Dinamica economica
Secondo una definizione classica, un sistema economico dinamico comprende relazioni il cui andamento nel tempo è determinato da equazioni le cui rispettive incognite sono esse stesse funzioni (equazioni funzionali) e in cui il tempo è argomento essenziale delle funzioni da determinare (Frisch 1935-1936, p. 100; Samuelson 1947, pp. 311-17; Gandolfo 1980, p. 2). La dinamica economica pura studia l’andamento nel tempo di un sistema economico descritto da un dato sistema di equazioni funzionali. Il passaggio da un sistema di equazioni funzionali all’altro determina un cambiamento di regime dinamico (cambiamento nella struttura formale del modello) e può riflettere modifiche nelle relazioni fra componenti (subsistemi) del sistema economico considerato, dando luogo a una traiettoria di dinamica economica strutturale. Questo saggio propone una ricostruzione del contributo degli economisti italiani allo studio della dinamica economica secondo la distinzione sopra delineata.
L’economia politica trae origine dallo studio dei processi di trasformazione lungo traiettorie di sviluppo: «secondo i mercantilisti il problema economico centrale è come dare avvio ad un processo di sviluppo attraverso appropriate politiche economiche» (Lombardini 1996, p. 1). Nel corso del 18° sec. si consolida la distinzione fra politiche di sviluppo fondate sul carattere spontaneo dell’ordine economico e politiche di sviluppo capaci di generare progresso attraverso interventi specifici dello Stato o di altri attori rilevanti (Lombardini 1996, pp. 1-2).
Progresso e declino della ricchezza delle nazioni sono al centro delle riflessioni di studiosi alle origini dell’economia politica italiana, come Antonio Serra, Paolo Mattia Doria, Antonio Genovesi, Giammaria Ortes e Cesare Beccaria. Questi economisti prestano particolare attenzione alle interdipendenze fra sviluppo e sottosviluppo quando si considera l’alternanza tra fasi di progresso e fasi di declino.
Caratteristica del Breve trattato (1613) di Serra è l’idea che la collocazione di un sistema economico nella configurazione internazionale degli scambi tra risorse non prodotte (o limitatamente riproducibili) e beni prodotti sia di importanza fondamentale nel determinare la condizione dinamica di quel sistema nel lungo periodo. In questa prospettiva il confronto tra Regno di Napoli e Repubblica di Venezia assume carattere paradigmatico.
I limiti alla crescita di un sistema economico che dipenda dall’esportazione di prodotti agricoli, e sia quindi frenato dai rendimenti decrescenti generati dalla limitata disponibilità di terre fertili (Napoli), sono messi a confronto con le opportunità presenti in un sistema sostenuto dall’esportazione di manufatti e dai rendimenti crescenti generati da processi cumulativi di divisione del lavoro ed espansione dei mercati interni (Venezia). Secondo Serra, la prevalenza di rendimenti decrescenti oppure crescenti dipende dall’unità di indagine considerata e può essere modificata da cambiamenti nella configurazione degli scambi fra aree geografiche.
La connessione tra sviluppo delle manifatture e struttura degli scambi internazionali rimane centrale nelle ricerche di Paolo Mattia Doria sul commercio nel Regno di Napoli (Del commercio del Regno di Napoli, ms. 1740). Doria esamina la collocazione del Regno di Napoli nei flussi del commercio fra aree continentali (in particolare fra America e Asia) e conferma la tesi di Serra sulla centralità di manifatture e rendimenti crescenti nel progresso della ricchezza. Il contributo di Antonio Genovesi (Delle lezioni di commercio, o sia di economia civile, 1765) appartiene a questa linea di considerazioni, anche se la valutazione delle possibilità di sviluppo di un sistema economico periferico è modificata, rispetto a Serra, per effetto della raggiunta indipendenza delle regioni meridionali d’Italia con il regno di Carlo di Borbone (1734). Genovesi unisce all’attenzione per le condizioni tecnologiche, istituzionali e culturali di crescita della ricchezza un forte interesse per le asimmetrie fra sistemi economici in un contesto di commercio globale caratterizzato dall’interdipendenza fra sistemi. Significativo, sotto questo profilo, è il lavoro editoriale svolto da Genovesi per l’edizione italiana della History of English trade (1757) di John Cary, in cui alla traduzione e commento del saggio di Cary sono unite Annotazioni riguardanti l’economia del nostro Regno dello stesso Genovesi. In questo caso infatti l’analisi originaria di Cary sul ruolo attivo degli interventi politici nell’assicurare il vantaggio competitivo del «commercio inglese» viene integrata dall’analisi del ruolo compensativo degli interventi di protezione commerciale nel conseguire condizioni favorevoli allo sviluppo delle manifatture in sistemi periferici (si veda Reinert 2011).
Economisti dell’Italia settentrionale come Ortes, Beccaria e Pietro Verri partono da un punto di vista diverso: alla politica economica si assegna un ruolo decisivo nel rimuovere ostacoli piuttosto che nel promuovere direttamente il progresso della ricchezza.
Il saggio Della economia nazionale (1774) di Ortes considera la dinamica della ricchezza dal punto di vista dei vincoli complessivi dovuti al carattere statico delle risorse disponibili e delle esigenze che queste risorse potrebbero soddisfare. Secondo Ortes esiste un limite superiore all’incremento di ricchezza determinato, per ciascun sistema economico, da gusti e abitudini consolidate. Questo limite superiore può rallentare i processi di cambiamento strutturale necessari allo sviluppo della divisione del lavoro e determinare in alcuni casi il blocco del processo di crescita. In questa prospettiva, le decisioni di politica economica hanno l’obiettivo di rallentare il declino piuttosto che promuovere il progresso.
Beccaria (Elementi di economia pubblica, 1769) e Verri (Della economia politica, 1771) considerano invece i processi cumulativi determinati dall’interdipendenza fra divisione del lavoro, estensione dei commerci e miglioramento delle conoscenze tecniche. Beccaria individua i principi fondamentali della divisione del lavoro nelle connessioni sociali intese come aspetto ineliminabile della condizione umana. Verri muove dalla ricostruzione dei processi produttivi come espressione della propensione umana ad «accostare e separare» (Della economia politica, cit., in Id., Del piacere e del dolore ed altri scritti, 1964, p. 135) e spiega su questa base sia i vantaggi della divisione del lavoro sia i suoi progressi nelle diverse attività produttive.
I diversi punti di partenza di Beccaria e Verri spiegano le differenze fra i due economisti in merito al collegamento fra divisione del lavoro e dinamica della ricchezza. In Beccaria (come in Smith) sono fondamentali le differenze fra grandi settori produttivi (in particolare agricoltura e manifatture) per quanto riguarda le possibilità di approfondimento della divisione del lavoro all’interno di ciascun settore. Verri adotta un punto di vista in parte dissimile, soprattutto per l’attenzione rivolta alle capacità di connessione degli agenti economici piuttosto che alle caratteristiche materiali dei processi.
Ai contributi classici del pensiero economico italiano in tema di divisione del lavoro e sviluppo economico si collegano direttamente sotto il profilo tematico i recenti lavori di Paolo Sylos Labini (1961, 1984, 1992, 2004). In essi si richiama l’attenzione sulla relazione fra rendimenti crescenti generati dalla crescente divisione del lavoro in presenza di una crescente estensione dei mercati («effetto Smith») e gli aumenti di produttività indotti dalla sostituzione di macchine a lavoro, in presenza di maggiori costi relativi del lavoro per il maggiore costo di produzione delle sussistenze in condizioni di risorse limitate e rendimenti decrescenti («effetto Ricardo») (P. Sylos Labini, Torniamo ai classici, 2004, pp. 18-19).
Dopo il periodo classico, gli anni di nascita e affermazione del marginalismo sono una fase di particolare rilievo nella storia del pensiero economico italiano. In questo contesto diversi economisti, a cominciare da Maffeo Pantaleoni e Vilfredo Pareto, si pongono il problema della dinamica economica e delle sue relazioni con la teoria delle scelte razionali. Pantaleoni mette a punto la distinzione fra due generi di fenomeni dinamici, di cui il primo è collegato alla dinamica pura e il secondo alla dinamica strutturale (come descritte sopra):
I fenomeni dinamici sono di due generi mettendo da una parte, con il nome di primo genere, quelli che riconducono a una posizione qualsiasi di equilibrio e da un’altra parte, con il nome di fenomeni di secondo genere, quelli che non riconducono a una posizione di equilibrio a noi visibile, o da noi prevedibile quale effetto degli stessi fenomeni dinamici (Di alcuni fenomeni di dinamica economica [1909], in Id., Erotemi di economia, 1925, p. 77).
Pareto riconduce i fenomeni dinamici a cambiamenti nella dotazione di risorse e struttura delle preferenze degli agenti (rispettivamente ‘gusti’ e ‘ostacoli’) ma riconosce esplicitamente i limiti delle ricerche esistenti:
La teoria della statica è maggiormente progredita; pochissimi e scarsi cenni si hanno della teoria degli equilibri successivi; eccetto una teoria speciale, cioè quella delle crisi economiche, niente si sa della teoria dinamica (Manuale di economia politica, 1906, p. 144).
I contributi di Pantaleoni e Pareto sono all’origine di due distinti punti di vista nello studio dei processi dinamici. Le indagini di Pantaleoni sono collegate a una linea di ricerca che si sviluppa nel corso del 20° sec. e che trova un momento saliente nei contributi di Gustavo del Vecchio. Caratteristica di del Vecchio è la convinzione che il passaggio all’analisi dinamica richieda il superamento delle semplificazioni alla base dei sistemi teorici.
Viene così introdotta la distinzione tra fenomeni allocativi, che possono essere studiati rimanendo all’interno dell’analisi statica, e fenomeni distributivi che richiedono la considerazione di fattori sociologici e politici estranei a quella logica. In questo modo la ‘costruzione scientifica’ della dinamica economica avvicina del Vecchio a Schumpeter, come appare dal convincimento che
il problema che si pone consiste non nello spiegare come sorgano certe variazioni e certi movimenti in uno stato economico, quanto nello spiegare come nel continuo fluire del sistema sociale si producano dei rapporti economici abbastanza regolari attraverso il tempo: i fenomeni statici costituiscono solo casi-limite di problemi dinamici (G. del Vecchio, La costruzione scientifica della dinamica economica [1952], in Id., Capitale e interesse, 1956, p. 404).
Le ricerche di Pareto sui cambiamenti nelle configurazioni di equilibrio economico generale collegate a modifiche nelle dotazioni di risorse (‘ostacoli’) e nella struttura delle preferenze (‘gusti’) sono all’origine di studi che prendono in esame i corrispondenti processi di aggiustamento intertemporale.
In questa tradizione si collocano le Lezioni di economia matematica (1921) di Luigi Amoroso. Questa ricerca parte dalla considerazione del sistema paretiano e studia la possibilità di una sua estensione dinamica individuando nell’abitudine un principio corrispondente alla legge di inerzia nella meccanica razionale.
Nella successiva Meccanica economica (1942), Amoroso individua in ereditarietà e speculazione i principali fattori di inerzia del sistema economico: la prima attraverso il prolungamento intergenerazionale dell’effetto di impulso, la seconda mediante l’estensione intertemporale indotta da aspettative e mercati futuri. In entrambi i casi Amoroso ritiene possibile esprimere il fattore di inerzia in forma matematica considerando l’accelerazione dei flussi di produzione e consumo al tempo t.
Importanti sviluppi di questa linea di ricerca si devono a Giulio La Volpe (1909-1996) e Giuseppe Palomba (1908-1986). La Volpe prende in esame sentieri dinamici costruiti a partire dall’ipotesi che il sistema economico sia sottoposto a cambiamenti («fattori di dinamismo») da cui derivano «le variazioni che le incognite economiche subiscono nel corso di un intervallo di tempo» (Ricerche di dinamica economica corporativa, 1938, p. 81). Questo punto di vista, per alcuni aspetti simile al metodo degli equilibri temporanei sviluppato quasi contemporaneamente da John Hicks in Value and capital. An inquiry into some fundamental principles of economic theory (1939), conduce all’individuazione di strutture intertemporali di vincoli, e alla determinazione di «equilibri temporanei» di quantità e prezzi in cui le configurazioni di equilibrio risultano circoscritte a intervalli temporali specifici.
In particolare, La Volpe distingue gli effetti di cambiamenti che intervengono nel passaggio da un periodo all’altro rispetto agli effetti di cambiamenti che derivano da «connessioni intertemporali» (come nel caso di cambiamenti ereditari e cumulativi, così come di cambiamenti attesi). Risultati importanti delle ricerche di La Volpe sono il superamento del concetto di equilibrio dinamico stazionario e la concezione della dinamica economica come processo generato dall’operare pressoché ininterrotto delle variazioni esogene (cfr. anche G. La Volpe, 1993 (I ed. 1936); di Matteo 1993; Morishima 1993).
Palomba segue un punto di vista diverso. Anziché esaminare in che modo fattori esogeni (e in parte cumulativi) di dinamismo incidono sulle configurazioni di equilibrio temporaneo in ciascun periodo, Palomba colloca al centro della sua analisi
il rapporto fra il numero delle maniere secondo cui ν unità di beni strumentali possono ripartirsi fra le n imprese e il numero delle maniere secondo cui μ unità di beni diretti e strumentali insieme possono ripartirsi fra le stesse n imprese (μ >ν ) (Introduzione allo studio della dinamica economica, 1939, p. 79).
Questo rapporto è considerato misura del grado di complessità dell’equilibrio economico ed è interpretato come
espressione della probabilità che un’impresa qualsiasi, scelta a caso, sia produttrice di beni strumentali, ammesso che ciascuna impresa produca solo beni diretti o solo beni strumentali; ovvero come espressione della proporzione più probabile del volume di beni strumentali rispetto al volume complessivo prodotto da ciascuna impresa, ammesso che ciascuna impresa […] possa produrre – promiscuamente – le due specie di beni (pp. 81-82).
Su queste premesse Palomba costruisce una teoria della trasmissione delle perturbazioni all’interno del sistema economico che distingue tra sequenze produttive più stabili e meno stabili e collega il massimo numero di possibili trasformazioni industriali («diversioni») ai «gradi intermedi di lavorazione»:
Mano a mano che [l’]unità di bene strumentale acquista consistenza e fisonomia la probabilità della diversione aumenta […] per raggiungere un certo massimo ed iniziare a decrescere in quel punto in cui la sua fisonomia è, sensibilmente, modellata sulla fisonomia propria al bene pronto per il consumo diretto di pertinenza del ciclo produttivo specifico in esame (p. 129).
In anni successivi, Giovanni Demaria (in Trattato di logica economica, 1970) sviluppa la distinzione di Pantaleoni fra due generi di dinamica e sostiene la necessità di distinguere tra fattori esogeni di cambiamento a carattere permanente e fattori esogeni di cambiamento a carattere contingente.
Fra i contributi più recenti alle ricerche dinamiche sugli equilibri generali, Pier Carlo Nicola (in Equilibrio generale imperfetto. Il sistema economico come processo evolutivo individualistico, discreto, deterministico, 1994) ha preso in considerazione le caratteristiche dell’equilibrio generale imperfetto inteso come configurazione di quantità e prezzi che assicura la compatibilità delle decisioni degli agenti economici «resa eventualmente possibile dal razionamento attuato individualmente» (p. 97). Aspetto importante del contributo di Nicola è l’esplicita distinzione tra «soluzione dinamica generata da una struttura permanente nel tempo» (Teoria (pura) della dinamica strutturale: verso un sistema unitario?, in Dinamica economica strutturale, 1990, p. 57) e cambiamenti nelle funzioni che generano lo stato dell’economia in ciascun periodo di tempo (dinamica strutturale).
Lo studio di processi dinamici suggerisce a un certo numero di economisti italiani la considerazione di sentieri di trasformazione, intesi come sequenze di stadi caratterizzate da una precisa legge interna di cambiamento. Queste traiettorie sono caratterizzate da adattamenti che possono avere luogo con diverse velocità per diversi settori produttivi e si sviluppano all’interno di orizzonti temporali di breve o di medio periodo.
La teoria delle crisi economiche formulata da Francesco Ferrara è esempio caratteristico di questo punto di vista. Secondo Ferrara è centrale nella spiegazione delle crisi il ruolo del credito, laddove lo stesso, anziché assicurare la coordinazione tra flussi temporali di produzione e consumo, accresce le asimmetrie operando in direzione opposta rispetto a quello che sarebbe il suo compito fisiologico.
Un esempio sarebbero le assegnazioni di credito alla produzione in presenza di un deficit di domanda per beni di consumo, oppure le assegnazioni di credito al consumo in presenza di un deficit nella produzione di quegli stessi beni (F. Ferrara, Delle crisi economiche, 1864; G. del Vecchio, Ritorni alla teoria ferrariana del credito [1930], in Id., Ricerche sopra la teoria generale della moneta, 1967; Perri 1980). Questa linea di ricerca attribuisce importanza centrale agli immobilizzi di capitale nelle strutture produttive (C. Supino, Il capitale fisso e le trasformazioni industriali, 1891), e dà luogo a indagini con un’importante componente storica ed empirica. A Guglielmo Masci si deve un ambizioso tentativo di collegare le trasformazioni industriali a processi di cambiamento organizzativo partendo dalla considerazione di possibilità e vincoli interni a ciascuna configurazione produttiva (1934). In particolare, Masci rivolge attenzione all’utilizzazione di macchine per la produzione di macchine, e quindi all’esistenza nel sistema economico di un “subsistema” di particolare rilievo per quanto riguarda le condizioni oggettive di crescita e cambiamento strutturale:
Caratteristica spiccata dell’industria contemporanea è [...] quella dell’enorme impiego di macchine, le quali hanno finito per acquistare un posto preponderante nella ripartizione del capitale d’impianto. Ora, per quanto concerne la produzione e l’offerta di questa specie fondamentale di capitale tecnico, le industrie metallurgiche e meccaniche si trovano in una posizione che ben può dirsi centrale rispetto ai vari rami in cui l’intero processo produttivo si scinde (Alcuni aspetti odierni dell’organizzazione e delle trasformazioni industriali, in Organizzazione industriale, 1934, p. 944).
La ragione della posizione centrale delle industrie metallurgiche e meccaniche si trova nel fatto che
le macchine e gli strumenti destinati a lavorare i metalli sono fatti a loro volta di metallo. E se sono di metallo, sono a loro volta ottenibili mercé macchine e strumenti capaci di lavorare i metalli: ossia sono adatti a riprodurre se stessi (p. 945).
Sul piano della configurazione strutturale del sistema economico si «determina quindi un dipartimento, che potremmo chiamare centrale» che
adempie al compito essenziale di riprodurre [...] quelle macchine stesse [...] È dunque questo dipartimento centrale che presenta la peculiare caratteristica di una identità qualitativa fra capitale tecnico e prodotto, fra macchine-strumenti e macchine-prodotti (p. 946).
Il subsistema manifatturiero delle macchine-utensili (in cui si realizza l’identità qualitativa fra macchine-strumenti e macchine-prodotti) svolge un ruolo centrale nei processi di trasformazione industriale e permette di determinare uno specifico «coefficiente di riproduttività» delle macchine:
Detto q1 l’ammontare del macchinario per la lavorazione dei metalli che si può produrre con una data quantità del macchinario stesso, detta q quest’ultima quantità, detto l il logoro di essa in un ciclo produttivo, il quoziente di riproduttività sarà espresso da:
(q − l) + q1 (p. 952).
_________
q
Il coefficiente di riproduttività di ciascun subsistema delle macchine utensili è, secondo Masci, di importanza centrale per quanto riguarda le possibilità di trasformazione di un apparato industriale. Infatti, da un lato il capitale tecnico (l’insieme di macchine in ciascuno stabilimento produttivo) «è sempre suscettibile di usi entro certi limiti alternativi» (p. 948); dall’altro lato il coefficiente di riproduttività del subsistema impone un vincolo all’insieme di trasformazioni che sono possibili partendo da una certa attrezzatura di macchine. Una conseguenza importante riguarda la relazione fra possibilità tecniche e capitale disponibile, e i vincoli che questa relazione introduce rispetto alle trasformazioni industriali:
Mentre l’ampliamento di una o più categorie industriali, ferma restando l’efficienza delle altre categorie (integrazione industriale), non è possibile senza la disponibilità di un nuovo capitale monetario che possa essere trasformato in capitale tecnico, la vera e propria trasformazione da industria a industria può anche avvenire senza la preventiva disponibilità di un certo ammontare di capitale monetario, perché questo può sempre ottenersi attraverso un processo di disintegrazione del capitale dalla forma tecnica rivestita nell’industria, da cui l’attività produttiva si ritira in tutto o in parte (p. 953).
Questo schema concettuale permette di individuare la possibilità di sentieri alternativi di trasformazione industriale a seconda delle configurazioni assunte dal sistema produttivo:
Resta sempre vero che la conversione di domanda fra due prodotti ottenibili con diversi macchinari, mette capo in definitiva ad un puro e semplice passaggio dall’uno all’altro modo d’impiego del macchinario-base comune. Ma quanto più questo gruppo di beni strumentali ultimi risulta tecnicamente lontano dai beni diretti, tanto più cresce (in difetto di una ipotetica, istantanea penetrazione del superficiale spostamento del consumo fino agli strati più profondi della gerarchia industriale) la durata del processo attraverso il quale siffatta originaria e superficiale fluttuazione, interessante il mercato dei prodotti finiti, riesce a provocare la necessaria trasformazione d’uso del macchinario-base comune (p. 954).
Masci mette in evidenza il collegamento tra struttura per fasi dei processi produttivi e andamenti dinamici generati da fenomeni di «conversione di domanda». La versatilità acquisita dai sistemi economici attraverso la gerarchizzazione dei processi e l’introduzione di un macchinario-base comune consente (entro limiti determinati per ciascun subsistema manifatturiero dal corrispondente coefficiente di riproduttività) cambiamenti strutturali che sarebbero altrimenti molto più difficili da realizzare (si veda anche M. Resta, Il capitale fisso e le trasformazioni industriali, 1938). Tuttavia la «trasformazione d’uso» del macchinario-base comune richiede la liquidazione delle attrezzature produttive utilizzate nelle fasi successive del processo di produzione, e quindi il passaggio del capitale disponibile dalla condizione di capitale tecnico a quella di capitale monetario. Questa liquidazione è condizione necessaria della successiva reintegrazione del capitale monetario nelle attrezzature produttive adatte alla nuova composizione della domanda finale.
Gli studi sulle trasformazioni industriali sono caratterizzati dall’attenzione per processi di natura sequenziale, la considerazione di specifici contesti storico-empirici, l’elaborazione di schemi teorici adatti alla loro ricostruzione analitica. In questa prospettiva, le ricerche di Masci sono tappa fondamentale di un percorso che parte da una precedente tradizione di ricerca (C. Supino, Il capitale fisso e le trasformazioni industriali, cit.; A. Fraccacreta, La trasformazione degli impieghi di intrapresa, 1919) e si sviluppa successivamente attraverso ricerche di semiteoria (L. Spaventa, Dualism in economic growth, 1959; L. Spaventa, Nuovi problemi di sviluppo economico, 1960), oppure spiccatamente teoriche (M. Amendola, Macchine, produttività, progresso tecnico, 1976; M. Amendola, J.-L. Gaffard, The innovative choice. An economic analysis of the dynamics of technology, 1988; M. Amendola, J.-L. Gaffard, Out of equilibrium, 1998; S. Zamagni, Ricardo and Hayek effects in a fixwage model of traverse, 1984).
Saggi di crescita differenziati dei diversi settori del sistema economico determinano condizioni di dinamica strutturale per il sistema economico nel suo complesso. A partire dalla seconda metà del Novecento un nucleo importante di contributi prende in esame traiettorie di dinamica strutturale in sistemi economici che si sviluppano nel lungo periodo sotto l’influenza di progresso tecnico e crescita demografica.
Negli anni Sessanta Luigi Pasinetti e Luigi Spaventa discutono le ipotesi dei modelli macroeconomici di crescita e mettono in evidenza il ruolo della modellistica disaggregata come strumento analitico più adeguato allo studio della dinamica economica effettiva. Poco dopo, Antonio Pedone sottolinea l’opportunità di introdurre la considerazione di sistemi decomponibili a saggio di profitto differenziato nello studio di sentieri di espansione con saggio di crescita della domanda pro capite (Appunti sull’introduzione della domanda in un modello generale di produzione, in Nuovi problemi di sviluppo economico, 1962). Il lavoro di costruzione teorica condotto da Pasinetti a partire dai primi anni Sessanta (A new theoretical approach to the problems of economic growth, 1965), e proseguito sino a oggi, si caratterizza per il collegamento di condizioni macroeconomiche (piena occupazione della forza lavoro e piena utilizzazione della capacità produttiva) con condizioni specifiche relative alla composizione settoriale della produzione e dell’occupazione.
Pasinetti parte dalla considerazione di un’economia di pura produzione, cioè di un sistema economico in cui sono assenti vincoli di scarsità. La dinamica effettiva di questo sistema riflette fenomeni di apprendimento da parte di consumatori e produttori, ed è caratterizzata dalla relazione fra incremento nel potere di acquisto pro capite ed evoluzione nella domanda pro capite per ciascun bene di consumo prodotto (legge di Engel). Al centro dello schema teorico è l’idea che
la dinamica strutturale del sistema economico tende inevitabilmente a generare quella che è stata giustamente chiamata la disoccupazione tecnologica. Nello stesso tempo, la medesima dinamica strutturale produce movimenti compensativi, che sono sì capaci di condurre la condizione macroeconomica [di piena occupazione] verso il suo soddisfacimento, ma non in modo automatico (Dinamica strutturale e sviluppo economico: un’indagine teorica sui mutamenti nella ricchezza delle nazioni [1981], 1984, p. 102).
In queste condizioni, secondo quanto sostiene Pasinetti,
non vi è nulla nell’evoluzione strutturale dei coefficienti tecnici da una parte e della domanda pro capite dall’altra che, in quanto tale, assicuri il soddisfacimento della condizione macroeconomica […] e cioè che assicuri il mantenimento della piena occupazione. Pertanto, se si vuole mantenere la piena occupazione nel tempo, essa dovrà essere attivamente perseguita come un obiettivo esplicito di politica economica (p. 102).
Elemento caratteristico della teoria della dinamica strutturale delineata da Pasinetti è quindi la distinzione fra la dinamica effettiva del sistema economico e il sentiero dinamico che il sistema dovrebbe seguire nel tempo perché sia soddisfatta la condizione macroeconomica di piena occupazione (dinamica naturale, nella terminologia di Pasinetti). Un sentiero economico in espansione rende evidenti alcune «caratteristiche naturali», che sono indipendenti dal particolare assetto istituzionale di quel sistema (pp. 143-44). Queste caratteristiche consistono in «una serie di movimenti strutturali» costituiti da
una struttura dei prezzi in evoluzione [...] una struttura della produzione in evoluzione [...] un andamento dinamico del salario unitario e del saggio, o dei saggi, di profitto (p. 144).
Lo studio delle condizioni di cambiamento strutturale necessarie perché un sistema economico con progresso tecnico possa espandersi mantenendo nel tempo la piena occupazione richiama l’attenzione sulla distinzione tra dinamica effettiva e dinamica naturale, e quindi sul fatto che requisiti fondamentali della dinamica strutturale dei sistemi economici sono indipendenti dagli assetti istituzionali di quei sistemi. Questo punto di vista, approfondito in elaborazioni successive (L.L. Pasinetti, Dinamica economica strutturale. Un’indagine teorica sulle conseguenze economiche dell’apprendimento umano, 1993, pp. 183-226), conduce infine alla formulazione di un teorema di separazione, secondo cui
una separazione è necessaria tra le indagini che riguardano le basi fondative delle relazioni economiche – che devono essere individuate a uno stadio strettamente essenziale – e le indagini che devono essere svolte a livello delle effettive istituzioni che in ogni specifico momento un particolare sistema economico si trova ad avere, o ad aver scelto di adottare, o sta cercando di adottare (Keynes e i Keynesiani di Cambridge. Una “rivoluzione in economia” da portare a compimento [2007], 2010, p. 245).
In questa prospettiva, le ricerche sulla dinamica strutturale trovano un importante collegamento con gli studi sulle dinamiche di formazione dei risparmio e di accumulazione del capitale in particolari assetti istituzionali (L.L. Pasinetti, The rate of profit and income distribution in relation to the rate of economic growth, cit.; M. Baranzini, A theory of wealth distribution and accumulation, 1991).
Alcuni punti di partenza dello schema teorico di dinamica strutturale elaborato da Pasinetti sono condivisi da altri economisti, che hanno individuato nel progresso tecnico e nella legge di Engel i principali fatti stilizzati della dinamica di lungo periodo dei sistemi economici moderni. In particolare, Paolo Leon ha sottolineato l’importanza di saggi di profitto differenziati da un settore all’altro e delle temporanee configurazioni monopolistiche a essi collegate, che sono viste come regolatrici del processo di sviluppo. Infatti, secondo Leon, è attraverso la ricorrente affermazione di monopoli settoriali che si può realizzare l’adeguamento di lungo periodo della struttura produttiva di un’economia capitalistica ai cambiamenti nella distribuzione degli incrementi di domanda fra diverse categorie di beni (P. Leon, Ipotesi sullo sviluppo dell’economia capitalistica, 1965; P. Leon, Structural change and growth in capitalism, 1967).
In una prospettiva diversa ma complementare, Terenzio Cozzi ha richiamato l’attenzione sulla distinzione tra le velocità di aggiustamento delle variabili strutturali (coefficienti di produzione e coefficienti di consumo) rispetto alle velocità di aggiustamento delle variabili congiunturali (livelli di produzione, occupazione e domanda). In particolare, Cozzi ha sottolineato il ruolo della politiche economiche di carattere settoriale per evitare strozzature e ritardi che non potrebbero essere superati esclusivamente attraverso politiche macroeconomiche (Sviluppo e stabilità dell’economia, 1969, p. 153).
Il passaggio dalla producibilità pura all’«antagonismo-coesistenza» fra producibilità e scarsità è al centro dei contributi di Alberto Quadrio Curzio, anche in collaborazione con Fausta Pellizzari, alla teoria della dinamica economica strutturale. Secondo Quadrio Curzio,
uno degli aspetti più nitidi della dinamica delle economie contemporanee, e non, è l’antagonismo-coesistenza tra mezzi di produzione (e merci) illimitatamente riproducibili e mezzi di produzione non riproducibili, o non riprodotti, in assoluto o per lunghi periodi di tempo (Accumulazione del capitale e rendita, 1975, p. 1).
In queste condizioni, passano in primo piano le interdipendenze fra processi produttivi sottoposti a restrizioni diverse per quanto riguarda l’utilizzazione di risorse scarse. In particolare, si manifesta la possibilità di dinamiche strutturali generate all’interno del sistema produttivo (formazione e assorbimento di residui a causa di cambiamenti nei vincoli di compatibilità fra processi). In questo modo diviene possibile una spiegazione in termini strutturali dei «reali processi dinamici», in cui «la mancanza di uniformità sembra essere la regola» (p. 3; A. Quadrio Curzio, R. Scazzieri, Profili di dinamica economica strutturale: introduzione, in Dinamica economica strutturale, 1990, pp. 23-29).
Non è facile individuare linee comuni all’interno di una tradizione analitica complessa quale quella delle ricerche italiane sulla dinamica economica. Resta il fatto che l’attenzione per i processi storici e per la loro ricostruzione analitica è elemento caratteristico al di là delle distinzioni fra programmi di ricerca. Questo emerge sia negli studi sulle trasformazioni industriali sia nelle ricerche sulla dinamica economica strutturale. Ma la stessa caratteristica si manifesta in modo evidente anche nelle ricerche sugli equilibri generali dinamici e sulle dinamiche dei sistemi complessi, dove irreversibilità, inerzia e causalità sequenziale sono considerate aspetti essenziali dei processi dinamici.
Più in generale, fenomeni di apprendimento e punti di resistenza definiscono le ricerche sulla dinamica economica e sono al centro dei contributi degli economisti italiani in questo ambito. In sintesi, gli studi sulla dinamica economica mostrano, nelle loro espressioni più caratteristiche, particolare attenzione per asimmetrie, ritardi e ordini di precedenza, e quindi per i vincoli strutturali ai quali sono sottoposti i sentieri di cambiamento nel tempo.
A. Serra, Breve trattato delle cause che possono fare abbondare li regni d’oro et d’argento, dove non sono miniere, con applicatione al regno di Napoli, Napoli 1613.
J. Cary, Storia del commercio della Gran Brettagna scritta da John Cary mercatante di Bristol, tradotta in nostra volgar lingua da Pietro Genovesi giureconsulto napoletano. Con un Ragionamento sul commercio in universale, e alcune annotazioni riguardanti l’economia del nostro regno. Di Antonio Genovesi, Napoli 1757.
A. Genovesi, Delle lezioni di commercio o sia di economia civile. Con elementi del commercio [1765], a cura di M.L. Perna, Napoli 2005.
C. Beccaria, Elementi di economia pubblica [1769], in Id., Opere, a cura di S. Romagnoli, Firenze 1958, pp. 383-649.
P. Verri, Della economia politica [1771], in Id., Del piacere e del dolore ed altri scritti, Milano 1964, pp. 125-260.
G. Ortes, Della economia nazionale parte prima libri sei, [Bologna] 1774.
F. Ferrara, Delle crisi economiche, Introduzione al 4° vol., serie II (Trattati speciali), Biblioteca dell’economista, Torino 1864.
C. Supino, Il capitale fisso e le trasformazioni industriali, Torino 1891.
V. Pareto, Manuale di economia politica, Milano 1906.
M. Pantaleoni, Di alcuni fenomeni di dinamica economica [1909], in Id., Erotemi di economia, 2° vol., Bari 1925, pp. 75-127.
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