DINAMICA APPLICATA
. Generalità. - È una parte della meccanica applicata alle macchine (detta anche teoria generale delle macchine) e comprende la discussione e la soluzione di tutti i problemi che si presentano quando i risultati della dinamica teorica si devono applicare allo studio delle macchine. Essa costituisce una disciplina in certo qual modo parallela alla cinematica applicata (v.), con la quale presenta numerosi punti di contatto e di collegamento; e suo oggetto precipuo è lo studio delle relazioni tra le varie forze agenti e reagenti nelle macchine in moto, con particolare riguardo alle forze d'inerzia. Conseguentemente vi si studiano anche: le trasformazioni del lavoro e dei suoi fattori; l'energia meccanica nelle sue varie forme, col computo dell'energia dissipata per resistenze passive; il regime energetico del moto delle macchine. Tali studî hanno scopi tecnici varî, da precisare caso per caso, ma che si possono ridurre essenzialmente ai seguenti:
1. La determinazione della legge del moto (spazio o velocità in funzione del tempo) dei varî organi di una macchina, sotto l'azione di date forze agenti; 2. il calcolo del lavoro dissipato o perduto per resistenze passive, in modo da poter determinare la relazione quantitativa tra l'energia necessaria a intrattenere il moto di una macchina, e l'energia da essa utilmente trasmessa o trasformata; 3. l'analisi di tutte le forze in giuoco sui varî organi di una macchina in moto, - non escluse le forze d'inerzia, - col fine immediato di calcolare i cimenti da esse prodotte nei materiali degli organi stessi, in modo da verificarne e assicurarne la stabilità; 4. la deduzione di norme o metodi per il progetto e il proporzionamento dei varî organi di una macchina, in modo da poter realizzare moti assegnati, o da poter attribuire date caratteristiche ai moti realizzati; 5. in particolare, il calcolo e il progetto di speciali meccanismi, aventi azione essenzialmente dinamica, per l'intervento di forze d'inerzia (centrifughe o tangenziali) opportunamente provocate e utilizzate per ottenere determinati effetti.
Come già è stato notato (v. cinematica) la cinematica e la dinamica studiano due diversi aspetti del moto; mentre la prima si limita a considerarne le modalità geometriche, la seconda invece tiene pure conto delle forze, che agiscono sui corpi in movimento quali cause di questo o quali effetti di reazione statica (reazioni di vincoli) o di reazione dinamica (forze d'inerzia). Ma se nelle trattazioni teoriche può essere opportuna la netta, sistematica separazione della cinematica e della dinamica, nelle applicazioni tecniche, invece, risulta ovvia l'utilità e quasi la necessità di studiare ogni caso concreto, ogni singolo meccanismo, ogni particolare macchina, tenendo presenti entrambi gli aspetti del fenomeno "moto", specialmente in quanto, sia dal punto di vista cinematico, sia da quello dinamico, si deducono norme di proporzionamento degli organi dei meccanismi, o delle parti della macchina; norme che talora possono interferire, come pure possono completarsi a vicenda, e perciò il tecnico non può senza danno separatamente considerarle.
D'altra parte gli studî (cinematici) delle distribuzioni di velocità o di accelerazioni possono talvolta essere utili, in sede di considerazioni dinamiche, per determinare rispettivamente rapporti tra forze applicate o valori di forze d'inerzia provocate. (v. cinematica applicata).
Perciò qui ci limiteremo all'esposizione dei principî generali e alla classificazione dei varî tipi di problemi dinamici che si presentano nelle applicazioni, rimandando invece le trattazioni particolari agli articoli relativi ai singoli meccanismi e alle singole macchine, ove lo studio è fatto insieme sotto tutti e due gli aspetti, cinematico e dinamico, sempre - ben inteso - in relazione con i principî fondamentali stabiliti in questo articolo.
Notiamo incidentalmente che, in virtù del principio del D'Alembert (v. dinamica), con l'opportuna introduzione delle forze d'inerzia, ogni problema dinamico si può ridurre a relazioni di equilibrio tra forze agenti, e cioè ad un problema di statica (v.); e in particolare per molte questioni di dinamica tecnica possono essere molto utili alcuni procedimenti e metodi della statica grafica (v.).
Nei problemi di dinamica applicata riesce pure spesso molto utile il principio dei lavori virtuali (v. statica) e si adopera molto spesso anche il principio o teorema delle forze vive (v. dinamica).
Forze operanti nelle macchine e loro lavori. - Rendimento. - Tra le forze in giuoco nelle macchine, alcune sono azioni e reazioni mutue dei varî organi meccanici: altre invece sono forze applicate dall'esterno. Tra le forze esterne alcune compiono durante il moto lavoro positivo, e si dicono forze motrici; altre compiono lavoro negativo, ossia assorbono una parte del lavoro svolto dalle altre forze, e si dicono resistenze, in quanto il loro senso è tale che esse ostacolano il movimento. Le resistenze si dicono utili quando il lavoro da esse assorbito è il lavoro utile della macchina, proprio quello a compiere il quale la macchina è destinata. Invece il lavoro di altre resistenze viene inutilmente dissipato e per lo più convertito in calore non utilizzabile; in tal caso le resistenze che assorbono tale lavoro si dicono resistenze passive. Come tali debbono essere considerate quelle azioni mutue degli organi meccanici, le quali abbiano versi tali da opporsi al moto relativo degli organi tra i quali esse si esercitano, e perciò contribuiscono a dissipare energia. Esse si possono chiamare resistenze passive interne.
Le azioni operanti possono essere anche coppie: in tal caso dobbiamo ricordare che il lavoro di una coppia agente su di un corpo rigido è il prodotto del momento della coppia per la proiezione della rotazione subìta dal corpo rigido, proiezione fatta sulla direzione dell'asse-momento della coppia.
Si usa chiamare movente un organo meccanico della macchina al quale sia applicata un'azione motrice, e cedente un organo al quale sia applicata una resistenza utile. Può darsi il caso in cui uno stesso organo sia contemporaneamente movente e cedente.
Nel funzionamento pratico delle macchine spesso si verifica che a intervalli uguali di tempo le condizioni del moto, come posizioni relative dei varî organi, velocità di tutti i varî punti, ecc., si riproducano identiche, cioè siano funzioni periodiche del tempo. In tal caso si dice pure che la macchina funziona a regime periodico. E l'intervallo di tempo ora considerato si dice periodo.
Se applichiamo alla durata di un periodo, o di un suo multiplo, il principio delle forze vive (v. dinamica), poiché nell'intervallo considerato la variazione di forza viva è nulla, essendo anche la forza viva funzione periodica del tempo, ne risulta che è pure nulla la somma algebrica dei lavori svolti da tutte le forze agenti sui varî organi della macchina. E tenendo presente il segno dei lavori svolti dalle varie forze operanti, potremo dire che "per la durata del periodo la somma dei lavori svolti dalle azioni motrici è uguale alla somma dei lavori assorbiti dalle varie resistenze (utili e passive)".
Nelle macchine non è praticamente possibile eliminare del tutto ogni resistenza passiva; il funzionamento di una macchina è perciò sempre accompagnato da dissipazione di energia, e quindi il lavoro utile è sempre minore del lavoro motore. Questo deve fare le spese del lavoro resistente utile e del lavoro delle resistenze passive, che si dice anche lavoro perduto.
Il rapporto tra il lavoro resistente utile e il lavoro motore, computati per la durata di un periodo, si dice rendimento meccanico della macchina (funzionante a regime periodico). Tale rendimento è un numero minore dell'unità, che può tendere a uno, come suo valore massimo, solo quando le resistenze passive si possano rendere piccolissime.
Il rapporto tra il lavoro perduto e il lavoro motore, si chiama perdita di rendimento.
Indicando con Lm, Lu ed Lp, i lavori rispettivamente motore, utile e perduto, l'equazione dei lavori per un periodo è:
E indicando con η il rendimento, si ha:
Rendimento del complesso di più meccanismi in serie. - Si dice che più meccanismi sono disposti in serie, quando sono così collegati che la resistenza utile del primo sia uguale e contraria alla forza motrice del secondo, e così via.
Vediamo ora di stabilire una relazione tra i rendimenti dei varî meccanismi parziali e il rendimento complessivo della macchina completa. Conforme alla nomenclatura sopra adottata, avremo le seguenti espressioni dei rendimenti:
Ma si ha, per la data definizione dei meccanismi in serie:
Perciò moltiplicando membro a membro si ottiene:
Questo risultato si può enunciare dicendo che "il rendimento di un meccanismo composto di più meccanismi disposti in serie, è uguale al prodotto dei rendimenti dei varî meccanismi costituenti".
Valutazione del rendimento mediante l'analisi delle varie cause di perdita. - Una formula analoga alla precedente può valere per approssimazione quando si risalga al rendimento complessivo di un meccanismo dall'analisi delle varie cause di dispersione d'energia. Occorre a tale scopo ritenere che le cause ora dette non s'influenzino mutuamente, in modo che ciascuna faccia sentire la sua azione come se esistesse da sola; ciò non è rigoroso, ma è ammissibile nella pratica con buona approssimazione: è questa la prima applicazione che incontriamo di un "principio di approssimazione" del quale si fa frequente uso: esso consiste nel ritenere che "le resistenze passive si possano approssimativamente valutare come provocate da quei valori delle azioni motrici e delle resistenze utili, che queste avrebbero quando le resistenze passive non esistessero".
Sulla portata e sull'ordine di approssimazione di tale principio si avrà occasione di ritornare: per ora passiamo senz'altro ad applicarlo. Indichiamo con Lp′, Lp′′, ... ecc., i lavori perduti in seguito alle varie cause di perdita suddette; siano poi η′, η′′, ... ecc., i rendimenti che si ottengono per la macchina, considerando separatamente ciascuna causa di perdita di lavoro, come se tutte le altre cause non intervenissero. Si avrà allora:
e, moltiplicando queste eguaglianze membro a membro,
Ora nei casi più comuni, nelle applicazioni i rapporti nei secondi termini dei binomî, fattori del prodotto nel secondo membro, sono molto piccoli, in modo che si può con buona approssimazione trascurare i loro prodotti, e perciò scrivere:
poiché questa espressione rappresenta appunto il rendimento della macchina, computando complessivamente tutte le cause, affermiamo che "approssimativamente il rendimento di una macchina è uguale al prodotto dei rendimenti ottenuti valutando separatamente ognuna delle cause che simultaneamente concorrono a disperdere il lavoro".
Macchine funzionanti a regime assoluto e loro rendimento. - Si dice che una macchina funziona a regime assoluto quando, durante il moto è sempre verificata a ogni istante la condizione che le forze d'inerzia non producano lavoro alcuno (o perché nulle, oppure perché agenti sempre normalmente agli spostamenti dei loro punti di applicazione). Le forze d'inerzia sono nulle soltanto se tutte le masse si muovono di moto traslatorio uniforme. Nel caso di una o più masse rotanti uniformemente intorno ad assi fissi, vi sono bensì forze d'inerzia, che sono le forze centrifughe, ma esse, per rotazioni rigide delle masse, non sviluppano lavoro.
Sono questi i casi tipici di macchine a regime assoluto; e come tali si potranno pure riguardare quelle in cui vi sono pure alcune masse animate da moti diversi da quelli sopra considerati, purché tali masse siano molto piccole in confronto delle altre effettivamente moventisi a regime assoluto. Esempî: un veicolo lanciato a velocità costante su una strada rettilinea, quando si possano trascurare le masse dotate di moti alternativi in confronto delle altre dotate di moti uniformi traslatorio o rotatorio; un gruppo di macchine puramente rotative, insieme accoppiate, come turbina con dinamo elettrica, motore elettrico con pompa centrifuga, ecc.
È noto che il lavoro delle forze d'inerzia costituisce la variazione della forza viva (v. dinamica); perciò, se codesto lavoro è sempre nullo, la forza viva dovrà essere costante, e quindi la relazione fra i lavori e le forze operanti stabilita più sopra per le macchine a regime periodico:
è per siffatte macchine riconosciuta valida soltanto se estesa a un intero periodo; invece per le macchine a regime assoluto vale in qualsiasi intervallo di tempo finito, o anche infinitesimo. E se appunto la applichiamo per un intervallo infinitesimo, essa si può riguardare come l'espressione del principio dei lavori virtuali, applicato allo spostamento infinitesimo effettivo, che la macchina subisce nell'intervallo di tempo infinitesimo considerato. Come tale, detta relazione ci esprime l'equilibrio tra le forze operanti sulla macchina, comprese le resistenze passive, equilibrio che deve sempre essere verificato a regime assoluto, e che si chiama equilibrio dinamico.
Supponiamo che le azioni motrici si riducano a una forza unica, d'intensità P, e che anche le resistenze utili si riducano a una sola, d'intensità Q; indichiamo poi con R genericamente le resistenze passive. Siano inoltre δp, δq δr, gli spostamenti dei punti di applicazione delle P, Q, R rispettivamente, valutati nelle direzioni delle forze. Non è escluso il caso in cui alcuna delle P, Q, R, possa essere una coppia; allora il corrispondente δ è uno spostamento angolare (o rotazione), opportunamente computato nel modo noto.
Con questi simboli l'equazione d'equilibrio dinamico è data da Pδp, = Qδq + ΣRδr. È superfluo ricordare che questa relazione vale esclusivamente per il regime assoluto.
Dalla definizione del rendimento, coi simboli adottati, risulta:
È poi utile considerare il funzionamento ideale della macchina, cioè quello che si avrebbe quando le resistenze passive non esistessero. Il corrispondente valore della P sarà indicato con P0, e lo chiameremo forza motrice ideale. Questa è definita dalla relazione:
e, per contrapposto, la P si potrà chiamare forza motrice effettiva. Sostituendo, nell'espressione del rendimento, al lavoro Qδq il suo valore dato dall'ultima uguaglianza, si ottiene:
ossia nelle macchine a regime assoluto il rendimento è il rapporto tra la forza motrice ideale e quella effettiva.
Analogamente, chiamando Q0 la resistenza utile ideale corrispondente alla forza motrice P nell'ipotesi di assenza della resistenza passiva, si giunge a quest'altra espressione del rendimento:
Moto retrogrado. Arresto spontaneo. - Nel moto della macchina, finora considerato, che potremo chiamare moto diretto, abbiamo supposto che la forza motrice svolgesse sempre lavoro positivo e che la resistenza utile facesse invece lavoro negativo, ossia assorbisse parte del lavoro motore. Può interessare il caso in cui il moto s'inverta, in modo che diventi negativo il lavoro compiuto dalla forza, che nel moto diretto si considerava come motrice (e che ora si comporta come resistenza) e che sia invece positivo il lavoro della forza, che prima era la resistenza utile (e che ora funziona da forza motrice).
Le resistenze passive sono sempre tali da ostacolare il moto; perciò nel moto retrogrado esse hanno senso opposto a quello corrispondente nel moto diretto; quindi esse coopereranno con la forza P, già motrice, che ora ostacola il moto, e si potrebbe chiamare forza frenante. Indicando con P1 il valore di questa forza, avremo
perché nel moto retrogrado ideale, mancando le resistenze passive cooperanti al frenamento, la forza ideale frenante P0 dovrebbe essere maggiore della forza frenante effettiva P1.
Conservando i simboli più sopra usati per indicare i lavori, indichiamo con Lp′ il nuovo valore del lavoro perduto (in generale diverso da quello Lp, del moto diretto), e con Lf il lavoro assorbito dalla forza frenante P1. L'equazione dei lavori diventa:
Secondo il segno della P1 possiamo distinguere due casi: 1. Se la P1 ha lo stesso senso della P, il moto retrogrado deve, per avere l'equilibrio dinamico, essere frenato; perciò si può dire che il meccanismo è spontaneamente reversibile. 2. Se invece la P1 è negativa, ossia di segno opposto alla P, il meccanismo non richiede azione frenante per stare in equilibrio dinamico e si arresterebbe qualora la P1 venisse a mancare. Allora si dice che il meccanismo presenta l'arresto spontaneo. Questa condizione è in alcuni casi praticamente assai importante: in taluni meccanismi come quelli di sollevamento e quelli di manovra o di comando, occorre che al cessare dell'azione motrice sia evitata la reversibilità del moto, che potrebbe produrre serî inconvenienti.
È facile dimostrare che "se in un meccanismo si ha l'arresto spontaneo e se la forza motrice P del moto diretto è tale da non diminuire le resistenze passive, rispetto a quelle che si presentano nel motto retrogrado, il rendimento del meccanismo nel moto diretto non è maggiore di ½".
Infatti la condizione ora posta richiede che sia:
Inoltre, se si ha l'arresto spontaneo è chiaro che il lavoro assorbito dalle resistenze passive nel moto retrogrado deve essere maggiore o almeno eguale a quello che è capace di compiere la forza Q, nuova forza motrice, ossia deve essere:
Combinando queste due disuguaglianze si ottiene:
Ricordiamo ora l'equazione dei lavori per il moto diretto
E ponendo in luogo di Lp la quantità non maggiore Ln si ha
E dall'espressione del rendimento, per sostituzione, si ricava:
E ciò dimostra l'enunciato sopra esposto. La condizione restrittiva, colà posta, Lp ≥ Lp′, salvo pochissime eccezioni, è verificata nella quasi totalità dei casi concreti; perciò il principio ora dimostrato ha una portata pratica affatto generale.
Si noti che la condizione limite Lp = Lp′ (per la quale η = ½) si ha sempre quando la forza motrice ha esattamente la direzione dello spostamento che al suo punto di applicazione viene consentito dalla costituzione cinematica del meccanismo (che qui supponiamo a un solo grado di libertà).
Si avrà invece Lp 〈 Lp′, e perciò η > ½, pur con la condizione dell'arresto spontaneo, qualora la forza motrice abbia direzione tale, che nel moto diretto essa ammetta una componente normale al predetto spostamento del suo punto di applicazione, in verso tale da diminuire la spinta normale mutua fra gli elementi della prima coppia cinematica. Esempî delle rarissime eccezioni poco sopra citati sono esposti nelle voci dedicate ai singoli meccanismi.
Si noti che nella pratica per poter fare affidamento sulla condizione di arresto spontaneo (che si dice anche autofrenamento), occorre che essa sia realizzata con un certo margine di sicurezza, e perciò che sia P1 〈 0, poiché nel caso P1 = 0, un impulso esterno potrebbe imprimere al meccanismo un moto retrogrado, che non potrebbe venire arrestato senza l'intervento di altre forze.
Dal principio ora enunciato risulta che i meccanismi autofrenanti presentano necessariamente rendimenti molto bassi.
Dall'analisi testé fatta risulta che la condizione di arresto spontaneo di un meccanismo può essere influenzata solo dalla posizione della retta d'azione della resistenza utile, di modo che, quando sia stata fissata tale retta d'azione, la condizione suddetta di autofrenamento non può essere ulteriormente modificata. Ne consegue che se si hanno più meccanismi in serie, la posizione della retta d'azione della resistenza utile del meccanismo complessivo - che è anche resistenza utile per l'ultimo meccanismo - può influire sulla condizione di autofrenamento solo dell'ultimo meccanismo della serie (ma non sull'analoga condizione degli altri meccanismi). Se ne deduce immediatamente: "condizione necessaria e sufficiente perché una serie di meccanismi sia autofrenante è che sia parimenti autofrenante almeno uno dei meccanismi parziali costituenti la serie".
Ciò vale naturalmente in particolare per un meccanismo solo, risultante da una serie di coppie cinematiche; esso possiede la proprietà dell'arresto spontaneo sempre e solo quando è autofrenante almeno una delle coppie costituenti (in relazione con le rette d'azione delle forze trasmesse dai varî organi, delle quali le posizioni sono determinate dalle reciproche situazioni dei vari elementi costituenti le coppie). Per applicare i principî ora esposti occorre caso per caso analizzare le resistenze passive tra le quali primeggia l'attrito: uno speciale studio è richiesto dall'attrito tra gli organi lubrificati, studio che vien fatto a proposito della lubrificazione (v.), dei rotoidi (v.), dei perni (v.) e delle viti (v.).
Altre cause di perdita di energia sono costituite dalla rigidezza e dall'elasticità degli organi flessibili delle trasmissioni e dalle resistenze dei mezzi (v. trasmissione; resistenza).
Le relative perdite di rendimento vengono valutate con applicazione dei principi sopra enunciati.
Esposti così i principî fondamentali per lo studio delle macchine a regime assoluto e periodico, passiamo ad accennare, in una visione sintetica e programmatica, altri problemi dinamici, con riferimento alle voci alle quali è riserbata apposita trattazione.
Enunciazione sintetica di altri argomenti e problemi della dinamica applicata alle macchine. - 1. Problemi relativi al moto vario. Frenatura. - Occorre spesso studiare le macchine nel loro moto vario, cioè senza regime né assoluto né periodico. Anche per le macchine che normalmente funzionano a regime, si può presentare il moto vario nella fase di avviamento (in cui il regime viene raggiunto, partendo dalla quiete), nella fase di arresto, e più in generale nel passaggio da un regime a un altro. Il principio meccanico più utile in questo studio è il teorema delle forze vive.
Lo studio della fase di avviamento ha principalmente gli scopi di determinare l'aumento di potenza motrice necessario a raggiungere il regime e di calcolare le forze d'inerzia che si sviluppano e gli aumenti delle varie azioni trasmettentisi tra gli organi, e quindi delle collecitazioni cimentanti i materiali di essi.
Anche più interessante per le concrete applicazioni è lo studio della fase di arresto, in quanto tale studio, oltre che alla determinazione di forze d'inerzia sollecitanti gli organi, conduce pure al calcolo di appropriate forze da applicare alla macchina per ostacolarne il moto e assorbirne l'energia cinetica che deve essere dissipata: tali sono le forze frenanti; la loro determinazione conduce poi al progetto di speciali meccanismi, capaci di svilupparle ed esercitarle, i quali si dicono freni.
2. Organi uniformatori del regime periodico. Altro argomento importantissimo riguarda lo studio di opportuni organi, capaci di uniformare il moto di una macchina a regime periodico. In una tale macchina (sistema materiale a un solo grado di libertà), si possono considerare i valori massimi e minimi che in un periodo assume la velocità di un dato punto (o la velocità angolare di un dato organo rotante): la differenza tra detti valori sarà lo scarto di velocità nel periodo. Il moto periodico si dovrà considerare tanto più uniforme quanto più piccolo sarà detto scarto di velocità, per il quale sarà opportuno caso per caso assegnare determinati limiti. Con ciò si è condotti a studiare e calcolare, per la macchina, un particolare organo capace di far sì che lo scarto di velocità nel periodo non oltrepassi il limite assegnato. Tale organo si dice volano o volante (v.).
Il suo calcolo si fa in base essenzialmente al già citato principio o teorema delle forze vive.
3. Meccanismi capaci di mantenere e ristabilire il regime periodico. - Già si è visto, nello studio delle forze operanti nelle macchine, che se una macchina si muove a regime periodico, il lavoro sviluppato dalla forza motrice in un periodo è uguale al lavoro assorbito nello stesso periodo da tutte le varie resistenze, utili o passive.
Se il regime viene turbato perché una qualche forza motrice o resistenza cambia di valore in modo da sviluppare o assorbire in un periodo lavoro diverso da quello che corrisponde al predetto primitivo regime, la macchina tende ad accelerare o a rallentare. Occorre perciò ristabilire un nuovo regime, con velocità possibilmente poco diverse da quelle corrispondenti al primitivo. A questo scopo sono stati studiati particolari meccanismi capaci d'influire sulla forza motrice o su una delle resistenze, in modo da ripristinare il bilancio dei lavori motori e resistenti in un periodo. Un siffatto meccanismo si dice regolatore (v.). I regolatori utilizzano in genere una forza d'inerzia, che può essere tangenziale (regolatori d'inerzia) o centrifuga (regolatori centrifughi).
4. Equilibramento delle masse alterne e delle masse rotanti. - a) Talune macchine a regime periodico posseggono delle masse dotate di moto alterno. Tali masse durante il moto sviluppano delle forze d'inerzia, pure alterne, le quali, attraverso ad altri organi, si trasmettono all'incastellatura (ponte) della macchina e producono in essa dannosi scotimenti. Occorre studiare opportuni provvedimenti costruttivi nel progetto della macchina, perché le forze alterne sviluppate dalle varie masse si facciano complessivamente equilibrio. Questo studio costituisce l'equilibramento delle masse alterne.
Non sempre è possibile equilibrare completamente ed esattamente le masse e le forze d'inerzia alterne di una macchina. In tal caso lo studio dinamico relativo serve a determinare le azioni alterne trasmesse ai basamenti, alle fondazioni delle macchine, e alle costruzioni edili o stradali, alle quali è collegata. In particolare interessa lo studio delle azioni alterne trasmesse da una locomotiva o da un locomotore ferroviario all'armamento e ai ponti che sostengono il binario. Questo argomento si riconnette con quello delle sollecitazioni dinamiche (v. locomotiva; ponte).
b) Talora poi in una macchina si ha una cospicua massa rotante intorno a un suo asse principale d'inerzia, di modo che le forze centrifughe sviluppate dai suoi varî elementi si facciano complessivamente equilibrio. Però può accadere che, per inevitabili difetti di costruzione o di montaggio, la massa rotante presenti delle forze centrifughe non equilibrate (libere), le quali perciò possono provocare nei supporti, nei basamenti e nelle fondazioni della macchina scotimenti dannosi e talora pericolosi. Il fatto qui descritto si può verificare per i rotori delle macchine elettriche, delle pompe centrifughe, dei ventilatori, e delle turbine idrauliche e a vapore, per le eliche marine o aeree, ecc.: il fenomeno presenta particolare importanza per le macchine installate a bordo delle navi, ove l'elasticità dello scafo può consentire la produzione e la trasmissione di preoccupanti oscillazioni e vibrazioni. Occorre perciò provvedere a equilibrare completamente la massa rotante, ovviando con opportune correzioni agli eventuali difetti. Si procede pertanto ad appropriati esperimenti, facendo rotare la massa, preventivamente montata su appositi supporti vincolati elasticamente, e perciò liberi di assumere moto oscillatorio sotto l'azione delle forze a essi trasmesse dalla massa, come effetto dei suoi squilibrî; si studia poi sperimentalmente il moto oscillatorio assunto dai supporti (e dalla massa su essi montata); essenziale è la misura della fase di tale moto oscillatorio, misura che si può compiere p. es. col fasometro stroboscopico (v. fasometro). Dallo studio sperimentale del predetto moto oscillatorio, con opportuni calcoli (basati sulla teoria delle oscillazioni forzate; v. dinamica), si deducono posizioni e grandezze di convenienti piccole masse addizionali di correzione, che si devono stabilmente collegare alla massa rotante, per renderla perfettamente equilibrata, sì che essa, rotando, non provochi nei suddetti supporti, elasticamente vincolati, alcun moto oscillatorio.
Il problema dinamico è leggermente più complicato nel caso di un'elica aerea a due pale, in quanto essa ha un ellissoide d'inerzia a tre assi, mentre quello delle altre masse rotanti sopra citate è di rivoluzione intorno all'asse della rotazione.
Lo studio teorico-sperimentale qui accennato costituisce l'equilibramento delle masse rotanti.
5. Applicazioni tecniche del giroscopio. - Altro notevole argomento della dinamica applicata è costituito dalle applicazioni pratiche dei fenomeni giroscopici (v. dinamica). Esse sono essenzialmente: la bussola giroscopica (v. bussola); l'apparecchio stabilizzatore di direzione (o di rotta) per i siluri (v. subacquee, armi); lo stabilizzatore del moto di rollio delle navi (v. stabilizzatore).
6. Misura sperimentale del lavoro meccanico e della potenza. - Si tratta di un complesso di apparecchi e di metodi destinati a misurare la coppia motrice o lo sforzo motore sviluppati da una macchina motrice, ovvero sopportati e trasportati da una trasmissione, ovvero ancora assorbiti da una macchina operatrice. È ovvio che si passa poi facilmente a calcolare la potenza, misurando in pari tempo la velocità rotatoria o traslatoria dell'organo su cui agisce rispettivamente la coppia o la forza prima misurata.
La velocità si misura con apparecchi detti tachimetri (v.); la velocità di rotazione (angolare) si può pure misurare con i contagiri misurando simultaneamente il tempo col contasecondi.
Le coppie motrici o resistenti, e gli sforzi di trazione (p. es. nei veicoli) si misurano con apparecchi che complessivamente si chiamano dinamometri (v.).