Abstract
Il termine dimissioni designa l’atto unilaterale con il quale il lavoratore recede dal contratto di lavoro subordinato. L’efficacia delle dimissioni è subordinata al rispetto di alcuni requisiti di forma posti a tutela del lavoratore, con lo scopo di garantire che l’atto medesimo abbia data certa e sia espressione della reale volontà del lavoratore. Medesimi requisiti sono richiesti per l’efficacia dell’accordo di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. La voce esamina la disciplina applicabile sia alle dimissioni sia all’accordo di risoluzione consensuale.
Il termine dimissioni è utilizzato per denominare l'atto unilaterale recettizio con il quale il lavoratore recede dal contratto di lavoro subordinato. Le dimissioni non richiedono, per produrre l’effetto risolutivo del rapporto, l’accettazione del datore di lavoro, ma soltanto la comunicazione al medesimo e il rispetto dei requisiti di forma introdotti dalla l. n. 92/2012. In quanto atto tra vivi avente contenuto patrimoniale, la dichiarazione di recesso dal rapporto del prestatore di lavoro soggiace, ai sensi dell’art. 1324 c.c., alle norme che regolano i contratti, comprese quelle in tema di annullabilità per vizi della volontà (per una casistica v. Mainardi, S., Dimissioni e risoluzione consensuale, in Carinci, F., diretto da, Diritto del lavoro, vol. III, Torino, 2007, 457).
Il Codice civile, all'art. 2118, configura come libera la facoltà del lavoratore di recedere dal contratto stipulato a tempo indeterminato, escludendo ogni obbligo di motivazione per la validità dell'atto (Cass., 12.7.2002, n. 10193, in Not. giur. lav., 2003, 97), ma sancendo l'obbligo del lavoratore di continuare a rendere la propria prestazione per il tempo del preavviso funzionale a consentire al datore di lavoro di fronteggiare il «vuoto organizzativo» generato dalle dimissioni. Obbligo che, da un lato, può essere sostituito con il pagamento di una indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso e, dall’altro, può venire meno nel caso in cui la scelta del lavoratore di interrompere il rapporto sia stata indotta dalla condotta del datore di lavoro (c.d. giusta causa di dimissioni).
La regola dettata dalla citata norma codicistica appare coerente con il principio costituzionale del diritto al lavoro consacrato dall'art. 4 Cost., del quale costituisce una delle articolazioni il diritto del lavoratore di scegliere quale attività lavorativa svolgere (cfr. C. cost., 9.6.1965, n. 45).
La regola della libertà di recesso del lavoratore dal rapporto di lavoro trova un’eccezione solo nella disciplina del contratto di apprendistato. L’art. 2, co. 1, lett. l), d.lgs. 14.9.2011, n. 167 stabilisce, invero, il divieto sia per il datore di lavoro sia per l’apprendista di recedere dal contratto durante il periodo di formazione in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo.
Nonostante la diversità degli interessi e delle esigenze di tutela sottese all’atto delle dimissioni rispetto al licenziamento, larga parte della dottrina aveva evidenziato gli effetti negativi connessi alla mancata previsione di requisiti di forma per l’atto di dimissioni, così come non pochi sono stati i progetti di legge volti a dare una risposta a questa richiesta di regolazione.
Tali istanze erano motivate, in primo luogo, dalla volontà di contrastare la diffusione del fenomeno noto come “dimissioni in bianco”, ritenuto essere un effetto indotto proprio dalla regola della libertà di forma delle dimissioni. Con la formula “dimissioni in bianco” si è soliti designare la condotta consistente nella richiesta rivolta dal datore di lavoro al lavoratore (normalmente al momento dell’assunzione, ossia nel momento in cui è massima la condizione di debolezza del lavoratore) di sottoscrivere un foglio bianco ovvero un foglio privo di data ma contenente una dichiarazione di dimissioni. Il datore di lavoro poteva così acquisire la dichiarazione che gli consentiva successivamente di invocare l’intervenuta risoluzione del rapporto per volontà del lavoratore senza dover procedere al licenziamento di quest’ultimo.
In secondo luogo, veniva sottolineato che l’assenza di una disciplina specifica poteva avere l’effetto di ridurre l’efficacia della disciplina limitativa dei licenziamenti, favorendo condotte volte ad aggirarne l’applicazione (cfr. Levi, A., Contratto di lavoro e recesso del dipendente, Torino, 2012).
Un primo requisito di forma volto a condizionare l’efficacia delle dimissioni è stato introdotto nel 2000 dall’art. 18 della legge n. 53 con lo scopo di tutelare una specifica categoria di lavoratori: quella della lavoratrice o del lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento. Per tali lavoratori, l’efficacia dell’atto delle dimissioni veniva subordinata dalla citata legge del 2000 alla convalida da parte del servizio ispettivo della Direzione provinciale del lavoro.
L’esigenza di contrastare l’odioso fenomeno delle “dimissioni in bianco” a vantaggio di tutte le categorie di lavoratori ha successivamente indotto il legislatore ad introdurre una disciplina specifica delle dimissioni di applicazione generale con la l. 17.10.2007, n. 188, la quale, nel suo unico articolo, prescriveva un vincolo di forma ad substantiam condizionante l’efficacia risolutiva dell’atto di recesso del lavoratore (per approfondimenti sui contenuti di tale legge ormai abrogata v., tra gli altri, Vallebona, A., Le dimissioni e il nuovo vincolo di forma, in Mass. giur. lav., 2007, 862; Pellacani, G., La nuova legge sulle dimissioni volontarie: un inutile omaggio alla cultura del sospetto?, in Dir. rel. ind., 2008, 171; Ballestrero, M.V., Recesso on line: ovvero la nuova disciplina delle dimissioni volontarie, in Lav. dir., 2008, 511).
La legge del 2007 sanciva che l’atto di dimissioni, pena la sua nullità, doveva essere reso avvalendosi di appositi moduli predisposti e resi disponibili gratuitamente dalle Direzioni provinciali del lavoro (oggi Direzioni territoriali del lavoro), dagli uffici comunali, dai centri per l'impiego ovvero telematicamente sul sito del Ministero del lavoro. L’obiettivo della nuova disposizione, attraverso la previsione della necessità che il modulo riportasse un codice di identificazione che ne impedisse la falsificazione, era quello di garantire, al contempo, che l’atto provenisse dal lavoratore e fosse espressione della sua libera volontà e che lo stesso avesse una data certa, non antecedente di quindici giorni il momento della presentazione delle dimissioni al datore di lavoro.
La disciplina ricordata pose però immediatamente numerosi problemi pratici, oltre a non impedire, per come era concepita, condotte volte ad aggirarne le limitazioni.
In particolare, un primo punto critico era costituito dal fatto che la l. n. 188/2007 non offriva una soluzione per tutte quelle ipotesi nelle quali il lavoratore avesse manifestato la volontà di dimettersi informalmente e fosse successivamente divenuto irreperibile; costringendo così le imprese a dover licenziare il lavoratore per assenza ingiustificata e a doverne mantenere l’iscrizione nel libro del lavoro fino a che non si fosse prodotto l’effetto risolutivo del licenziamento. Un secondo rilevante limite della legge era che la stessa trovava applicazione esclusivamente alle dimissioni e non alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, cosicché l’obiettivo principale avuto di mira dal legislatore (ostacolare il fenomeno delle “dimissioni in bianco”) poteva essere impedito tramite la prassi delle “risoluzioni consensuali in bianco” (per una sintesi dei principali problemi applicativi posti dalle regole introdotte nel 2007 v. Maio, V., Le norme per il contrasto del fenomeno delle dimissioni e delle finte risoluzioni consensuali «in bianco», in Persiani, M.-Liebman, S., Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Torino, 2013, 618, part. 624).
Nonostante le nobili intenzioni che l’avevano stimolata, i difetti poc’anzi citati hanno reso breve la vita dalla l. n. 188/2007, che è stata abrogata dal d.l. 25.6.2008, n. 112 convertito in l. 6.8.2008, n. 133 (poiché il decreto del Ministero del lavoro che ha dettato le disposizioni necessarie a rendere operativo il nuovo vincolo di forma fu emanato il 4.3.2008, la l. n. 188/2007 ha potuto trovare applicazione esclusivamente alle dimissioni rese fra il 5.3.2008 e 25.6.2008).
Abrogata la legge del 2007, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia promulgando la l. 28.6.2012, n. 92 (cd. “Riforma Fornero”, applicabile alla dimissioni rese a partire dal 18.7.2012). L’art. 4 (co. da 16 a 23-bis) della legge citata ha introdotto specifici vincoli di forma che non toccano l’atto di dimissioni, che rimane un atto a forma libera, quanto piuttosto incidono sulla possibilità dell’atto di dimissioni di dispiegare i propri effetti (sul punto v. infra, § 2).
La nuova disciplina contempla regole che mirano ad evitare le distorsioni prodotte dalla disciplina del 2007, anche al fine di scongiurare definitivamente il fenomeno delle dimissioni in bianco.
Da ultimo, il Parlamento ha delegato il governo ad intervenire nuovamente sulla materia tramite l’adozione di uno o più decreti legislativi destinati a prevedere «modalità semplificate per garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso o della lavoratrice o del lavoratore» (art. 1, co. 6, lett. g, l. 10.12.2014, n. 183).
Prima della introduzione dei citati requisiti formali ad opera della l. n. 92/2012, era possibile reperire nei repertori giurisprudenziali tracce del contenzioso generato da alcune condotte del lavoratore idonee a poter essere interpretate come una manifestazione della volontà di recedere dal rapporto di lavoro (si pensi ad esempio a comportamenti come l’assenza non motivata dal posto di lavoro o la mancata contestazione della interruzione di fatto del rapporto di lavoro).
La giurisprudenza aveva al riguardo evidenziato che poteva essere considerata una valida modalità di manifestazione della volontà di dimettersi, idonea a produrre l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro, anche un comportamento concludente dal quale tale volontà fosse desumibile (cfr., a titolo esemplificativo, Cass., 4.12.2007, n. 25262, in Foro it., 2008, I, 109, e Cass., 20.5.2000, n. 6604, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 748).
Il principio generale della libertà della forma imponeva, infatti, di valutare l’idoneità ad estinguere il rapporto di lavoro di comportamenti o fatti concludenti posti in essere dal lavoratore, astrattamente incompatibili con la volontà di proseguire il rapporto contrattuale (per una casistica relativa alle possibili forme dell’atto di dimissioni v. Mainardi, S., op. cit., 425 ss.).
A seguito della promulgazione della l. n. 92/2012, entrata in vigore il 18.7.2012, l’efficacia delle dimissioni è oggi subordinata al rispetto di precisi oneri formali.
La nuova disciplina non altera dunque la natura dell’atto di dimissioni come atto a forma libera che non necessita della indicazione di un motivo quale condizione di validità. I nuovi vincoli di forma sono infatti qualificati dalla norma come requisiti condizionanti l’efficacia dell’atto. La legge citata ha peraltro opportunamente equiparato, sul piano dei requisiti di forma, le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto, così evitando le critiche a suo tempo sollevate sulla l. n. 188/2007.
L’efficacia dell’atto di dimissioni (e dell’accordo di risoluzione consensuale) è dunque subordinata dalla legge del 2012 al procedimento della convalida che può attuarsi in tre forme tra loro alternative.
Le procedure di convalida mirano a soddisfare, contestualmente, un duplice obiettivo: da un lato, conferire data certa alle dimissioni al fine di rendere impossibile il predetto fenomeno delle dimissioni in bianco; dall’altro, fornire la garanzia che la volontà del lavoratore di risolvere il contratto di lavoro espressa tramite le dimissioni o l’accordo di risoluzione consensuale si sia formata e sia stata espressa liberamente dal lavoratore medesimo, in assenza di qualunque costrizione esercitata dal datore di lavoro.
Al meccanismo della convalida il legislatore ha poi affiancato una sanzione amministrativa (da 5.000 a 30.000 euro) da irrogarsi al datore di lavoro che abusi del foglio firmato in bianco al fine di simularne le dimissioni o la risoluzione consensuale (art. 4, co. 23, l. n. 92/2012).
Al fine di scongiurare i problemi a suo tempo creati dal farraginoso strumento introdotto dalla l. n. 188/2007, il legislatore ha previsto dei meccanismi finalizzati a consentire che le dimissioni divengano efficaci anche nel caso in cui il lavoratore rimanga inerte.
Si è voluto in altre parole evitare che la risoluzione del rapporto venga sostanzialmente impedita non per l’assenza di un’effettiva volontà risolutiva del lavoratore, ma per la mera inerzia di quest’ultimo.
L’art. 4, co. 17, l. n. 92/2012 stabilisce che l’atto di dimissioni e l’accordo di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono sospensivamente condizionati alla convalida da effettuarsi presso la Direzione Territoriale del Lavoro (DTL), il Centro per l’Impiego (CPI) o presso le altre sedi individuate dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Con accordo siglato il 3.8.2012, Confindustria, CGIL, CISL e UIL hanno convenuto che, in attuazione dell’art. 4, co. 17, l. n. 92/2012, la convalida delle dimissioni e della risoluzione consensuale può essere validamente effettuata in sede sindacale, ai sensi delle disposizioni del codice di procedura civile. Le parti sociali hanno fatto altresì salva la possibilità per i contratti collettivi nazionali di individuare ulteriori sedi abilitate alla convalida.
In alternativa alla convalida presso una delle predette sedi, le dimissioni o la risoluzione consensuale assumono efficacia in uno dei seguenti modi: a) sottoscrizione di apposita dichiarazione resa dal lavoratore in calce alla ricevuta dell’effettuazione da parte del datore di lavoro della comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto di lavoro agli enti competenti; b) invio al lavoratore da parte del datore di lavoro, entro 30 giorni dalla data delle dimissioni o della risoluzione consensuale, di una comunicazione scritta contenente l’invito a presentarsi entro 7 giorni presso la DTL o il CPI per la convalida ovvero l’invito a sottoscrivere entro 7 giorni la dichiarazione in calce alla comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto, che deve essere trasmessa in copia insieme con l’invito. Laddove il lavoratore non risponda entro 7 giorni a tale richiesta, le dimissioni o la risoluzione consensuale divengono efficaci. In quest’arco temporale le dimissioni o la risoluzione consensuale possono essere revocati per iscritto dal lavoratore con effetto dal giorno successivo alla comunicazione della revoca.
Nel caso in cui la risoluzione del rapporto per dimissioni o per accordo fra le parti interessi una lavoratrice durante il periodo di gravidanza, o una lavoratrice o un lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino, nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato, in affidamento o in adozione internazionale, la convalida può essere resa solo dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e non è possibile avvalersi delle procedure alternative poc’anzi richiamate. Con riferimento a tale ipotesi la Cassazione ha recentemente sottolineato che l’art. 55, co. 1, d.lgs. 26.3.2001, n. 151 configura una presunzione assoluta di non spontaneità delle dimissioni, che può essere superata solo con la convalida. Ne consegue che alla lavoratrice o al lavoratore dimissionario spetta sempre l’indennità sostitutiva del preavviso, essendo giuridicamente irrilevante il motivo all’origine delle dimissioni (Cass., 3.3.2014, n. 4919).
La caratterizzazione dei requisiti formali indicati quali condizione sospensiva dell’efficacia dell’atto di dimissioni pone il problema di individuare il momento nel quale, avveratasi la condizione, può dirsi che le dimissioni abbiano prodotto il loro effetto e il rapporto si sia dunque risolto.
La regola generale in materia vuole che gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscano al tempo in cui è stato concluso il contratto (art. 1360 c.c.). Da tale norma non può però evincersi, com’è stato correttamente rilevato (Fedele, I., Le dimissioni e la risoluzione consensuale, in AA.VV., La riforma del lavoro. Primi orientamenti giurisprudenziali dopo la Legge Fornero, Milano, 2013, 571, part. 614), la conclusione che gli effetti risolutori retroagiscono alla data indicata nell’atto di recesso. Contro questa soluzione milita l’argomento che, anche dopo aver reso le dimissioni, il lavoratore può aver continuato a rendere la propria prestazione (per esempio per la durata del periodo di preavviso), cosicché se si ritenesse che la norma impone di collocare l’effetto della risoluzione del contratto nella data delle dimissioni significherebbe rendere priva di titolo la prestazione resa dal lavoratore successivamente alle dimissioni medisime.
La soluzione da preferire sembra quella di ritenere che l’atto di dimissioni, una volta verificatasi la condizione sospensiva, produca i propri effetti dalla data in cui esso è stato ricevuto dal datore di lavoro. Ciò non significa che il rapporto si sia risolto in quel momento (salvo il caso in cui si tratti di dimissioni per giusta causa), poiché l’effetto risolutivo si compirà al termine del periodo di preavviso da computarsi, per effetto dell’avveramento della condizione, dalla data in cui è stato posto in essere l’atto di dimissioni. Nel caso in cui il lavoratore continui a lavorare successivamente all’intervenuta risoluzione del rapporto sarà necessario interpretare tale condotta delle parti essendo possibili diverse alternative: i) le parti hanno inteso escludere l’effetto risolutivo del rapporto convenendo, per fatti concludenti, di proseguire il rapporto ovvero di attivare un rapporto nuovo; ii) continuando a lavorare il lavoratore ha inteso revocare le dimissioni rassegnate; iii) le parti hanno commesso un errore nel calcolo della durata del preavviso che non pregiudicherà la risoluzione del rapporto, ma solo darà diritto al lavoratore di percepire la retribuzione per la prestazione resa oltre l’intervenuta risoluzione ed esporrà il datore di lavoro alle sanzioni amministrative previste per l’ipotesi di una errata comunicazione al CPI della data di risoluzione del rapporto.
L’ordinamento collega all’esercizio dell’atto di recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato l’obbligo della parte che recede di rendere un preavviso alla parte che ne subisce gli effetti (art. 2118, co. 1, c.c.).
Nel caso delle dimissioni, come in quello del licenziamento, l’obbligo del preavviso risponde alla finalità di limitare gli effetti pregiudizievoli dell’atto di recesso per la parte che lo subisce, offrendole un lasso temporale utile ad ovviare alla perdita del rapporto di lavoro prima che la funzionalità di quest’ultimo venga meno.
L’art. 2118 c.c. non predeterminata la durata del periodo di preavviso, ma ne rimette la quantificazione agli usi e all’equità. Ladurata del preavviso è normalmente determinata dal contratto di lavoro, collettivo o individuale; in mancanza, opera il richiamo delle disposizioni relative al contratto di impiego privato (art. 10, R.d.l. 13.11.1924, n. 1825) fatto dall’art. 98 disp. att. (Cass., 7.2.1987, n. 1313, in Riv. it. dir. lav, 1987, II, 468).
Questione controversa è quella relativa alla natura reale ovvero solo obbligatoria dell’obbligo di preavviso.
Secondo l’opinione della dottrina e della giurisprudenza maggioritarie, il preavviso possiede efficacia reale nel senso che una volta manifestata la volontà di dimettersi (salvo il rispetto dei requisiti di forma sopra indicati) il rapporto di lavoro, con le conseguenti obbligazioni, prosegue a tutti gli effetti per l’intera durata del periodo di preavviso (Cass., 21.2.2013, n. 4305; Cass., 23.7.2004, n. 13883, in Not. giur. lav., 2005, 111; Cass., 30.8.2004, n. 17334, in Dir. prat. lav., 2005, 717; Cass., 19.1.2004, n. 741; Cass., 26.7.2002, n. 11118, in Giur. it., 2003, 1376, con nt. di C. Nannetti; Cass., 21.9.2001, n. 14646, in Not. giur. lav., 2002, 198; Cass., 2.11.2001, n. 13580, in Not. giur. lav., 2002, 81; Cass., 13.12.1988, n. 6798; Cass., 25.8.1990, n. 8717). La Suprema Corte ha infatti chiarito che la dichiarazione di recesso ha efficacia non già dal momento in cui viene manifestata, bensì dal momento in cui viene a scadere il termine di preavviso (Cass., 30.8.2004, n. 17334, in Dir. prat. lav., 2005, 717; Cass., 27.2.1995, n. 2245, in Not. giur. lav., 1995, 434) e ha precisato che durante tale periodo persiste altresì il dovere di fedeltà del lavoratore (Cass., 1.6.1991, n. 6178, in Not. giur. lav., 1991, 610). Secondo questa ricostruzione, il preavviso costituisce un termine legale sospensivo dell’efficacia del negozio di recesso, sicché, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto al preavviso comporta la prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del relativo termine che peraltro rimane sospeso in caso di sopravvenuta malattia del lavoratore, comunque non oltre la scadenza del periodo di comporto (Cass., 30.8.2004, n. 17334).
Il principio dell’effetto reale è però suscettibile dideroga per accordo delle parti quando queste, prima della scadenza, pattuiscano l’esonero immediato degli obblighi relativi alle reciproche prestazioni; tale accordo è ravvisabile anche in comportamenti taciti e concludenti (Cass., 8.5.2004, n. 87970; Cass., 3.8.1991, n. 8813, in Riv. giur. lav., 1992, II, 284; Cass., 22.7.1987, n. 6397, in Orient. giur. lav., 1987, 1080).
In senso contrario, avvalendosi di argomentazioni condivisibili, è orientata un’altra parte della giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, che invece attribuisce efficacia meramente obbligatoria al preavviso, cosicché, in caso di indebita omissione del preavviso, si produrrebbe comunque l’effetto risolutivo, salvo l’obbligo di pagamento dell’indennità sostitutiva gravante sulla parte recedente (Cass., 30.9.2011, n. 20099, in Dir. prat. lav., 2011, n. 45, 2702; Cass., 16.6.2009, n. 13959, in Orient. giur. lav., 2009, I, 409, con nt. di V. De Stefano; Cass., 11.6.2008, n. 15495, in Not. giur. lav., 2008, 619; Cass., 21.5.2007, n. 11740, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 164, con nt. di F. Alvaro). Secondo questa impostazione, la natura obbligatoria del preavviso sarebbe dimostrata innanzitutto dalla formulazione letterale dell’art. 2118 c.c., nella parte in cui qualifica l’indennità sostitutiva come l’indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. L’utilizzo del verbo al condizionale manifesterebbe la volontà legislativa di escludere la prosecuzione del rapporto durante il periodo di preavviso (così già Cass., S.U., 29.9.1994 n. 7914. Più di recente, in termini, Cass., n. 11740/2007, cit.).
Corollario di tale ricostruzione è che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso (Cass., 4.11.2010, n. 22443, in Dir. prat. lav., 2011, 631, con nt. di A. Levi; Cass., 5.10.2009, n. 21216, in Orient. giur. lav., 2009, I, 967; Cass., n. 11740/2007, cit.).
La giurisprudenza ha inoltre affermato che le parti, in sede di contrattazione sia individuale sia collettiva, possono validamente pattuire la facoltà per la parte che subisce il recesso di troncare immediatamente il rapporto rinunciando al preavviso senza che ne derivi alcun obbligo di indennizzo per il preavviso non lavorato non derivandone alcun pregiudizio per il recedente (cfr. Cass., 19.8.2009, n. 18337 citata da Del Conte, M., Le dimissioni e la risoluzione consensuale nel contratto di lavoro, Milano, 2012, 61).
Controversa è la legittimità di accordi individuali che prevedano la fissazione di un termine di preavviso per il lavoratore che voglia recedere dal contratto diverso da quello previsto dal contratto collettivo ed eventualmente diverso da quello pattuito per il licenziamento. Parte della dottrina sostiene la legittimità di simili clausole soltanto nel caso in cui la facoltà di modificare la durata del preavviso di dimissioni sia conferita alle parti individuali dal contratto collettivo e sempre che l’accordo individuale non preveda un termine maggiore rispetto a quello previsto dal contratto collettivo (Vallebona, A., Preavviso di dimissioni e accordi individuali, in Lav. giur., 2001, 1120).
Analogamente la giurisprudenza prevalente ritiene valide tali clausole purché la pattuizione del maggiore termine di preavviso non assuma i caratteri di una pattuizione peggiorativa rispetto al contratto collettivo applicabile al rapporto. Così, ad esempio, la Cassazione ha ritenuto valida la clausola del contratto individuale, che imponeva un anno di preavviso per le dimissioni del lavoratore, invece del mese previsto dal contratto collettivo, anche per il licenziamento, sull’assunto che, da un lato, il contratto collettivo attribuiva espressamente alle parti individuali la facoltà di derogare alla durata del termine di preavviso dallo stesso previsto, e, dall’altro, che le parti avevano pattuito un compenso per il lavoratore quale corrispettivo del maggior termine. Ne risultava la legittimità della clausola in quanto non peggiorativa rispetto alle previsioni del contratto collettivo (Cass., 3.11.2009, n. 23235. Nello stesso senso nella giurisprudenza di merito: Trib. Bologna, 1.9.2008, in Riv. crit. dir. lav., 2009, 208, con nt. di F. Capurro; Trib. Genova, 7.9.2004, in Not. giur. lav., 2004, 731).
Per quanto riguarda il calcolo dell’indennità dovuta a titolo di mancato preavviso, la Cassazione ha affermato che il concetto di retribuzione recepito dall’art. 2118, co. 2, c.c. è ispirato al criterio dell’omnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa. Vanno escluse dal computo solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand’anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorché collaterale e collegato al rapporto di lavoro (Cass., 1.10.2012, n. 16636).
Opinioni discordanti si ravvisano, infine, anche con riferimento alla individuazione della funzione che l’indennità sostitutiva del preavviso sarebbe chiamata ad assolvere.
Una parte della dottrina distingue fra l’indennità dovuta dal lavoratore che non voglia lavorare durante il periodo di preavviso in caso di dimissioni volontarie e l’ipotesi in cui l’indennità spetti invece al lavoratore nell’ipotesi di dimissioni per giusta causa (cfr. Mainardi, S., op. cit., 452 ss.).
Nella prima ipotesi l’indennità sostitutiva del preavviso avrebbe natura risarcitoria essendo volta a ristorare il danno subito dal datore di lavoro costretto ad affrontare il vuoto organizzativo creatosi per l’immediata interruzione del rapporto di lavoro con il dimissionario. In questo modo il legislatore ha forfettizzato il valore del danno cagionato alla parte che subisce il recesso, cosicché, per esempio, il lavoratore non potrebbe invocare una riduzione della somma dovuta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso nel caso in cui il datore di lavoro abbia sostituito il dimissionario prima del decorso del relativo termine (cfr. Levi, A., op. cit., 78 s.).
Nella seconda ipotesi, l’indennità sostitutiva del preavviso assolverebbe invece ad una funzione assistenziale, in quanto volta ad evitare che il lavoratore si ritrovi privato istantaneamente del proprio reddito e a favorire che questi possa nel frattempo ricercare una nuova occupazione.
Altra parte della dottrina attribuisce invece in ogni caso una funzione risarcitoria all’indennità sostitutiva del preavviso, e quindi anche in caso di dimissioni per giusta causa (Cfr. Altavilla, R., Le dimissioni del lavoratore, Milano, 1987, 83).
A favore di questa seconda opinione appare orientata la Suprema Corte la quale ha rilevato che non è consentito al lavoratore dimissionario per giusta causa ottenere altro che l’indennità di preavviso a compenso del pregiudizio specifico determinato dalla risoluzione del rapporto (Cass., 7.11.2001, n. 13782, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 591, con nt. di M. Vinceri).
L’art. 2119 c.c. prevede espressamente il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso nel caso di giusta causa di dimissioni solo laddove il rapporto di lavoro sia a tempo indeterminato (cfr. sul punto le critiche mosse alla previsione normativa da Pera, G., Sulle dimissioni del lavoratore, in Riv. it. dir. lav., 1989, II, 338). Ciò nonostante, in giurisprudenza è stata ammessa la configurabilità delle dimissioni rese per giusta causa dal lavoratore assunto a termine come un’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’altra parte ai sensi dell’art. 1453 c.c. (Cass., 3.2.1996, n. 924, in Mass. giur. lav., 1996, 333, con nt. di L. Masini). Al lavoratore compete dunque il diritto al risarcimento del danno, usualmente quantificato nelle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se non fosse stato eseguito il recesso e quindi nelle retribuzioni dovute fino alla scadenza del termine apposto al contratto (Mainardi, S., op. cit., 453 s.).
L’art. 2119 c.c. sancisce il diritto del lavoratore assunto a tempo indeterminato di recedere dal rapporto di lavoro senza essere obbligato a rispettare il periodo di preavviso se l’esercizio del recesso è motivato da ragioni riconducibili al concetto di «giusta causa» definito dalla medesima disposizione come quella «causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto». Oltre a liberare il lavoratore dall’obbligo del preavviso, l’esistenza di una giusta causa di dimissioni fa maturare in capo al lavoratore il diritto a percepire l’indennità sostituiva del preavviso.
Infine, la possibilità di invocare una giusta causa di interruzione del rapporto di lavoro consente al lavoratore assunto a tempo determinato di recedere dal contratto prima della scadenza del termine.
Il fondamento del diritto del lavoratore di interrompere “in tronco” il rapporto e di chiedere altresì l’indennità sostituiva del preavviso viene tradizionalmente individuato nel fatto che le fattispecie nelle quali in maniera più ricorrente si configura una giusta causa di dimissioni consistono in un grave inadempimento contrattuale del datore di lavoro (Mundo, A., Le dimissioni per giusta causa dal rapporto di lavoro, Padova, 1990). In tali ipotesi l’atto di dimissioni, ancorché proveniente dal lavoratore, va comunque ascritto al comportamento di un altro soggetto (cfr. C. cost., 24.6.2002, n. 269, che in tale sentenza ha peraltro affermato che la formulazione della l. 23.12.1998, n. 448 ammette il riconoscimento dell’indennità ordinaria di disoccupazione al lavoratore che si sia dimesso in base ad una scelta imputabile a comportamenti altrui idonei, dovendo considerarsi, in tal caso, involontario lo stato di disoccupazione). La giurisprudenza ritiene necessario che le dimissioni per giusta causa, al pari del licenziamento, debbano intervenire nel rispetto del principio di immediatezza, da valutarsi però in maniera meno rigorosa rispetto all’ipotesi in cui sia il datore di lavoro ad invocare una giusta causa di recesso; ciò in ragione della particolare condizione del lavoratore, particolarmente interessato alla conservazione del rapporto di lavoro (Altavilla, R., op. cit., 78; Pera, G., La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980, 67).
Molto ampia è la casistica giurisprudenziale relativa ai comportamenti del datore di lavoro qualificabili come giusta causa di recesso per il lavoratore (per una casistica v. da ultimo Levi, A., op. cit., 39 ss.).
La valutazione della gravità dell’inadempimento del datore di lavoro ai suoi obblighi contrattuali è comunque rimessa al sindacato del giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità unicamente per vizi di motivazione (Cass., 18.10.2002, n. 14829; Cass., 11.2.2000, n. 1542; Cass., 17.12.1997, n. 12768, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 551, con nt. di M.T., Bellante Fumagalli).
A titolo esemplificativo si può ricordare che la giurisprudenza ha ravvisato una giusta causa di dimissioni nel caso di mancata corresponsione della retribuzione (Cass., 23.5.1998, n. 5146; Cass., 26.1.1988, n. 648, in Orient. giur. lav., 1988, 531; Cass., 13.1.1989, n. 133), ma non nel mancato pagamento del compenso per lavoro straordinario (Trib. Milano, 16.11.1994, in Orient. giur. lav., 1994, 918). Con riferimento all’ipotesi diritardo nel pagamento della retribuzione, è stato ritenuto che tale circostanza configuri giusta causa di dimissioni, solo quando il suddetto ritardo assuma una particolare gravità, come nel caso in cui esso costringa il lavoratore a provvedere alle proprie esigenze con mezzi sostitutivi della retribuzione non corrisposta (Cass., 7.12.1989, n. 5448). Costituiscono inoltre giusta causa di dimissioni la violazione del diritto del lavoratore al rispetto della sua personalità fisica e morale, la modifica arbitraria delle fondamentali condizioni contrattuali disposta in contrasto con l’art. 2103 c.c., l’inadempimento degli obblighi che costituiscono il corrispettivo della prestazione di lavoro, (Cass., 2.2.1998, n. 1021).
Può costituire giusta causa di dimissioni anche il demansionamento del lavoratore, con la precisazione che non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente a configurare un demansionamento, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del ruolo (Cass., 11.7.2005, n. 14496). Inoltre, può configurare giusta causa di dimissioni anche la dequalificazione, unilateralmente operata dal datore di lavoro, del dirigente apicale a dirigente riconducibile alla «media» o «bassa» dirigenza (Cass., 8.11.2005, n. 21673, in Mass. giur. lav., 2006, 135, con nt. di G. Gramiccia).
In alcuni casi, la giurisprudenza ha ammesso la risarcibilità del danno subito dal lavoratore per essere stato indotto a dimettersi dal comportamento del datore di lavoro configurabile come giusta causa. In tali ipotesi, oltre all’indennità di mancato preavviso, la giurisprudenza ha condannato il datore di lavoro al pagamento di una somma di denaro parametrata all’importo dell’ultima retribuzione di fatto spettante moltiplicata per il numero di mesi verosimilmente necessari alla stessa per reperire un’altra occupazione (Trib. Roma, 17.6.2005, in Riv. giur. lav., 2005, II, 672, con nt. di S. Fatone. In senso contrario v. però Cass., 7.11.2001, n. 13782, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 591, con nt. di M. Vinceri).
Come rilevato dalla dottrina, però, deve riconoscersi alla giusta causa anche una dimensione oggettiva, così da ritenerne sussistenti i presupposti anche in presenza di un grave impedimento personale del lavoratore all’esecuzione della prestazione, oppure nel caso in cui la prosecuzione del rapporto potrebbe ledere irreparabilmente i diritti primari del lavoratore ovvero mortificarne la personalità (cfr. Levi, A., op. cit., 33 ss.). Parimenti, nella nozione di giusta causa devono essere inclusi anche tutti quei fatti che pur essendo oggettivamente determinati da un comportamento lecito – avuto riguardo al concreto rapporto, al suo oggetto, al suo modo di svolgimento ed a coloro che ne sono i soggetti – appaiano idonei a determinare in uno di essi la immediata impossibilità di continuare a mantenere in vita il rapporto medesimo (Cass., n. 12768/1997, cit.). In tutte tali ipotesi, però, si deve trattare di circostanze le quali si presentino con caratteristiche di obbiettiva gravità, e non solo valutate gravi soggettivamente dal lavoratore, dalle quali si deduca un’effettiva incompatibilità per il lavoratore di permanere nel posto occupato (Cass., n. 12768/1997, cit.). La configurabilità delle dimissioni per giusta causa va così esclusa nel caso in cui il lavoratore, manifestando la volontà di dimettersi, abbia dichiarato al datore di lavoro di essere pronto a continuare l’attività per tutto o per parte del periodo di preavviso. In tale ipotesi, invero, è lo stesso lavoratore ad escludere, con il suo comportamento, la ravvisabilità di circostanze tali da impedire la prosecuzione anche soltanto temporanea del rapporto (Cass., 21.11.2011, n. 24477, in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 655, con nt. di A. Donini).
Il legislatore configura alcune fattispecie tipiche di giusta causa di dimissioni.
L’art. 2112 c.c., co. 4, prevede che il prestatore di lavoro può, in caso di sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, recedere immediatamente dal contratto facendo valere il suo diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso. Il maggiore problema interpretativo che si pone nell’applicazione pratica della norma riguarda la precisazione del contenuto della formula “condizioni di lavoro” che è piuttosto ampia e quindi idonea a comprendere tutti gli elementi che definiscono complessivamente il modo d’essere del lavoratore in una certa struttura produttiva: dal tipo di mansioni alle condizioni ambientali, dai rapporti con i compagni di lavoro e con i preposti alle prospettive di carriera e di crescita professionale, fino alla disciplina applicabile al nuovo rapporto, ecc. (cfr. Cester, C., Trasferimento d’azienda e rapporti di lavoro: la nuova disciplina, in Lav. giur., 2001, 505).
La dottrina ha poi ravvisato una tipizzazione legislativa di fattispecie riconducibili alla giusta causa di dimissioni in due ulteriori ipotesi.
La prima è quella prevista dall’art. 35, co. 7, d.lgs. 11.4.2006, n. 198, che nel caso in cui il licenziamento della lavoratrice sia stato dichiarato nullo perché irrogato a causa di matrimonio, riconosce il diritto di quest’ultima a recedere dal rapporto e a percepire il trattamento previsto per le dimissioni per giusta causa, ferma restando la corresponsione della retribuzione fino alla data del recesso.
La seconda è stata identificata nell’ipotesi in cui l’ordinamento consente al lavoratore, reintegrato a seguito di licenziamento illegittimo, di optare per l’interruzione del rapporto con il diritto a percepire l’indennità sostitutiva della reintegrazione. La manifestazione della volontà di avvalersi dell’opzione sarebbe assimilabile a quella espressa con l’atto di dimissioni poiché l’esercizio illegittimo del potere di licenziamento costituisce la causa della interruzione del rapporto (cfr. Garofalo, M.G., La nuova disciplina dei licenziamenti individuali: prime osservazioni, in Riv. giur. lav., 1990, I, 197).
Sono denominate clausole di durata minima garantita quelle clausole con le quali le parti del rapporto di lavoro si vincolano a non recedere dal rapporto di lavoro prima di una certa data, salva l’ipotesi in cui sopravvenga una giusta causa. Tali clausole possono sancire che tale vincolo operi sia in capo al datore di lavoro che al lavoratore, sia in capo ad una sola delle due parti (Zoli, C., Clausole di fidelizzazione e rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2003, I, 449).
La scelta di apporre una clausola che limita la facoltà di recesso del lavoratore può essere motivata da ragioni diverse quali, per esempio: l’investimento fatto dal datore di lavoro sulla formazione del lavoratore; l’esigenza di evitare il rischio delle dimissioni del dipendente fino al compimento di una determinata opera o fino al rientro di un lavoratore assente per malattia; l’opportunità di fidelizzare il lavoratore dotato di particolari competenze difficilmente reperibili sul mercato, ecc.
Nonostante l’opinione contraria di una risalente dottrina che escludeva la legittimità di simili clausole perché contrarie alla regola inderogabile che sancisce la libertà del lavoratore di recedere dal rapporto di lavoro (Isenburg, L., Le clausole di durata minima garantita nel contratto individuale di lavoro, in Riv. giur. lav., 1975, I, 19 e 91; Dell’Olio M., La stabilità convenzionale, in Arg. dir. lav., 1998, 180), la giurisprudenza ammette la validità di tali pattuizioni.
In particolare, la Cassazione ha affermato che il lavoratore subordinato può liberamente disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto, e dunque validamente sottoscrivere un accordo che assicuri al datore di lavoro che il rapporto avrà una durata minima impegnandosi il lavoratore a non dimettersi prima del compimento di un certo termine (Cass. 7.9.2005, n. 17817. Nello stesso senso: Cass., 11.2.1998, n. 1435, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 539, con nt. di F. Bano; Cass., 14.10.2005, n. 19903; Cass., 19.8.2009, n. 18376, in Mass. giur. lav., 2010, 33, con nt. di G. Mannacio). Tale conclusione sarebbe indotta dal fatto che una pluralità di regole presenti nell’ordinamento dimostrano come questo attribuisca al lavoratore la piena disponibilità del diritto di recedere dal rapporto di lavoro. In particolare, militano in tal senso la regola della recedibilità ad nutum dal contratto, quella della validità degli accordi di risoluzione consensuale e la possibilità del lavoratore di far consolidare gli effetti del licenziamento non esercitando il diritto di impugnarlo (cfr. Zoli, C., op. cit., 455).
La giurisprudenza qualifica l’accordo avente ad oggetto la durata minima garantita del rapporto di lavoro come un contratto a forma libera, che può dunque essere concluso anche oralmente (Cass., 18376/2009, cit.; Cass., 30.10.1990, n. 10460, in Riv. it. dir. lav., 1991, II, 867, con nt. di L. Gremigni), non avendo peraltro natura vessatoria (Cass., n. 18376/2009, cit.).
Laddove il lavoratore violi la clausola di durata minima garantita recedendo (senza giusta causa) prima del termine sarà obbligato al risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro, sul quale graverà l’obbligo di fornirne la prova. Le difficoltà probatoria comportano che usualmente siano le stesse parti a definire l’ammontare della penale dovuta in caso di violazione dell’accordo di stabilità.
Prima della riforma varata con la l. n. 92/2012, il lavoratore poteva impedire che l’atto di dimissioni producesse i propri effetti facendo pervenire in anticipo al datore di lavoro una dichiarazione di revoca dello stesso. Attesa la natura recettizia dell’atto di risoluzione del contratto, l’effetto risolutivo poteva essere impedito solo da una dichiarazione contraria che pervenisse alla conoscenza del datore di lavoro prima delle dimissioni.
A seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 92/2012 la possibilità della revoca delle dimissioni rimane teoricamente possibile, ma concretamente priva di utilità. Poiché l’efficacia risolutiva dell’atto di dimissioni è oggi sottoposta alla condizione sospensiva del compimento della convalida o della sottoscrizione della comunicazione della interruzione del rapporto di lavoro, il lavoratore che non intenda più interrompere il rapporto, potrà limitarsi a non porre in essere l’attività necessaria a rendere efficace la volontà di dimettersi in precedenza dichiarata al datore di lavoro. In simili ipotesi un’esplicita dichiarazione della volontà di revocare le dimissioni si rivela, in altre parole, superflua.
La revoca delle dimissioni conserva invece un’utilità concreta, ed è a tal fine espressamente disciplinata dalla l. n. 92/2012, solo con riferimento all’ipotesi in cui il datore di lavoro, per rendere efficace la dichiarazione del lavoratore di risolvere il rapporto, scelga di utilizzare il procedimento consistente nell’invio al lavoratore di una comunicazione contenente l’invito a presentarsi presso una delle sedi abilitate alla convalida delle dimissioni. In tale ipotesi, come più sopra si è scritto, il lavoratore ha sette giorni per aderire alla richiesta di convocazione dinanzi alla sede della convalida ovvero rimanere inerte. Nel medesimo lasso temporale, è riconosciuta al lavoratore la facoltà di revocare le dimissioni già comunicate, privandole così definitivamente della idoneità a produrre la risoluzione del rapporto di lavoro.
La dichiarazione di revoca può essere resa anche oralmente, atteso che la forma scritta è indicata dal co. 21 dell’art. 4 l. n. 92/2012 come eventuale (cfr. Fedele, I., op. cit., 604).
Con riferimento a tale fattispecie, il legislatore precisa che laddove il lavoratore, in conseguenza della manifestazione della volontà di dimettersi, abbia interrotto la propria prestazione non avrà diritto a percepire la retribuzione per il periodo compreso fra il momento del recesso e quello della revoca. Tale soluzione appare coerente con la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro che impedisce possa essere riconosciuto il diritto alla retribuzione in assenza della prestazione lavorativa, anche se la dichiarazione di recesso non ha ancora potuto produrre l’effetto risolutivo del rapporto essendo condizionata all’adempimento delle formalità previste dalla legge.
Il diritto alla retribuzione ricomincerà a maturare dal giorno successivo a quello della ricezione della dichiarazione di revoca.
Il legislatore ha da ultimo esteso le regole in materia di forma dell’atto di dimissioni (come visto condizionanti l’efficacia dell’atto medesimo) anche ai lavoratori impiegati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, di cui all'art. 61, co. 1, del d.lgs. 10.9.2003, n. 276 e con contratti di associazione in partecipazione di cui all’art. 2549, co. 2, c.c. (art. 4, co. 23-bis, l. n. 92/2012, come modificato dall'art. 7, co. 5, lett. d), n. 1, d.l. 28.6.2013, n. 76, convertito, con modificazioni, in l. 9.8.2013, n. 99).
Lo specifico riferimento ai contratti di lavoro a progetto stipulati ai sensi del co. 1 dell’art. 61 d.lgs. n. 276/2003 permette di concludere che i requisiti di forma esaminati non siano richiesti per la risoluzione di un contratto per prestazione di lavoro occasionale (art. 61, co. 2) o di un contratto con uno dei soggetti elencati dal co. 3 del medesimo art. 61 (cfr. in tal senso anche Circolare Ministero del lavoro 29.8.2013, n. 35).
Art. 14 R.d.l. 13.11.1924, n. 1825 (convertito in l. 18.3.1926, n. 562); artt. 2118-2119 c.c.; art. 98 att. c.c.; art. 55, co. 4, d.lgs. 26.3.2001, n. 151; art. 4, co. da 16 a 23, l. 28.6.2012, n. 92.
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