digiuno (agg.)
" Privo di cibo ": in Pd XXIV 109 ché tu intrasti povero a digiuno / in campo, a seminar la buona pianta, come parte dell'unitaria metafora del seminare, vale solo " privo di cibo " se non, come alcuni propongono, " affamato "; ma nella spiegazione della metafora stessa, interpretata secondo le indicazioni del contesto - l'eccezionale miracolo della conversione al cristianesimo ad opera di apostoli sprovveduti come il pescatore Pietro - può ben significare, più che l'astinenza virtuosa opposta alla cupidigia pagana (Ottimo, Buti), la mancanza di preparazione o di scienza (Scartazzini, che cita s. Paolo I Corinth. 2, 1 " veni non in sublimitate sermonis aut sapientiae " e 1, 21); del resto, in tutte le altre attestazioni si ritrova il solo concetto della privazione, come in Pd II 75 fora di sua materia sì digiuno / esto pianeto, dove la privazione è solo parziale, e, con una più evidente disponibilità al valore figurato, in If XXVIII 87 Quel traditor... / vorrebbe di vedere esser digiuno (" Colei, la qual tu vorresti d'aver veduta esser digiuno " in Boccaccio Corbaccio 70), XVIII 42, dove ritorna la stessa espressione (di veder... digiuno), e Pd XVI 135.
In qualche caso fa intravvedere l'avidità che si genera dalla privazione: Pg XV 58 " Io son d'esser contento più digiuno ", / diss'io, " che... ", o significa esplicitamente l'avidità, come in XXI 39 si fece la mia sete men digiuna. In Pg XXXII 120 una volpe / che d'ogne pasto buon parea digiuna, riferendosi propriamente al mangiare, si avvale della specificazione, che non è pleonastica ma in funzione dell'attributo buon, su cui poggia l'intera metafora.