarne il significato e il valore nella generale storia italiana, rispetto a posizioni ideologiche e politiche che vedono nel moto risorgimentale l’affermazione di un Leviathan al quale sarebbero state sacrificate realtà locali e regionali, che andrebbero invece restaurate cancellando il Risorgimento – cioè lo Stato nazionale unitario ‒ dalla storia. Né si tratta, in effetti, di un fenomeno solamente italiano; anzi, fenomeni di questo tipo in Italia sono rimasti minoritari e circoscritti. In altri casi, o c’è stata la disintegrazione consensuale delle strutture statali esistenti, oppure la regressione da organismi statali moderni a strutture di tipo regionale ‒ spesso su base etnica e religiosa ‒ si è risolta in guerre fratricide che, negli ultimi decenni, hanno insanguinato il suolo dell’Europa.
Alla base di questi processi spesso tragici c’è, come si è detto, la messa in questione del rapporto tra Stato e nazione e, su questa scia, ci sono la critica e il rigetto del modello statuale moderno. Certo, la situazione è ormai opposta a quella con cui si confrontavano Omodeo e Salvatorelli; ma al fondo il problema è comune, e riguarda caratteri e destino dello Stato nazionale moderno, che in Italia si è realizzato con il moto risorgimentale. È in questo senso che oggi continua a esistere, come ieri, il problema storiografico ‒ e civile ‒ della ‘difesa’ del Risorgimento; in altre parole, del valore e del significato dello Stato nazionale unitario.
Naturalmente, ‘difendere’ il Risorgimento – rivendicarne, cioè, il valore ideale e civile nella storia italiana ‒ non significa chiudersi in una statica riproposizione del passato. Bisogna guardare a questa età da una diversa distanza, confrontandosi in modi nuovi con gli esponenti più significativi, anche sul piano filosofico, del moto risorgimentale, inteso come processo civile e politico che, andando ben oltre i confini del «Settecento riformatore», muta in profondità la vita della nazione italiana, rimodellandone dalle fondamenta la struttura civile e spirituale. Soprattutto occorre cogliere la complessità, la pluralità e anche la contraddittorietà delle linee che confluirono nel Risorgimento, distanziandosi limpidamente da quelle interpretazioni tipiche dello storicismo di matrice idealistica che hanno risolto il contrasto fra le posizioni in campo – Camillo Benso di Cavour e Giuseppe Garibaldi; Mazzini e Cavour; Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari e Mazzini ‒ nell’‘unità’ del processo risorgimentale, al quale ciascuna avrebbe dato il proprio contributo, risolvendosi nella ‘sintesi’ storica effettivamente realizzatasi. Il compito dello storico è riaprire le ferite, non chiuderle.
In effetti, sono stati proprio i protagonisti di quell’età ad avere chiaro fin dall’inizio che la ‘rivoluzione’ italiana sarebbe stata assai difficile e complessa, come dimostra in modo esemplare la riflessione di un grande intellettuale quale Vincenzo Cuoco, autore di un fondamentale saggio sulla Rivoluzione napoletana del 1799, in cui svolge una funzione ermeneutica centrale la categoria di ‘rivoluzione passiva’, ripresa poi da Gramsci nei Quaderni per spiegare il fascismo. Come è stato recentemente osservato, Cuoco fu
critico dei rivoluzionari napoletani […], non perché essi furono rivoluzionari, ma perché non avevano saputo volere la rivoluzione fino in fondo, come era necessario e possibile, così da renderla ‘attiva’ se avesse risposto, come avrebbe dovuto e potuto, alle condizioni e ai bisogni del popolo per cui si fanno le rivoluzioni, a cui servono le rivoluzioni (F. Tessitore, Cuoco giornalista tra politica e storia, in V. Cuoco, Pagine giornalistiche, a cura di F. Tessitore, 2011, pp. VII-VIII).
Del resto, la riflessione di tipo storico è una caratteristica generale dell’età del Risorgimento, nella quale – anche in coerenza con il carattere generale dell’epoca ‒ viene ripreso e potenziato quel nesso tra ‘storiografia’ e ‘politica’ caratteristico, fin dal Rinascimento, della ‘tradizione’ italiana, assumendo come terreno di discussione – e di scontro ‒ sia storiografico che politico proprio l’età umanistica e rinascimentale, nel quadro di una generale interrogazione sul processo di formazione, e sui caratteri, dello Stato-nazione in Italia. Si pensi, per fare un solo esempio, alla opposta interpretazione del Rinascimento proposta, da un lato, da Cesare Balbo; dall’altro, da Gian Domenico Romagnosi, uno degli intellettuali, e dei pensatori, più notevoli di questa età.
Per Balbo nel 16° sec. l’Italia ha toccato uno dei punti più bassi della sua storia, sia in politica (la quale «non ebbe più scopo nessuno, e, salve poche eccezioni, non fu più politica nazionale, ma provinciale, la pessima di tutte per qualunque nazione») che sul piano della cultura: «un elegantissimo baccanale di cultura; un rimescolìo di scelleratezze e patimenti e sollazzi» (C. Balbo, Sommario della storia d’Italia, 1937, pp. 393 e 372). Si tratta di una linea interpretativa – generata dalla centralità assegnata al problema del rapporto tra etica e cultura, tra decadenza politica e corruzione morale ‒ destinata ad ampi, e complessi, sviluppi ‒ da Francesco De Sanctis a Gramsci, fino alla ‘nuova generazione’ di storici italiani che negli anni Trenta del secolo scorso si è dedicata allo studio degli «eretici italiani», proprio muovendo dalla questione della ‘coscienza’ italiana e della sua decadenza nel Rinascimento.
Posizioni opposte a quelle di Romagnosi, che polemizza in modo esplicito con coloro che si abbandonano «a un senso di riprovazione nel giudicare questa età», senza interrogarsi su quello che è il limite di fondo – di carattere ‘materiale’ ‒ della storia italiana. Secondo l’ordine naturale dell’«incivilimento», come l’agricoltura è il fondamento dell’economia, così la «possidenza territoriale» è il fondamento del potere politico. In Italia le cose sono andate in modo diverso:
I municipi cominciarono dal ramo industriale e commerciale, per giungere al territoriale; e perciò ripigliarono l’incivilimento antico in ordine inverso. E v’ebbero a trovare grandissimi ostacoli, che non li lasciarono gettare le radici naturali e salde del civile ordinamento (C. Cattaneo, Vita di Dante di Cesare Balbo, in Id. Industria e scienza nuova, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, 1972, p. 315).
È in questi termini che si esprime Cattaneo nella dura recensione (e perciò si cita) proprio della Vita di Dante di Balbo da lui pubblicata sul «Politecnico» nel 1839, riproponendo con energia le posizioni di Romagnosi, al cui insegnamento, come Ferrari, egli era assai legato, oltre che come allievo diretto, attraverso un’idea dell’Italia e della sua storia che si può definire di tipo ‘laico’. Ma in questo periodo è notevole, e da rimarcare, anche il ‘risveglio’ che si attua nell’ambito del cattolicesimo, come testimoniano personalità d’eccezione quali Alessandro Manzoni o Antonio Rosmini-Serbati, il quale pagò assai aspramente per le tesi espresse nelle Cinque piaghe della Santa Chiesa e nella Costituzione secondo la giustizia sociale: denunciato alla Congregazione dell’Indice, venne condannato e, come si legge nel decreto datato 30 agosto 1849, invitato anche a sottomettersi (cosa che, del resto, egli fece subito e senza sollevare obiezioni).
In sintesi, nel Risorgimento ‒ ed è questo che va sottolineato ‒ si ‘risvegliano’, e prendono posizione, le correnti filosofiche e religiose e le tendenze principali della storia italiana, partecipando, in forme differenti, al moto risorgimentale che coinvolge l’Italia portandola all’unità, in un processo costruito con mano sapiente, ma progressivamente – senza, cioè, un piano prestabilito fin dall’inizio ‒ e in stretto rapporto con le dinamiche della politica europea. Si ‘risveglia’ la filosofia, entro cui spicca la figura di Vincenzo Gioberti, il quale – e va notato, alla luce della tesi che si sta sostenendo in queste pagine ‒ fu deputato nel primo Parlamento subalpino, ministro dell’Istruzione e per un brevissimo periodo pure primo ministro degli Stati sardi; si ‘risvegliano’ anche le arti – dalla letteratura, fortemente impegnata anche sul terreno filosofico in ambito sia ‘laico’ che ‘cattolico’, alla musica, grazie soprattutto a Giuseppe Verdi, autentico creatore, con le sue opere, del ‘romanzo popolare’ in Italia (e autore, quasi a ricomporre un cerchio, della Messa di requiem in memoria di Manzoni, eseguita sotto la sua direzione, a Milano, il 22 maggio del 1874).
Post festum, tutto appare semplice e come predestinato: un ‘risveglio’, appunto. Ma le vie della storia sono assai più difficili e tortuose di quanto possa esprimere questo termine: non era stabilito da nessuna parte che l’Italia sarebbe riuscita a costituirsi come Stato nazionale unitario, dopo secoli di divisione. Il Risorgimento fu una dura e difficile conquista, e fu anche, nelle condizioni date, il compimento, e l’inveramento, di una lunga tradizione ‘civile’ che, pure nei momenti di maggiore crisi, aveva continuato a scorrere nel fondo della società italiana. L’Italia – che nel Rinascimento aveva generato alcune delle principali libertà dei ‘moderni’ ‒ non si era mai completamente addormentata, anche quando la sua voce era diventata più flebile. È in questa lunga storia che il Risorgimento ha affondato le sue radici, traendone forza ed energia. Ma proprio perché è stato una dura e faticosa conquista, come tutte le conquiste, può essere perduto.