Digiuno
Il vocabolo, che deriva dal latino ieiunus, "a stomaco vuoto, digiuno", indica lo stato di non-assunzione di alimenti, intenzionale o per necessità. A livello fisiologico l'astensione dagli alimenti porta a utilizzare sostanze di riserva dell'organismo (in sequenza: grassi, proteine dei connettivi e dei muscoli, proteine del fegato e del sangue) inducendo, se prolungata, autointossicazione e morte. Nella prospettiva antropologica, la rinuncia volontaria al cibo costituisce uno dei fattori del processo evolutivo della specie umana, con l'instaurarsi di una libertà interiore che è all'origine delle creazioni spirituali dell'uomo. In ambito propriamente religioso-rituale, il precetto del digiuno, presente in tutte le culture, risponde a un principio di disciplina che è volto alla conservazione istituzionale di valori connessi al sacro.
di Luigi A. Cioffi
Lo stato di digiuno si alterna con la fase di ingestione di alimenti (pasto). Questa ciclicità è presente in tutti gli animali a eccezione dei Protozoi, che sono capaci di assumere i nutrienti direttamente dal loro microambiente. La generalità degli animali possiede un apparato digerente che può includere una struttura di varia capacità per l'accumulo degli alimenti ingeriti o delle scorie da espellere, consentendo così la discontinuità delle fasi comportamentali del processo alimentare: la deglutizione e la defecazione. Dal punto di vista della fisiologia della nutrizione, nell'uomo il digiuno è uno stato normale quando la sua durata si correla ai bisogni nutrizionali, ossia quando a un'abituale sensazione di fame segue la fase di ingestione di alimenti, commisurata allo stato di nutrizione esistente. Sul piano psicofisiologico, invece, il digiuno assume caratteri qualitativi e quantitativi molto differenti, sulla base di fattori individuali e ambientali, nel quadro del complesso fenomeno del comportamento alimentare. Si può quindi distinguere una fisiologia del digiuno, fenomeno con ciclicità variabile entro limiti definiti, regolato dalla genetica di specie e di individuo, e una psicofisiologia del digiuno, fenomeno che ha la varietà di gradi e manifestazioni propria del comportamento. Causa del digiuno fisiologico è lo stato di eunutrizione o il progressivo suo instaurarsi grazie alla formazione di sufficienti riserve di materia e di energia nel corpo, con conseguenti diminuzione della sensazione di fame e aumento della sensazione di sazietà (saziamento); inversamente, effetto del digiuno è la graduale riduzione delle riserve nel corpo (iponutrizione), da cui conseguono l'attenuarsi della sensazione di sazietà e l'incremento della sensazione di fame. Come sempre nei fenomeni biologici, vi è un continuum fra fisiologia e patologia del digiuno. Il corpo reagisce con una serie di meccanismi di risparmio per ritardare gli effetti più dannosi dell'iponutrizione. Quando un individuo mangia alimenti con contenuto scarso di protidi ma sufficiente di energia, l'escrezione di urea diminuisce, ma quella di azoto totale non scende sotto i 3,6 g/d. Invece, nel caso di ingestione di alimenti carenti anche di energia, l'escrezione di azoto ureico raggiunge i 10 g/d, poiché vengono utilizzati i protidi strutturali del corpo. Questo fenomeno può essere ridotto con l'ingestione anche di pochi glucidi o aminoacidi, che agiscono stimolando l'increzione di insulina. Anche i lipidi concorrono al risparmio dei protidi, durante il digiuno prolungato, poiché producono chetoacidi che costituiscono il substrato ossidabile prevalente nel tessuto nervoso e cardiaco e condividono cofattori metabolici con gli aminoacidi triramificati, che vengono in tal modo risparmiati. Nel digiuno totale la massima parte dei protidi ossidati proviene da fegato, milza e muscoli. Quando i lipidi di deposito sono molto ridotti, il consumo dei protidi corporei aumenta ulteriormente, e allora si verifica la morte. In media un uomo di 70 kg ha 0,1 kg di glicogeno nel fegato, 0,4 kg di glicogeno nei muscoli, e 12 kg di lipidi. Il glicogeno è sufficiente per un giorno di digiuno. In pazienti obesi ospedalizzati, alimentati con acqua e vitamine, per i primi 10 giorni, è stata osservata perdita di peso di 1 kg/d (dovuta soprattutto alla disidratazione), che poi si stabilizzava su circa 0,3 kg/d. Nei prigionieri irlandesi che, nel 1981, digiunarono fino alla morte, il tempo medio intercorso dall'inizio dell'astensione dal cibo al decesso fu di circa 60 giorni.
Conseguenza del digiuno eccessivo per quantità e durata è la malnutrizione per difetto o iponutrizione. Tipico fenomeno è l'iponutrizione protidico-energetica che coinvolge sia l'apporto di energia, sia quello di molecole che il corpo umano non può sintetizzare (aminoacidi e acidi grassi essenziali) e che ha effetti molto gravi specie negli individui in età di sviluppo, condizionandone non solo l'accrescimento somatico, ma anche lo sviluppo funzionale, incluso quello del sistema nervoso centrale e quindi le funzioni cognitive. Gli effetti, che si verificano sia a breve sia a lungo termine, sono talora irreversibili e la loro gravità è proporzionata all'intensità e durata dell'iponutrizione. Le informazioni scientifiche sul digiuno protratto (v. fame) derivano da studi su popolazioni sottoposte a fenomeni di carestia per cause naturali o artificiali, dipendenti dalla volontà umana (guerra fra Stati o fra etnie ecc.) o su individui in digiuno prolungato, intenzionale (per ragioni religiose o ideologiche, o per vantaggi, come premi o riduzione di pena) o forzato (campi di internamento, di prigionia, di sterminio). Il digiuno assoluto è stato usato, con effetti dannosi sull'organismo, anche per la terapia di riduzione del peso corporeo in casi di grande obesità pur non complicata. I risultati hanno evidenziato conseguenze gravi a carico non solo di organi sottoposti a irreversibile depauperamento protidico, ma anche del sistema nervoso centrale. Accanto a casi di rifiuto di riconoscimento del corpo, come dopo interventi chirurgici con asportazione di rilevanti quantità di omento, si sono avuti episodi di suicidio a causa di patologie dissociative rispetto all'immagine corporea, a seguito di solo trattamento con digiuno totale. Anche con l'uso di diete dimagranti, costituite soltanto da soluzioni di aminoacidi capaci di far aumentare la chetonemia con diminuzione della fame e risparmio dei protidi del corpo, si sono verificate morti improvvise per cause non chiarite.
Dal punto di vista psicofisiologico e antropologico è importante distinguere il digiuno volontario 'non-nutrizionale', rispondente a motivazioni religiose e filosofiche, da quello subito perché imposto da condizioni dell'ambiente fisico o socioeconomico e culturale. Il digiuno volontario è connaturato alla storia della specie umana. Norme limitative della ingestione di alimenti si trovano negli antichi testi sacri, nei libri delle religioni e filosofie orientali, nella tradizione grecoromana, ossia in tutte le culture dell'uomo, dalle primitive alle più raffinate. Gli approcci antropologici confortano la considerazione fondamentale che il comportamento alimentare implica conoscenze e sensazioni la cui potenza condizionante è molto forte sia a livello evolutivo della specie, sia a quello di sviluppo dell'individuo.
di Gianni Carchia
Si possono distinguere, quanto alla pratica del digiuno, due ambiti di significato principali. Da un punto di vista propriamente antropologico, il digiuno costituisce un momento del più generale fenomeno dell'ascesi. Trovarsi in quel riparo costituito dall'assenza di bisogni - e quello di cibo è un bisogno fondamentale - costituisce un 'asilo', una "dimora contro tutti i colpi della fortuna cui si espone chi vive nel dispendio" (Gehlen 1956, trad. it., p. 104). Nella rinuncia al cibo, in quanto pratica ascetica che realizza un'indifferenziazione e una riduzione degli istinti, si pongono le premesse per l'instaurarsi di una condizione di libertà interiore, che è all'origine delle creazioni spirituali dell'uomo. Da questo significato antropologico, per il quale il digiuno si pone come uno dei fattori dello stesso processo di ominazione, va distinto il suo significato più propriamente religioso-rituale. In quest'ultima accezione il digiuno è essenzialmente una pratica di ordine e disciplina che non ha più attinenza con l''invenzione' di un dominio propriamente spirituale, bensì con la sua conservazione istituzionale. Tutte le grandi religioni contemplano, non a caso, la prescrizione del digiuno la quale, a sua volta, può essere revocata solo attraverso un'altrettanto istituzionale dispensa. La pratica rituale del digiuno, articolata in prescrizioni qualitative, relative alla natura degli alimenti, e quantitative, si può ricondurre all'obbligo di osservare tabu alimentari, ovvero alla preparazione di determinate feste o riti di passaggio che ritornano periodicamente.
Il valore disciplinare che si connette a questa pratica è quello della penitenza, dell'autosacrificio. Così è, per es., per quanto riguarda l'induismo e le regole di astinenza contenute nei Manava Dharmasastra, tra le quali ha particolare rilievo il precetto che impone la limitazione crescente del nutrimento con il decrescere della luna e viceversa. Anche nell'islamismo si dà una connessione astrologico-iniziatica fra l'attività della luna e il digiuno; Maometto aveva infatti abolito come empietà il mese intercalare che nel paganesimo preislamico ogni due o tre anni ristabiliva l'equilibrio fra il calendario solare e quello lunare. Analogo valore rituale e sacrificale possiede il digiuno nell'Antico Testamento, ove è esplicita la connessione con il sacrificio. Dopo l'Esilio furono aggiunti alla legge mosaica altri quattro giorni speciali di digiuno. In generale, il digiuno viene raccomandato come misura espiatoria in tempi di calamità e di lutto. Diverso è l'atteggiamento nei confronti del digiuno nel Nuovo Testamento; infatti, se da un lato permane, nella nozione di penitenza, la traccia del precedente valore sacrificale, prevale ormai la condanna dell'esteriorità della pratica rituale, con l'esortazione a non ostentare lo stato di digiuno, ma a celarne i segni 'profumando la testa' e 'lavando il volto', perché essi siano visibili solo al Padre che 'è nel segreto' (Mt 6, 16; Lc 18, 12). Sebbene il rifiuto della pura esteriorità ascetica si trovi in parte già nell'Antico Testamento, nel Vangelo è prevalente l'idea della somiglianza tra digiuno e preghiera. L''umiliazione dell'anima' esprime, con la sottomissione alla volontà divina, l'apertura alla grazia. L'astinenza dal cibo acquista nuovamente una funzione sublime ed edificante, in quanto serve come preparazione a uno slancio dell'anima ispirata dallo Spirito Santo. L'esempio è qui costituito dal ritiro di Gesù per quaranta giorni nel deserto. La tradizione si continua nella Chiesa, sempre in tale accezione ultrasacrificale. Una radicalizzazione del significato spirituale del digiuno, che spezza l'equilibrio fra legge e grazia caratteristico dell'insegnamento cristiano, si trova invece nell'ascetismo tipico dei movimenti religiosi settari. Questi hanno visto, nell'astinenza dal cibo, una via privilegiata di rifiuto del mondo. Nel manicheismo e nel catarismo, lo scopo della vita è considerato consistere nella preparazione della morte. Il ritorno alla 'patria celeste' si può affrettare con il mettersi, come dicono i catari, in stato di endura, vale a dire con il lasciarsi morire di fame. Questo presunto significato iniziatico del digiuno è stato criticato come un fraintendimento dell'autentico significato della redenzione dalla volontà di vita da A. Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819), che vi ha scorto piuttosto il residuo estremo di una concezione ancora ritualistica, la quale non ha compreso che "la volontà non può venire soppressa che dalla conoscenza".
h. bleienstein, Sanctificate jejunium. Eine Sinndeutung christlichen Fastens, "Geist und Leben", 1953, 26, pp. 8-19.
a. gehlen, Urmensch und Spätkultur, Bonn, Athenaeum, 1956 (trad. it. Le origini dell'uomo e la tarda cultura, Milano, Il Saggiatore, 1994).
p. gerlitz, Das Fasten im religionsgeschichtlichen Vergleich (dissertazione), Erlangen 1954.