DIFFAMAZIONE e INGIURIA
Le offese all'onore, nel diritto romano, erano prevedute nel concetto generale di iniuria dalla legge delle XII tavole, dall'editto pretorio, dalla lex Cornelia de iniuriis. Nel diritto germanico mancò un concetto generale dell'ingiuria; essa si prevedeva volta per volta, e si teneva conto della qualità dell'ingiuriante. Si distingueva dall'ingiuria per furorem quella fatta con intenzione cosciente; era permessa la prova della verità mediante il duello; era rilevante la ritrattazione giurata. Nel diritto canonico, si distinse l'ingiuria dalla diffamazione. Il Codex iuris canonici del 1917, nel com. 2355, prevede il fatto di chi "non re, sed verbis vel scriptis vel alia quavis ratione iniuriam cuiquam irrogaverit, vel eius bonam famam laeserit". La distinzione della diffamazione dall'ingiuria si trova in quasi tutti i codici moderni, ad eccezione della legislazione inglese, canadese, sudanese. I codici danese e islandese dislinguono i due delitti, a seconda che si offende l'onore (sia mediante l'attribuzione di un fatto o di una semplice qualità) o il decoro. In genere, il criterio distintivo accolto è la determinatezza del fatto attribuito (diffamazione) in confronto dell'indeterminatezza d'una qualità (semplice ingiuria).
Fra gli ex-stati italiani, il codice sardo ipotizzava la diffamazione come propalazione di un fatto determinato, senza alcun riferimento all'animus; vietava la prova della verità del fatto; ammetteva in taluni casi la exceptio veritatis. Il codice toscano seguiva lo stesso concetto quanto all'elemento obiettivo; richiedeva poi che l'attribuzione fosse dolosamente fatta; non accennava all'exceptio veritatis che fu ammessa solo in seguito con l'editto sulla stampa. Il cod. pen. Zanardelli prevedeva la diffamazione nell'art. 393; l'ingiuria nell'art. 395. Esso aveva abrogato gli articoli dell'editto 26 marzo 1848, n. 695, che prevedevano la diffamazione e l'ingiuria commesse a mezzo della stampa. Nella dottrina, si distinse un onore subiettivo consistente nel senso della dignità personale; e un onore obiettivo consistente nella riputazione che il pubblico ha di ciascun uomo. Secondo il cod. Zanardelli, nella diffamazione è prevalente l'offesa alla riputazione (buona fama), nell'ingiuria l'offesa al decoro o alla dignità personale. L'art. 393 richiedeva, per la diffamazione, una propalazione che esponesse alcuno al disprezzo o all'odio pubblico o ne ledesse l'onore o la riputazione. Lo Zanardelli comprendeva nel concetto di "onore" la probità, la rettitudine, la lealtà, il carattere; nel concetto di "reputazione" quel patrimonio di stima, di credito, di fiducia che taluno può essersi procacciato e che può essere leso senza che ne sia leso l'onore. L'attribuzione diffamatoria doveva essere pubblica, cioè fatta a più persone (due o più); doveva essere cioè una "propalazione". Questa poteva essere fatta con parole, con scritti (atti pubblici, scritti o disegni esposti o divulgati: libello famoso) e poteva risultare anche re, da una inscenatura (ad es., dal fingere che un uomo scappi in disordine dalla camera di una donna, per far credere a rapporti illeciti fra essi).
L'elemento obiettivo non diede luogo a notevoli controversie. Vive, invece, furono le discettazioni circa l'elemento subiettivo. Poiché la diffamazione è reato doloso, in che cosa doveva consistere la "volontarietà del fatto" richiesta dall'art. 45? La volontà dell'agente doveva riferirsi solo alla propalazione, e cioè all'attribuzione ad altri di un fatto disonorevole comunicandolo a più persone, od anche all'offesa dell'onore altrui, che dev'essere voluta dall'agente? Dai più si argomentava in diritto positivo dall'espressione legislativa "fatto tale da esporre ecc..." che il fatto dovesse essere obiettivamente lesivo dell'onore altrui, senza bisogno che l'agente volesse tale effetto. L'indirizzo positivista ha qui portato l'esigenza dei motivi: si dice, non ogni propalazione costituisce diffamazione, ma solo quella fatta pet motivi pravi, antisociali. I motivi leciti, di pubblica censura, che portano a smascherare chi scrocca la fama di uomo onesto, senza alcun livore personale dell'agente verso l'attaccato, escluderebbero il reato. La teoria, detta psicologica o subiettivista, della diffamazione ha importanza soprattutto per la vita e l'attività pubblica degl'individui, che è esposta a censura. Essa ha avuto indiretto riconoscimento nella legislazione italiana col progetto 1° aprile 1909 dell'on. Orlando, il quale, pur lasciando intatto l'art.393 cod. pen., quanto all'elemento subiettivo, ammise la prova della verità del fatto quando l'accertamento di esso sia "di pubblico interesse". Pel codice Zanardelli, i casi di ammissione della prova della verità dei fatti sono tre: a) se la persona offesa sia pubblico ufficiale, e il fatto attribuito si riferisca all'esercizio delle sue funzioni; b) se per il fatto attribuito sia aperto o s'inizî procedimento penale; c) se la persona offesa estenda la querela alla prova della verità o falsità dei fatti. Processualmente, per la diffamazione si disputò della opportunità di far luogo alla creazione di Corti di onore, più adatte dei giudici togati a giudicare delicate questioni sulla rispettabilità dell'offeso. Il progetto Orlando mentovato (art. 3) lasciava alla parte lesa la scelta fra la querela e la richiesta di riparazione alla corte di onore. L'istituzione delle corti di onore venne caldeggiata anche per evitare le cosiddette vertenze cavalleresche. L'attribuzione ad altri di una semplice qualità che offendesse "l'onore, il decoro o la reputazione di una persona,, costituiva ingiuria (art. 395 cod. pen.). Il codice sardo (art. 592) la definiva "ogni espressione oltraggiosa, parola di disprezzo od invettiva"; il codice toscano la definiva "contumelia" (art. 368). Qualche autore propose che fossero disciplinate a parte le "ingiurie reali sulla persona" (schiaffi, vie di fatto). A differenza dalla diffamazione, l'ingiuria poteva commettersi anche senza pubblicità, alla presenza del solo offeso o con scritto a lui diretto; anzi, allora la pena era aggravata.
Il cod. pen. ital. del 1930 ha modificato il criterio distintivo, onde si distingueva la diffamazione dall'ingiuria. Essa risiede non più nella determinatezza del fatto, ma nella propalazione fatta in danno di una persona assente. L'assenza distingue la diffamazione dall'ingiuria: si ingiuria una persona presente, offendendone l'onore o il decoro (art. 594); si diffama un assente, del quale si ferisce la reputazione, comunicando con più persone, cioè con terzi (art. 595). Quando la vittima sia presente, e all'ingiuria assistano altre persone si ha un'aggravante (ult. capov. dell'art. 594). Dal requisito della presenza della parte offesa, richiesto per l'ingiuria, deriva il problema se debba considerarsi presente l'individuo al quale si rivolge una comunicazione telegrafica o telefonica o anche epistolare. Il codice l'ha risolto in senso affermativo; ma tale soluzione, a stretto rigore, sarebbe esatta solo per le ingiurie rivolte a mezzo del telefono. Un'altra conseguenza del nuovo sistema è che l'aggravante della pubblicità (anche a mezzo della pubblica stampa) non può più riguardare l'ingiuria, la quale per definizione dev'essere commessa alla presenza della vittima, ma solamente la diffamazione: e in tale senso dispone il 2° capov. dell'art. 595. La determinatezza del fatto attribuito alla vittima, cessando di essere il criterio differenziatore dei due delitti, è diventato motivo di aggravamento della pena: si può ingiuriare o diffamare, indifferentemente, attribuendo ad altri tanto una qualità o un epiteto, quanto un fatto determinato. Per altro, la legge non poteva dimenticare che l'offesa ad altri è più grave quando sia circostanziata e particolareggiata. Un'altra caratteristica differenzia la diffamazione dall'ingiuria: questa offende l'onore esterno, formale della persona, l'altra offende l'onore e la stima che la vittima si è procacciati presso i terzi, e cioè la reputazione. Una differenza, questa, che attiene al bene giuridico violato.
Il nuovo codice italiano innova sopra un punto assai importante: eschdendo la prova liberatoria circa la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa (art. 596): non vale che l'offeso sia pubblico ufficiale né che l'offesa si riferisca a fatto per il quale si svolge procedimento penale. Tuttavia, l'altra ipotesi del codice Zanardelli, e cioè la facoltà di prova accordata dalla stessa persona offesa, può agire non già nel senso di far svolgere questa prova dinnanzi al giudice penale, ma nel senso di sottrargli la vertenza. Infatti l'art. 596 dispone che le parti, fino a che non sia stata pronunziata sentenza irrevocabile possono di accordo deferire il giudizio sulla verità del fatto ad un giurì d'onore. Una particolarità è che la provocazione rende non punibile l'autore di questi reati (art. 599), mentre, secondo le norme generali, la provocazione può solamente far diminuire la pena.
Bibl.: B. Alimena, Diritto penale, II, Napoli 1912,p. 444; id., Delitti contro la persona, in Enciclopedia dir. pen., diretta dal Pessina, IX, Milano 1908; E. Florian, La teoria psicologica della diffamazione, 2ª ed., Torino 1927; S. Longhi, Per un codice della prevenzione criminale, Milano 1922, p. 174; E. Ferri, Principî di dir. crim., Torino 1928, p. 315; E. Altavilla, Delitti contro la persona, Milano s.a., p. 278; S. Cicala, Per una migliore disciplina delle ingiurie reali sulla persona, in Scuola positiva, Milano, dicembre 1928, p. 409; G. Appiani, Relaz. introd. ai lavori preparatorî del cod. pen., Roma 1929, p. 498.