Abstract
La voce compie una ricostruzione generale del modello statunitense di protezione delle opere di contenuto artistico o letterario, conosciuto come copyright. Vengono analizzati poi i più importanti interventi di riforma che, tanto a livello internazionale quanto a livello nazionale, hanno interessato i diritti degli autori a partire dalla seconda metà del XX secolo, al fine di garantire una tutela efficace e uniforme di fronte alla rapidissima rivoluzione digitale che ha permesso di moltiplicare e trasformare i vettori della creazione. È dedicata particolare attenzione alle innovazioni introdotte con il DMCA, alle misure giuridiche di protezione delle opere reperibile online e al modello di responsabilità indiretta degli ISPs .
Il copyright è un sistema di protezione dei diritti degli autori caratteristico dei paesi di Common Law. Il termine, coniato nell’Inghilterra del XVIII secolo, indicava in origine il diritto di copia, o diritto sulla copia, che si sostanziava in una esclusiva di stampa a carattere temporaneo, riconosciuta ad autori, stampatori, librai.
In seguito, per metonimia, il vocabolo ha assunto un significato più ampio, e oggi viene impiegato per designare sia un diritto di proprietà letteraria, garantito dall’ordinamento attraverso norme statutarie, sia un vero e proprio modello di tutela contrapposto a quello di tipo europeo-continentale.
Tradizionalmente, nell’ambito degli studi comparatistici, la dottrina sottolinea una differenza di significato importante tra i sistemi di copyright e quelli di droit d’auteur: mentre questi ultimi sono orientati alla tutela dell’autore e del suo talento (attraverso il riconoscimento di un diritto economico e di diritti morali perpetui e indisponibili), il copyright è finalizzato alla più ampia distribuzione e diffusione di opere dal contenuto letterario ed artistico, e pone l’interesse pubblico alla fruizione di tali beni come lo scopo principale delle leggi in materia (Moscati, L., Tra copyright e droit d’auteur: origine e sviluppo della proprietà intellettuale in Europa, in Altorilievi, 2011/7, 1-14).
Nella disciplina statunitense, che qui ci occupa, tale assunto trova un fondamento nell’art. 1, §8 cl. 8 della Costituzione, conosciuto anche come Intellectual Property Clause. La norma introduce una riserva di legge a favore del Congresso in materia di proprietà intellettuale, indicando il progresso delle arti e delle scienze come il parametro di orientamento per il legislatore, che può riconoscere ai titolari del copyright un diritto esclusivo di “ownership and use” sulle opere letterarie, musicali e artistiche, purchè limitato nel tempo.
Nonostante gli emendamenti numerosi, l’impianto generale del Copyright statunitense è ancora quello introdotto dalla riforma federale del 1976 (An Act for the general revision of the Copyright Law, title 17 of the United States Code, and for other purposes, Pub. L 94/553), caratterizzata da una sorta di europeizzazione, nella prospettiva di una adesione alla Convenzione di Berna (v. infra § 2.1) avvenuta nel decennio successivo.
Le previsioni cardine della legge sono contenute oggi nelle §§ 106 e 106 (a) del titolo 17 U.S.C, dove vengono enunciati i diritti di esclusiva riservati agli autori. Tali diritti vengono solitamente distinti in due grandi categorie: riproduzione, adattamento e distribuzione, da un lato, rappresentazione pubblica e visualizzazione, dall’altro lato. La legge prevede che per ognuno degli utilizzi menzionati venga richiesto il consenso preventivo del titolare del copyright, ma la §107 del 17 U.S.C codifica una regola generale di eccezione, nota come fair use. Si tratta di una deroga al principio del consenso preventivo, che consente alle Corti di accertare caso per caso la liceità della condotta dell’utilizzatore, in presenza di quattro indici: la finalità, commerciale oppure educativa, dell’attività; la natura dell’opera; la quantità e la sostanzialità del materiale utilizzato in rapporto all’opera originale; infine, la fungibilità sul mercato del nuovo e del vecchio prodotto.
La legge del 1976 prevede che la protezione di un’opera decorra dal momento stesso in cui questa viene creata, vale a dire «fixed in a tangible medium of expression»( 17 U.S.C §§ 101-102 (a)), a prescindere dal dato che essa che sia stata o meno pubblicata e senza l’osservanza di formalità di registrazione e deposito, che incidono solo sulla possibilità di accedere a specifici strumenti di tutela federale (17 U.S.C § 502.).
Sul finire del XX secolo, tuttavia, la forte accelerazione tecnologica ha immesso nel mercato nuovi strumenti utilizzabili per la riproduzione e la trasmissione di opere letterarie e artistiche, che ne semplificano ed economicizzano la diffusione, talvolta senza che sia neppure necessario l’ausilio di alcun supporto meccanico (si pensi alle sequenze di numeri in formato binario, nelle quali viene scomposta l’opera digitale; al transito dei dati all’interno della memoria ram di un computer). In questo nuovo mondo, regole volte alla tutela delle opere artistiche che sembravano efficenti e granitiche diventano obsolete.
Allo stesso tempo, i mercati mondiali sono divenuti sempre più integrati e, mentre l’esportazione dei beni di consumo tradizionali si è ridotta, è aumentata l’esportazione degli intangible assets, il cui valore è commissurato all’esclusività del loro specifico contenuto informativo e che necessitano di una protezione forte offerta dalle norme sulla proprietà intellettuale.
Questo complesso stato di cose spiega la popolarità che ha assunto la Copyright Law, ormai al centro di un dibattito pubblico vigoroso. Le sollecitazioni a cui è sottoposto il meccanismo di tutela consolidatosi nell’era analogica hanno sollevato numerosi interrogativi: si parla di Digital Dilemma, per fare riferimento al conflitto tra l’esigenza di garantire l’accesso ai contenuti digitali e quella, contrapposta, di tutelare in maniera adeguata i diritti di proprietà intellettuale (Samuelson, P. The Digital Dilemma: A Perspective on Intellectual Property in the Information Age in Berkeley Law Journal, 2000, 1 ss.); la formula Digital Agenda indica invece un piano programmatico di intervento in risposta alle questioni sollevate dai titolari del diritto d’autore di fronte ai nuovi strumenti di comunicazione.
Infine, la dottrina statunitense ha definito Digital Copyright il processo legislativo che ha portato, nel 1998, a un emendamento significativo del Copyright Act, noto come Digital Millenium Copyright Act, dovuto, in parte, alla necessità di adeguarsi alle regole imposte dai Trattati OMPI (sui quali v. infra § 2.1).
Poiché il bisogno di adattare il copyright al mutato contesto tecnologico e alle esigenze della società dell’informazione si accompagna all’urgenza di creare un sistema di regole uniformi a livello globale, non sorprende che l’evoluzione dei diritti statuali (in un senso particolarmente garantista per gli autori, secondo molti) abbia avuto origine proprio dall’implementazione dei trattati internazionali.
La Convenzione di Berna è il principale trattato multilaterale finalizzato alla protezione delle opere artistiche e letterarie. Il testo originario, promulgato nel 1886, si è arricchito di una serie nutrita di atti e protocolli addizionali (l’Atto Addizionale di Parigi nel 1896, l’atto di Berlino del 1908, il Protocollo addizionale di Berna del 1914, l’Atto di Stoccolma del 1967, l’Atto di Parigi del 1971), sino a giungere ad una ultima revisione, nel 1979.
La Convenzione di Berna conta oggi l’adesione di 168 Stati, e si pone come il nucleo centrale e solidissimo del diritto d’autore internazionale. La sua struttura (requisito della internazionalità, regola del trattamento nazionale e norme minime di protezione destinate a creare uno standard comune noto come “substantive minima”) costituisce il paradigma sul quale sono state modellate tutte le successive convenzioni volte alle tutela del copyright e dei diritti connessi.
Nel 1967, in seguito all’atto di Stoccolma, i paesi aderenti alla Convenzione di Berna hanno dato vita all’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale (OMPI, o WIPO nella nomenclatura inglese), il cui scopo è «lo sviluppo di un sistema di proprietà intelettuale internazionale bilanciato ed efficace, che assicuri l’innovazione e la creatività».
Dalla sua istituzione, oltre ad amministrare la Convenzione di Berna, l’OMPI ha favorito la protezione della proprietà intellettuale attraverso la negoziazione di nuovi accordi multilaterali.
In particolare, nel 1996, data l’impossibilità di operare una nuova revisione generale del testo dalla Convenzione di Berna, in seno all’OMPI sono stati conclusi due accordi specifici, il WIPO Copyright Treaty (WTC) e il WIPO Performances and Phonograms Treaty (WPPT), che hanno introdotto norme volte all’applicazione della disciplina sul diritto d’autore nell’era digitale, allo scopo di impedire che incertezze circa l’interpretazione delle regole tradizionali potessero condizionare l’evoluzione del mercato globale dei prodotti intellettuali elettronici.
Si tratta, più nello specifico, di disposizioni relative alla digital agenda, che prevedono il diritto di controllare la riproduzione di opere in formato digitale e di autorizzare ogni atto di comunicazione al pubblico, indicano i requisiti relativi alle misure tecnologiche di protezione e dettano disposizioni in materia di informazioni sulla gestione dei diritti (WTC artt. 11-12; WPPT art. 18).
Nei trattati OMPI, quindi, ottengono riconoscimento per la prima volta i c.d DRM (Digital Rights Management), softwares in grado di garantire la distribuzione online delle opere digitali offrendo una sorta di protezione anticipatoria da eventuali violazioni e regolando l’accesso degli utenti ai contenuti.
L’Accordo sui Diritti di Proprietà Intellettuale relativi al Commercio (TRIPs) costituisce l’allegato finale dell’Uruguay Round concluso a Marrakesh nel 1994, ed ha ampliato la portata soggettiva della protezione sostanziale offerta dalla Convenzione di Berna. Oltre alla famosa previsione che introduce il principio della nazione più favorita (art. 4), l’accordo si caratterizza per alcune specificità, in risposta alle innovazioni tecnologiche, alle nuove tipologie di prodotti e ai nuovi modelli distributivi.
Il TRIPs espande infatti il novero dei diritti di esclusiva riconosciuti, includendovi il diritto di noleggio, e, ancor prima del WTC, estende il proprio ambito di operatività alla banche dati (art. 10.2) e ai programmi per elaboratore (art. 10.1), chiarendo che le prime sono ricomprese tra le creazioni intellettuali in senso lato, i secondi all’interno delle opere letterarie.
Il periodo che va dal 1992 al 2012 è stato uno dei più controversi dal punto di vista delle iniziative legislative in materia di copyright; mentre la riforma federale statunitense del 1976 è stata frutto di un lungo processo redazionale, nell’ultimo ventennio la risposta del Congresso all’esplosione delle nuove tecnologie è stata tanto rapida e frequente che in dottrina si è parlato di “overreaction” (cfr. Ginsburg, How Copyright got a Bad Name for itself, in 26 Columbia Journal of Law and Arts, I , 2002, 2). Tra i principali emendamenti deve essere annoverato senz’altro il Copyright Term Extension Act del 1998 (Pub. L. No. 105-298 112 Stat.2827, più noto come Sonny Bono, o Mickey Mouse Act), che ha portato da 50 a 70 anni post mortem la durata dell’esclusiva riservata all’autore (oppure 95 anni dalla data di prima pubblicazione), allineando la protezione temporale delle opere composte, pubblicate o distribuite nel territorio degli Stati Uniti a quella prevista nei Trattati OMPI, e nella maggioranza degli Stati Europei.
La dottrina ha accolto con disfavore l’estensione del termine di durata che, secondo alcuni, rappresenta una minaccia per la sopravvivenza del dominio pubblico, arrivando a preannunciare una vera e propria paralisi nell’accesso all’informazione, e auspicando una declaratoria di incostituzionalità, ad opera della Corte Suprema (cfr. Samuelson, P., Mapping the Public Domain; threats and opportunities, in 66 Law and Contemporary Problems, 2003, 147), per violazione della Intellectual Property Clause.
Il CTEA ha infatti posticipato la caduta nel dominio pubblico di un numero cospicuo di opere, a fronte di un dubbio beneficio per gli autori, includendo in questa categoria molto ampia anche gli autori delle opere derivative. Sul punto, occorre evidenziare che la §304 del titolo 17 del U.S.C, così come introdotta dal Sonny Bono Act, consente all’autore o ai suoi eredi di beneficiare del periodo ulteriore di tutela solo in alcune ipotesi molto specifiche.
Nessun intervento normativo, tuttavia, ha sollevato maggiori polemiche del Digital Millenium Copyright Act, del 1998 (Pub. L. No. 105-304, 112 Stat. 2860 (Oct. 28, 1998). L’emendamento recepisce i trattati OMPI del 1996 (v. supra 2.1) e vuole fornire una protezione giuridica efficace agli autori contro gli atti di pirateria digitale commessi attraverso internet. Sarebbe erroneo, tuttavia, attribuire al DMCA il ruolo di mera normativa di attuazione degli accordi WTC e WPPT, poiché l’emendamento ha introdotto una disciplina articolata sulla fruizione di materiali protetti disponibili in formato digitale, che va ben oltre le originarie previsioni internazionali (Samuelson, P., Intellectual Property and the Digital Economy: why the anti-circumvention regulations need to be revisited in 14 Hight Technology Law Journal, 1999, 519).
Il DMCA (che ha aggiunto il capitolo 12 al titolo 17 del U.S.C §§ 1201-1205) è diviso in cinque parti: i) implementazione delle norme contenute nei due trattati WIPO; ii) limitazioni della responsabilità degli ISPs per violazioni del copyright compiute dai loro utenti; iii) introduzione di alcune eccezioni, che consentono di effettuare copie temporane dei files presenti su un computer a scopo di riparazione o assistenza; iv) ruolo e compiti del Copyright Office, educazione a distanza ed altre esenzioni specifiche dalle previsioni del DMCA; v) estensione della normativa sul copyright ai progetti di scafi e vascelli.
Non tutti gli aspetti della riforma hanno però catturato l’attenzione della dottrina la quale, soffermandosi in modo particolare sulle previsioni contenute nelle §§ 1201-1202, ha lamentato il riconoscimento di un rafforzamento eccessivo della posizione degli autori, a discapito del diritto all’informazione.
Il primo titolo, in effetti, introduce due nuovi divieti: l’uno investe le condotte atte a eludere o aggirare le misure tecnologiche poste a protezione di opere tutelate (§1201); l’altro concerne la manipolazione o l’alterazione di informazioni elettroniche sulla gestione dei diritti sui prodotti protetti (§1202).
Il DMCA introduce infatti un nuovo reato federale, che si consuma nel momento stesso in cui vengono aggirate le misure anti-pirateria incorporate nella maggior parte dei softwares o dei contenuti digitali in commercio (17 U.S.C §1201(a)(I)(A), anche nel caso in cui, giova sottolineare, la violazione non abbia come conseguenza la contraffazione, come avviene nel caso di ascolto o visualizzazione di un’opera a scopo domestico. Poiché le violazioni non integrano un copyright infringement in senso tecnico, è stato coniato il termine “paracopyright”, sebbene le §§ 1202 e 1204 assimilano la responsabilità civile e penale a quella prevista in caso di contraffazione.
La forzatura dei congegni di protezione è ammessa, secondo un’elencazione molto ampia ma a tratti schizofrenica, nei casi di ricerche in materia crittografica, per valutare l’interoperabilità di un prodotto (cd. reverse engineering), per verificare l’efficacia dei sistemi informatici di sicurezza, per consentire ai genitori di controllare l’utilizzo di internet dei propri figli, per la protezione della privacy, per ragioni di sicurezza o attività governativa.
Una vera e propria eccezione generale alle norme anti-elusione, paragonabile alla clausola del fair use, non é prevista, ma se ne scorge una traccia nelle disposizioni che disciplinano le attività di biblioteche no profit, archivi e istituti di istruzione (17 U.S.C §1201(b)(I) (A).
La §1201 distingue le modalità di violazione delle norme anti-aggiramento in tre categorie: vi è una disposizione di base che punisce chiunque forzi una misura tecnologica di protezione che controlli efficacemente l’accesso ad un’opera protetta; un divieto di trafficking; infine, una serie di disposizioni addizionali.
Il divieto di trafficking investe tutte quelle attività che comportano la produzione, la vendita o la distribuzione di dispositivi di code-cracking utilizzati per copiare illegalmente softwares, o per eludere in qualsiasi modo i sistemi di controllo all’accesso; le violazioni aggiuntive potrebbero essere, in un certo senso ed entro certi limiti, comprese nell’ambito delle misure anti-trafficking, ma se ne differenziano poiché hanno ad oggetto dispositivi che aggirano i sistemi di controllo dei diritti (technological measure that effectively protects a right of a copyright owner, §1201 b) A), piuttosto che i dispositivi di controllo sull’accesso (technological measure that effectively controls access to a work, § 1201 a) B).
Nel 2007, in occasione del triennale intervento regolamentare del Copyright Office volto ad individuare le classi di opere esenti del divieto anti-elusione, è stato introdotto il riferimento alla qualità del soggetto al quale si imputa la condotta. Questo perché un eccessivo rigore nella interpretazione delle norme contenute nella §1201 potrebbe comportare un monopolio de facto sopra opere di interesse pubblico.
Più nello specifico, si rimprovera al legislatore di avere introdotto una serie di divieti dalla portata tanto ampia e generalizzata da impedire ai consumatori ogni forma di accesso, rendendo, di fatto, illeciti anche quegli usi sulle opere protette che sono normalmente consentiti dalla normativa generale sul copyright, attraverso l’utilizzo della clausola del fair use.
Poiché le previsioni anti-elusione sono formulate in modo tale da consentire l’introduzione di un certo grado di flessibilità, la trasformazione del fair use in un principio generale applicabile anche al di fuori della normativa sul copyright (come emerge dal Trademark Diluition Revision Act del 2006) potrebbe permettere di conciliare principi di protezione della proprietà intellettuale molto ampi con il diritto di accesso all’informazione e di libertà di espressione.
Ciononostante, i progetti di riforma che mirano a stemperare il rigore della normativa sono numerosi. Tra questi, merita una menzione il Digital Media Consumer’s Rights Act (DMCRA, Digital Media Consumers Rights Act of 2005, HR 1201, 109th Cong. 1st Sess) la cui approvazione sembra tutt’altro che un’ipotesi remota. Il progetto mira a recuperare proprio un’eccezione generale di fair use, a beneficio dei soli consumatori, nel caso di violazione del sistema di protezione per un uso personale.
Lo scopo è, anche, quello di garantire ad un soggetto che non agisce per un fine commerciale o lucrativo la conoscibilità di limiti e restrizioni che, allo stato attuale, potrebbero rivelarsi solo dopo una violazione inconsapevole di contenuti digitali protetti. I produttori, infatti, non sono obbligati ad inserire avvisi né sulle confezioni di dispositivi di riproduzione audiovisiva, né all’interno dei servizi di distribuzione online.
Inoltre, il progetto vuole introdurre un emendamento alla §1201, prevedendo la possibilità di produrre, distribuire e utilizzare un dispositivo hardware oppure un software, che sia in grado di consentire utilizzazioni lecite come, ad esempio, le copie di backup.
Legge estremamente complessa nella sua impostazione, il DMCA ha introdotto anche alcune innovazioni che, nel bilanciamento tra gli interessi dei titolari dei diritti di esclusiva, da un lato, e gli interessi degli internauti e degli intermediari che operano attraverso il web, dall’altro lato, ha privilegiato la posizione di questi ultimi.
In tal senso, il riferimento va senz’altro alla §512 del titolo 17 U.S.C., che disciplina alcune ipotesi di immunità condizionata a favore degli ISPs, per le violazioni della esclusiva autorale commesse dagli utenti sottoscrittori del servizio. In realtà, in questo settore, il problema della responsabilità indiretta (secondary liability) del produttore di un dispositivo tecnologico per le utilizzazioni compiute dagli utenti si era posto per la prima volta con l’introduzione nel mercato delle cassette VCR (Sony Corp. of Am. v. Universal City Studios, Inc., 464 U.S. (1984), solitamente indicato come caso Betamax). Nel lontano1984, infatti, alcune industrie operanti nel settore audiovisivo hanno chiesto alla Corte Suprema di riconoscere la responsabilità concorrente (cd. contributory infringement) dei produttori dei dispositivi di registrazione domestica da remoto, per le potenziali violazioni delle norme sul diritto d’autore rese possibili dall’impiego dell’apparecchio Betamax.
Sebbene, infatti, il Copyright Act non preveda in maniera testuale la violazione indiretta dei diritti di esclusiva, le corti hanno talvolta riconosciuto due schemi di responsabilità secondaria attingendo dal common law in materia di torts: la vicarious liability e il contributory infringement.
La vicarious liability nasce dal principio del respondeat superior, e prevede che il terzo risponda degli illeciti commessi dal soggetto agente, nei limiti in cui possa esercitare un potere di controllo sulla sua attività, e ne tragga un vantaggio economico diretto. L’ipotesi di contributory infringement ricorre invece quando il soggetto responsabile, pur non essendo l’esecutore diretto della condotta, contribuisce oppure induce alla sua realizzazione, essendone effettivamente a conoscenza (actual knowledge) oppure avendo motivo per esserlo (reason to know). Entrambe le forme di responsabilità hanno come prerequisito necessario una violazione di tipo diretto (cd. strict liability). Rispetto alla vicarious liability, però, la responsabilità concorrente è ancorata in maniera più solida a un elemento soggettivo di intenzionalità.
Nell’epocale caso Betamax, in punto di responsabilità del produttore del dispositivo, in assenza di un precedente specifico, la Corte Suprema ha fatto ricorso alla regola dello staple articole of commerce, già codificata in materia di brevetti (35 U.S.C. § 271(c). Il Patent Act, infatti, definisce in modo esplicito il concetto di contributory infringement in relazione alla vendita consapevole di un componente, dispositivo o apparato creato specificatamente per essere utilizzato in violazione di un brevetto particolare (35 U.S.C. §§ 271(b), (c)). La legge esclude però che si possa configurare una qualche ipotesi di responsabilità concorrente qualora il prodotto possa essere utilizzato anche in connessione con altri brevetti, o quando si tratti di un «articolo o prodotto messo in commercio per un uso sostanzialmente non vietato» (U.S Patent Act, Public Law 593 Stat. 66, ora 35 U.S.C §271 (c)), poichè in questo caso vengono in rilievo anche l’interesse pubblico ad avere accesso al dispositivo e quello imprenditoriale a operare in aree commerciali sostanzialmente non collegate.
Il caso Betamax affronta, in altri termini, il problema dei prodotti qualificabili come dual purpose devices, ossia dispositivi che non possono essere indicati come intrinsecamente dannosi, dacché sono utilizzabili sia per il compimento di attività illecite sia per il compimento di attività lecite (cd. SNIUs, Substantial Non Infringing Uses); in questo senso, la distribuzione non viola necessariamente i diritti di esclusiva riconosciuti dalla §106. La pronuncia sembra inoltre stabilire una sorta di presunzione probatoria in favore del produttore, poiché l’astratta configurabilità di usi consentiti pare precludere l’indagine su tutti gli impieghi potenziali del dispositivo, non essendo stato introdotto un primary use test, come invece accade nel diritto brevettuale. A tale principio di matrice giurisprudenziale, secondo il quale la responsabilità del produttore deve essere esclusa se gli strumenti utilizzati dal contraffattore diretto non sono realizzati o commercializzati allo scopo unico di consentire la condotta illecita, si da il nome di Sony Safe-harbor doctrine.
Il problema della responsabilità indiretta, tuttavia, è tornato presto al centro di un dibattito pubblico vigoroso a seguito dell’avvento di internet, acquistando un’importanza maggiore per la differente modalità di distribuzione e fruizione dei contenuti protetti attraverso le piattaforme digitali. Internet, infatti, non consente solo agli internauti il godimento di ogni materiale distribuito o trasmesso tramite il web, ma facilita lo stesso processo di copia e comunicazione, attraverso quella che è definita la interattività degli utenti, così che il prestatore del servizio può talvolta agevolare condotte contraffattive su ampia scala, pur senza alcun intervento diretto nella creazione o nella selezione dei contenuti trasmessi.
A questo proposito il DMCA ha introdotto, con la §512, le cd. safe harbor provisions, che appaiono fortemente influenzate dalla case law di legittimità in tema di responsabilità indiretta. Come avviene nella direttiva europea e-commerce, le norme non definiscono le condotte degli ISPs che potrebbero integrare contributory o vicarious liablity, ma all’opposto individuano una serie di attività eterogenee compiute da online services e access providers che, al ricorrere di talune condizioni, esonerano da responsabilità secondaria, limitando in maniera considerevole la possibilità di risarcimento del danno e la concessione della tutela inibitoria.
Le attività cui fa riferimento la norma sono distinte in quattro categorie: a) mera trasmissione o fornitura d’accesso; b) system caching; c) archiviazione di informazioni su sistemi o reti accessibili al pubblico (cd hosting); d) strumenti di localizzazione delle risorse (tra i quali rivestono un ruolo centrale i collegamenti ipertestuali, o hyperlink, a cui il legislatore europeo non ha dato invece una specifica collocazione normativa, avviando a un prolifico ma ondivago percorso esegetico della Corte di Giustizia).
In generale, le safe harbor provisions individuano servizi caratterizzati da una sorta di passività dell’intermediario, che resta estraneo all’attività di selezione, controllo o modifica dei materiali ospitati e trasmessi dal sito.
In realtà, per quel che concerne la mera trasmissione e il caching (copia temporanea) di contenuti protetti attraverso un sistema automatizzato (§512 a) e b), il DMCA si limita a recepire la teoria del “mere conduit”, elaborata dalla giurisprudenza americana nel caso Religiuos Technology Center v. Netcom On-line Communication Services (N.D. Cal, 1995). Tale teoria esclude la responsabilità del provider per la riproduzione temporanea e automatica di copie illecite, nell’ipotesi in cui essa sia una fase necessaria del processo di trasmissione di messaggi tra utenti.
Più complessa appare invece la previsione contenuta nella §512 c), relativa alla archiviazione di informazioni, che si configura quando l’ISP ospita sul proprio sito materiale contraffatto su disposizione degli utenti sottoscrittori. Anche in questo caso, la legge introduce una serie di prerequisiti cumulativi affinché l’intermediario possa essere esonerato da secondary liability. Occorre innanzitutto che l’ISP possa essere qualificato «service provider», nella definizione molto ampia data dal legislatore del 1998 («a provider of online services or network access or the operator of facilities therefore»); nel tempo, la giurisprudenza ha interpretato in maniera ancor più generosamente estensiva la formula, includendo tra i servizi offerti tutte le operazioni tradizionalmente compiute attraverso internet (Perfect 10, Inc. v. Cybernet Ventures, Inc., 213 F. Supp. 2d 1146, 1175 (C.D. Cal. 2002).
Nonostante la norma menzioni solo l’attività di «storage», il Nono Circuito ha stabilito che la §512c) presuppone il pieno accesso degli utenti ai contenuti ospitati dal sito (UMG Recordings, Inc. v. Shelter Capital Partners LLC, 667 F.3d (9th Cir. 2011), così che, oltre alla semplice archiviazione, il service provider può compiere attività di trasmissione o affini, senza per questo perdere la possibilità di godere della favorevole regola di esenzione.
Infine, merita un richiamo il controverso “red flag test”. Occorre premettere che nel modello statunitense, così come nel sistema introdotto dalla direttiva europea 31/2000, i service providers non hanno alcun obbligo di monitorare i propri siti, né di ricercare attivamente condotte di contraffazione. L’intermediario, infatti, attraverso un modello misto di private enforcement, è tenuto alla rimozione del materiale illecito solo quando venga a conoscenza della sua presenza sul sito (17 U.S.C. §512(c)(1)(A)(i) o quando sia consapevole di fatti o circostanze dalle quali risulti manifesta l’attività di contraffazione (§ 512(c)(1)(A)(ii).
A tale fine, per beneficiare dello specifico regime di immunità condizionata introdotto dal DMCA, gli ISPs devono nominare un agente al quale i titolari dei diritti di esclusiva possano notificare le violazioni presunte. Secondo la dottrina, questo meccanismo di “notice and take-down” non è volto principalmente alla prevenzione di condotte contraffattive (sebbene possa avere anche un qualche effetto deflattivo), ma incentiva la rimozione dei materiali controversi, più che incoraggiarne la disponibilità online. Riconoscendo la possibilità di un abuso dello strumento notifica, tuttavia, il legislatore statunitense ha previsto la possibilità di una contro-notifica da parte dell’utente che ha trasmesso il contenuto. La contro-notifica obbliga il titolare del copyright che si assume violato a procedere giudizialmente nei confronti dell’autore della violazione, e in caso contrario i materiali possono essere postati nuovamente sulla piattaforma. In tal modo, il legislatore statunitense da prova di maggiore efficienza rispetto al modello europeo delineato dalla direttiva sull’e-commerce, ispirato alla medesima logica di notifica e rimozione, ma manchevole nell’introdurre uno strumento che possa scoraggiare condotte fraudolente da parte di chi lamenta una violazione del diritto di esclusiva.
Sul versante pratico, tuttavia, in maniera del tutto sovrapponibile rispetto alla esperienza continentale e a quella italiana in particolare, una delle lacune principali della §512e) riguarda il caso di utenti o contenuti che vengano segnalati ripetutamente, e che siano ri-trasmessi sul sito con regolarità dopo la loro pronta rimozione da parte del provider. La previsione statutaria red flag ((§ 512(c)(1)(A)(ii) non specifica, infatti, in che misura la ripetuta apparizione possa integrare «fatti e circostanze dai quali emerga l’attività di contraffazione», generando quella obbligazione proattiva di ricerca di materiale illecito altrimenti esclusa.
La case law ha finora negato che la generica conoscenza del dato che un utente stia trasmettendo materiale protetto senza autorizzazione possa comportare una slittamento dell’onere di ricerca. L’ISP non ha infatti obblighi di attivazione fintanto che non sia consapevole non solo della violazione, ma anche del luogo esatto del web in cui si trova il materiale contraffatto (purché, beninteso, non ne stia intenzionalmente evitando la scoperta). In questo contesto interpretativo lo standard che integra consapevolezza si mantiene sufficientemente, forse eccessivamente alto.
Benché, infatti, sia evidente che con la §512(c)(1)(A)(ii) il Congresso ha voluto incoraggiare il commercio digitale e l’attività degli intermediari che agiscono tramite la rete (rimuovendo l’elemento disincentivante di una responsabilità senza colpa), in aderenza a riflessioni di carattere giuspolitico che hanno orientato anche il legislatore comunitario, l’avvento delle nuove tecnologie e soprattutto l’ermeneutica giurisprudenziale stanno forse modificando l’equilibrio originale, comportando un eccessivo sacrificio da parte dei titolari dei diritti di esclusiva.
Si è visto che l’armonizzazione sostanziale del diritto d’autore ha avuto uno sviluppo privilegiato nei fori internazionali. A livello regionale, i risultati più importanti sono stati raggiunti nello spazio giuridico comunitario.
Tra gli interventi del legislatore europeo che è necessario menzionare in questa sede rivestono un ruolo primario, sebbene ormai risalenti, la dir. 2001/29 CE sulla società dell’informazione (cd. Infosoc) e la direttiva 2000/31 CE sul commercio elettronico (cd. e-Commerce) alla quale, in particolare, si deve la delineazione di un quadro normativo a livello comunitario sulla responsabilità degli ISPs per violazioni del diritto d’autore.
Gli artt. 12-14 della direttiva stabiliscono che l’intermediario non è responsabile delle violazioni commesse dagli utenti nel caso di mera trasmissione (art. 12), caching (art. 13) e hosting (art. 14), mentre l’art. 15 vieta agli Stati membri di porre a carico dei providers un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che veicolano, così come il dovere di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività di contraffazione.
Gli Stati membri possono, però, stabilire che i prestatori di servizi siano tenuti a comunicare tempestivamente all’autorità pubblica presunte attività o informazioni illecite compiute o veicolate dai loro clienti, così come che debbano fornire, su richiesta dell’autorità competente, informazioni utili per identificare i destinatari dei loro servizi coinvolti in tali attività.
In realtà, la disciplina europea si presenta eccessivamente sintetica; già nelle parole del legislatore, del resto, emergeva la consapevolezza di un impianto minimale di regole, destinato a disciplinare solo gli aspetti più urgenti relativi al commercio elettronico e alla attività degli intermediari, nella prospettiva di futuri interventi di regolamentazione più organici, ai quali si sarebbe dovuto procedere con cadenza triennale.
L’inerzia del legislatore, però, ha reso il sistema di protezione dei contenuti digitali obsoleto e poco efficace, tanto più che in molti ordinamenti nazionali, quale quello italiano, ci si è limitati a una trasposizione quasi fedelissima delle regole comunitarie; nonostante la necessità conclamata di creare un diritto d’autore europeo più moderno e competitivo (Comunicazione del 6.5.2015 della Commissione sul Mercato Digitale Unico), nemmeno nelle recenti proposte di regolamento e di direttiva sono state introdotte innovazione specifiche sui temi che qui interessano, così che sembra plausibile che la giurisprudenza debba continuare nella sua opera di interpretazione creativa, «esperienza diuturna del civilista» necessaria per comporre le criticità del sistema.
Come già si è potuto osservare a proposito del modello statunitense, anche nel perimetro europeo l’attività che solleva questioni esegetiche più complesse è l’attività di hosting. Sebbene si tratti di una distinzione dicotomica presente sin da alcune risalenti pronunce della Corte di Giustizia, e spesso contestata in dottrina, proprio la giurisprudenza italiana di merito ha di recente riaffermato con forza il binomio hosting passivo/hosting attivo (Trib. Roma, 27.4.2016, n. 8437, in Foro It., 2016, IV, 295 ss.; cnf. App. Roma, Sez. Impresa, 29.4. 2017, n. 2833, in Dir. ind., 2017, 120; ma già prima Trib. Milano, 9.9.2011, n. 10893, in Aida, 2012, 740 ss.; poi riformata da App. Milano, 7.1.2015, n. 29, in Resp. civ. prev., 2015, 1245 ss.
Nel caso di hosting attivo, infatti, sul quale si è pronunciata di recente per la prima volta anche la Corte di Appello di Roma (App. Roma, Sez. Impresa, n. 2833/2017, cit.) l’intervento del prestatore del servizio valicherebbe il limite della mera fornitura della piattaforma, attività automatica, tecnica e passiva, caratterizzandosi invece per un contributo di tipo imprenditoriale che concorre con quello del titolare del diritto d’autore, anche quando il materiale veicolato sia stato predisposto dagli utenti (cd user generated content). In questo senso, un servizio di intrattenimento audiovisivo organizzato in modo tale che l’ISPs ne tragga utilità (si pensi alla cernita dei contenuti protetti da collegare alla pubblicità in base ai dati di maggiore o minore visione) comporta il venire meno del più favorevole regime di esenzione. Si tratta di un orientamento che sposa alcune ormai risalenti pronunce francesi, statunitensi ed europee. Sul punto si attende ora un intervento chiarificatore del giudice di legittimità.
Da ultimo, ancora in tema di responsabilità del prestatore, occorre segnalare una recente pronuncia di merito che opera una interessante ma difficile distinzione tra l’obbligo generale di controllo e sorveglianza, che viene negato sulla base del chiaro tenore normativo, e l’obbligo di filtraggio special-preventivo per impedire il caricamento di video rimossi a seguito di una ingiunzione del Tribunale, che l’ISP sarebbe tenuto a effettuare quando possa fare ricorso a funzionalità tecniche che non richiedono un sacrificio sproporzionato (Trib. Torino, 7.4.2017, n. 1928, in Dir. Giust., 2017. Tale distinzione sembra cogliere, per certi versi, una suggestione offerta dal celebre caso statunitense Grokster (MGM Studios Inc., v. Grokster Ltd, 545 U.S 913 [2005]).
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