digradare
. Non soltanto " discendere di un grado " o " di grado in grado ", ma più propriamente " passare da un grado più ampio a uno meno ampio " sia scendendo che salendo (cfr. infatti Petrocchi, Introduzione 251: " non sempre digradare reca nell'uso dantesco la nozione di ‛ discesa '... talora ... reca quella di semplice ‛ passaggio ' di grado in grado "). Il verbo è usato in If VI 114 (venimmo al punto dove si digrada [var. disgrada], cioè dove si scende dal terzo cerchio, più ampio, al quarto, meno ampio), e in Pd XXXII 14 puoi tu veder così di soglia in soglia / giù digradar (le anime occupano seggi più bassi procedendo dall'esterno al centro della rosa), con l'idea di discesa; invece in Pg XXII 133 e come abete in alto si disgrada / di ramo in ramo, è presente l'idea di ascesa: i rami di un comune abete sono più ampi verso terra e meno in cima; l'abete dei golosi, al contrario, ha i rami più corti in basso. In Pd XXX 125, perciò sarà da accettarsi la lezione più antica presente nei codici: la rosa sempiterna, / che si digrada e dilata e redole (non ingrada né rigrada), cioè aumenta di ampiezza gradatamente, dilatandosi nei suoi petali: immagine che, unita all'idea del sol che sempre verna, suggerisce lo sbocciare perenne del fiore. V. Parodi, Lingua 266.