Google, dimenticati di me
Una quantità immensa di dati – pur obsoleta – continua a essere presente nei più grandi motori di ricerca: ma è giusto conservare integra la memoria della nostra società o è possibile anche dimenticare nell’epoca della rete? Una sentenza della Corte europea incomincia a dare delle risposte.
Il tema del diritto all’oblio in rete è portato all’attenzione pubblica da una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 13 maggio 2014 in cui viene stabilito che Google deve rimuovere i risultati di ricerca su informazioni personali che sono «inadeguati, irrilevanti o non più rilevanti, o eccessivi in relazione agli scopi per cui sono stati pubblicati». La norma è il risultato di una contestazione presentata nel 2009 dall’avvocato spagnolo Mario Costeja González alla Agencia española de protección de datos (AEPD) in relazione a link presenti sul motore di ricerca associati al suo nome: le connessioni rimandavano a una pagina del quotidiano La Vanguardia di 13 anni prima in cui erano presenti annunci della messa all’asta di sue proprietà per un debito non pagato.
La Corte europea ha obbligato Google a rimuoverli riconoscendo che «il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi». In tal senso, con l’applicazione della normativa i contenuti non spariscono dal web ma vengono occultati quando la ricerca è effettuata in rapporto a una data persona utilizzando determinate parole chiave. In pratica, come ha commentato David Drummond, chief legal officer dell’azienda californiana, è come se un libro potesse stare in biblioteca ma non comparire nel suo catalogo.
Google in risposta alla sentenza ha reso disponibile un modulo on-line da utilizzare per richiedere la rimozione dei link – valido per i paesi dell’Unione Europea, ma anche per Svizzera, Norvegia, Islanda e Liechtenstein – e ha nominato un comitato di esperti della privacy e studiosi con il compito di individuare linee guida per rispondere alle richieste (oltre 70.000 solo il primo mese).
Il diritto all’oblio in rete pone il diritto alla privacy in una relazione di difficile equilibrio con il diritto all’informazione e con quello alla libertà di espressione, tanto più attribuendo a un’azienda privata la scelta di rendere alcuni contenuti di difficile accessibilità. Alcuni commentatori hanno evidenziato come lasciare la decisione ai motori di ricerca non garantisca infatti la certezza del diritto e si sono chiesti se questo potrebbe finire per trasformare l’impresa di Mountain View da piattaforma neutrale a soggetto responsabile della censura per l’Unione Europea. Tanto più che la normativa vale solo per i domini europei, come google.it, quindi la medesima ricerca effettuata da google.com conterrà il link ai contenuti celati. Google da parte sua partecipa in modo cauto e riluttante, segnalando l’esistenza di eventuali omissioni nei risultati di ricerca e avvisando le testate quando un proprio articolo on-line è stato deindicizzato. Su segnalazione degli utenti vengono anche raccolti nel sito Hidden from Google progettato dal programmatore statunitense Afaq Tariq.
Questa visibilità delle rimozioni ha creato clamore nei media come, per esempio in Italia, quella delle voci Wikipedia sul bandito Renato Vallanzasca e sulla sua banda della Comasina, rimosse su richiesta di qualcuno che non voleva che il suo nome fosse connesso a quello del criminale. Il rischio è quello di generare così un effetto perverso, uno Streisand effect che dà maggiore visibilità proprio a quei contenuti che si volevano celare, spesso a storie che avevano già raggiunto l’oblio e che in questo modo riemergono e circolano.
Questa legge sul diritto all’oblio telematico nel tutelare la privacy del singolo sta ridefinendo l’accuratezza dell’informazione che possiamo ricercare on-line. E, d’altra parte, fa riflettere sul valore di verità che diamo a motori di ricerca come Google o ad archivi come Wikipedia e su che ruolo attribuiamo loro nel rappresentare la memoria della società e la nostra storia. Come sottolineato da alcuni ricercatori, si tratta di servizi privati che operano in base a principi economici, costituiscono quindi una black box soggetta a possibili manipolazioni e distorsioni tutt’altro che imparziali.
E d’altra parte il mito della memoria assoluta e permanente che si è generato nell’attuale società connessa impedisce una dimenticanza consapevole che spesso ha avuto la funzione di garantire una pace sociale per esempio perdonando.
Il vero problema è quindi rinunciare al mito del dover ricordare tutto sempre e trovare un nuovo equilibrio culturale tra ricordare e dimenticare nell’epoca della rete.
Il diritto all’oblio
1998
Il sito del quotidiano iberico La Vanguardia pubblica una nota legale che elenca i debiti dell’avvocato Costeja González
2009
L’avvocato spagnolo digita il suo nome in Google e trova il documento con i suoi debiti di 13 anni prima
2010-13
L’avvocato non ottiene la rimozione dei dati che lo riguardano né dal giornale, né dal motore di ricerca; così si rivolge alla Corte di giustizia di Lussemburgo
13 maggio 2014
Google deve dare ai suoi utenti il diritto di cancellare i link a dati che li riguardano, compresi quelli a documenti ufficiali «salvo ragioni particolari, come il ruolo pubblico del soggetto» (sentenza Corte UE)
30 maggio 2014
Google mette on-line un formulario con cui chiunque può chiedere la rimozione di dati di ricerca. Crea anche un comitato di esperti per decidere cosa si può cancellare dalla rete
Streisand effect
Streisand effect, o effetto Streisand, è un fenomeno mediatico per il quale più si tenta di nascondere o censurare un’informazione, una foto, un filmato tanto più questo viene pubblicizzato e diffuso tramite innumerevoli canali per l’attenzione mediatica che su di esso si concentra. Il nome è stato creato dallo statunitense Mike Masnick prendendo spunto da una vicenda che aveva visto protagonista la cantante e attrice Barbra Streisand. Un sito web aveva pubblicato la foto della villa dell’artista sulla costa di Malibù e questa aveva citato in giudizio i responsabili in quanto, a suo dire, la sua privacy era stata messa in grave pericolo. Il fotografo dimostrò che la foto era stata scattata solo per provare l’erosione della costa sottostante e non per altri scopi. Il risultato di tutto questo fu il moltiplicarsi della attenzione sulla foto: l’esatto contrario di quanto la Streisand stessa avrebbe voluto. Casi simili si sono poi moltiplicati soprattutto relativamente a immagini e video sottratti a personaggi famosi, ma la velocità di condivisione della rete è tale da far abbandonare spesso qualsivoglia tentativo di bloccaggio.