Dinamiche linguistiche contemporanee
Immersi nel mondo della globalizzazione delle comunicazioni gli individui e i gruppi in cui si articola la specie umana conoscono oggi fenomeni che appaiono nuovi e sono effettivamente tali non tanto per la loro qualità intrinseca, ma piuttosto per l’intensità e generalità con cui investono molti aspetti della vita e in misura particolare l’attività verbale e il rapporto tra le lingue parlate da individui e gruppi (v. Arcangeli 2005). Le dinamiche linguistiche in atto nel mondo contemporaneo possono essere considerate da diversi punti di vista e con diversi criteri di valutazione.
Valore delle lingue per individui e comunità e loro equipotenza teorica
Un primo criterio è guardare ai fenomeni in atto dal punto di vista del riconoscimento oggettivo di ciò che soggettivamente per un individuo è una lingua, un qualunque idioma, sia esso una lingua ufficiale e letteraria, più o meno illustre, o sia un dialetto, magari isolato e tenuto socialmente in poco conto. Nell’apprendere e nel successivo usare la lingua materna, e cioè la lingua propria della famiglia e dell’ambiente in cui si è nati e si cresce (Lepschy 2002), gli esseri umani vivono e si formano intrecciando le loro esperienze con gli altri. Lo ricordava assai bene, all’inizio della sua autobiografia intellettuale, un grande scienziato del Novecento, Albert Einstein. La lingua grazie a cui si è appreso a orientarsi tra le persone e nel mondo non è un guanto, uno strumento usa e getta. Essa innerva dalle prime ore la vita psicologica, le emozioni, i ricordi, le associazioni e gli schemi mentali di cui si sostanziano conoscere e pensare. Essa apre le vie al condividere sentimenti, pulsioni, atteggiamenti con le altre persone che la parlano ed è dunque la trama della vita sociale e di relazione (De Mauro 2002). Essa è la trama, infine, dell’identità di una comunità e di un’intera nazione. Di questa, della nazione, che talora è stata considerata un’entità ‘immaginaria’, mitizzata se non mitica, il convergere dei suoi componenti verso l’uso di un medesimo patrimonio linguistico è l’aspetto di comunanza forse più coinvolgente ed effettivo, cosa non casualmente ricordata da tempi remoti in una lunga tradizione, in parte perfino lessicalizzata in quelle lingue che adoperano una medesima parola nel senso di ‘lingua’ e di ‘nazione’.
Fa parte dell’essere e funzionare di una lingua l’equilibrio tra quella che un grande linguista del Novecento, Ferdinand de Saussure, chiamò la force de intercourse, la forza di interscambio, che è la condizione che permette ai singoli di apprendere altre e nuove lingue, di trarne nuove parole, gli xenismi o forestierismi, aprendosi a nuove culture, e l’esprit de clocher, la forza di coesione con gli altri locutori della stessa lingua materna, che porta invece a escludere il nuovo e l’estraneo. Force de intercourse ed esprit de clocher, che appaiono operanti soprattutto sul piano collettivo, si incontrano e intrecciano con altri due principi profondi. Negli anni Trenta del Novecento li aveva individuati nella prospettiva della psicologia comportamentista George K. Zipf. Essi sono il principio di massimo impegno nell’individuazione, differenziazione e innovazione dell’esprimersi, perché questo più e meglio possa aderire al bisogno di dar corpo alla permanente novità dei contenuti di senso da veicolare, e il principio del minimo sforzo, dell’adagiarsi inerzialmente, nell’esprimersi, alla ripetizione del già detto. L’equilibrio tra questi due principi regge l’attività verbale dei singoli e, attraverso le innumeri interazioni individuali, determina i modi di innovare e conservare il patrimonio linguistico collettivo.
Come già si è accennato, ciò vale per ogni lingua, grande o piccola, illustre o di vita meramente municipale, di quelle che si dicono in francese patois e in italiano, dal Cinquecento, si sono dette dialetti. In effetti ogni lingua, illustre o no che sia, è un sistema linguistico, è cioè dotata di quelle caratteristiche semiotiche grazie a cui il suo campo noetico (il campo delle cose con essa dicibili e comprensibili) può espandersi indefinitamente. Tali sono la potenziale infinità delle frasi possibili; la variabilità e indeterminatezza dei sensi, cioè la dilatabilità e/o specificabilità dei sensi dei lessemi; l’introduzione di nuovi lessemi o secondo i meccanismi formativi previsti o per nuova accessione da prestiti ecc.; i bilanciamenti della indeterminatezza quali la grammaticalità, che collega e quasi ancora formalmente le frasi a determinati contesti, la metalinguisticità riflessiva, il ricorso ai fattori cosiddetti extrafunzionali, come lo sfruttamento del diverso valore che possono assumere gli enunciati in ragione del loro diverso inserimento nel co-testo, in scripts e infratesti consueti; l’intonazione degli enunciati e la gestualità di accompagnamento del parlato; il rapporto con il contesto situazionale, che, come il co-testo, funge da selezionatore di sensi diversi (De Mauro 2008b). Sotto questi profili, ogni lingua ha una pari potenza e dignità. Importando dalla teoria dei linguaggi logico-simbolici la nozione di ‘potenza’ di un linguaggio (che si è definita come capacità di costituirsi in metalinguaggio di altri linguaggi-oggetto ovvero come maggiore o minore estensione di ciò che è dicibile e comprensibile con un linguaggio), si può dire che tutte le lingue sono teoricamente equipotenti. Ogni lingua può descrivere ogni altra, diventarne il metalinguaggio. Ogni lingua è un sistema semiotico che può essere portato a tradurre in suoi testi il senso dei testi di ogni altra. Ogni lingua insomma, come osservò Søren Kierkegård, ci offre sempre mezzi per «lottare contro l’inesprimibile» (De Mauro 2005, p. 26).
Ma una lingua non è soltanto un sistema semiotico. O, meglio, è un sistema semiotico ‘sociale’ (se-condo la definizione propugnata e valorizzata dal linguista Michael A.K. Halliday), è cioè un sistema siffatto da includere in sé, come elementi funzionali, formalmente rilevanti, la masse parlante e il temps, ossia la rete dei rapporti sociopragmatici e storico-culturali entro cui, secondo il grande e spesso sottaciuto insegnamento di Saussure, essa si colloca e vive. Chi rammenta la lezione saussuriana ha la possibilità di riconoscere che nella pari potenzialità semiotica le lingue differiscono a seconda della tradizione storica e di altri fattori esterni in cui sono implicate.
Le lingue in rapporto alla consistenza demografica delle comunità dei locutori
È dunque e anzitutto ben legittimo considerare su piani diversi lingue che ci si presentano senza tradizione scritta e soltanto parlate da poche migliaia di locutori nativi e lingue che permeano di sé, spesso da secoli, la vita e la memoria storica di grandi popolazioni. Vengono così in primo piano anzitutto i dati della massa demografica dei locutori. Le lingue attualmente usate nel mondo sono circa settemila (Ethnologue, 200515). Considerando complessivamente la massa demografica dei locutori nativi emerge una grande differenza tra le quantità di parlanti in rapporto alla media generale. Sono 347 (circa il 5%) le lingue che hanno almeno un milione di parlanti nativi e i parlanti di tali lingue costituiscono il 94% della popolazione umana. Per contro il 95% delle lingue è parlato dal 6% degli umani. Si veda a tale proposito il quadro di sintesi presentato nella tabella.
Grazie alla tabella possiamo considerare le quasi settemila lingue del mondo secondo un criterio demografico. Sono 1239, parecchio meno di un sesto del totale, le lingue usate da almeno centomila persone. Per contro 3894 lingue, assai più della metà, sono usate da gruppi demografici inferiori a diecimila locutori, oltre ottocento usate da poche decine di persone. Fra le 1239 soltanto 347 sono parlate ciascuna da più di un milione di persone e solo 83 da più di dieci milioni.
Dove la base demografica è fragile, sia le interazioni a distanza sia le spoliazioni e devastazioni indotte dalla speculazione globalizzante proprio in aree come la foresta amazzonica o l’Africa equatoriale in cui si concentrano lingue con popolazioni native di piccola consistenza, è comprensibile che si profili o si realizzi il rischio di dispersione e scomparsa di piccoli gruppi o di loro riassorbimento anche linguistico in gruppi maggioritari, ciò che si dice la ‘morte’ delle rispettive lingue, fenomeno che ha attirato recentemente notevole attenzione (Wurm 1996; Hagège 2000; Nettle, Romaine 2000; Crystal 2000; Language diversity, 2007; Swiggers 2007; Tekavčič 2007). Secondo Ethnologue (200515, p. 8) sono 497 le lingue quasi estinte perché parlate da comunità inferiori a 50 locutori o da frazioni trascurabili di comunità maggiori d’altra lingua.
Le lingue in rapporto alla storia e alle qualità culturali delle comunità
La dimensione quantitativa della massa dei locutori non è l’unico punto di vista dal quale si debbano considerare le dinamiche linguistiche, la forza maggiore o minore dell’uso di un idioma. Nel prendere in esame le dinamiche linguistiche si impone un terzo punto di vista: quello degli usi diversificati che di una lingua possono essere fatti a seconda della differente storia e cultura dei popoli.
Un fattore importante, una sorta di precondizione per l’appropriazione più profonda e stabile di un idioma attraverso la lettura e l’informazione, è l’ancoraggio di una lingua a una tradizione scritta. L’esistenza di una tradizione scritta incide fortemente sulla persistenza dell’uso di una lingua alla condizione ulteriore che esso si accompagni a gruppi relativamente consistenti di utenti che pratichino la lettoscrittura. Consideriamo a esempio una serie di casi storici: l’antico sumerico per millenni, dopo l’estinzione dell’uso parlato nativo, è sopravvissuto come lingua puramente scritta per la redazione di testi significativi in ambito accadico e babilonese; il sanscrito, anche se è tuttora nativo come lingua parlata per una minuscola percentuale di indiani, è in uso tuttora e da due millenni soprattutto come lingua scritta e colta di ambito religioso, letterario e intellettuale; il latino, dal 5° o 6° sec. d.C. non più parlato fuori di contesti rituali e talora universitari, è sopravvissuto per oltre un millennio come lingua ufficiale scritta delle amministrazioni e lingua di cultura delle professioni intellettuali in larga parte dell’Europa medievale fino ai primordi dell’età moderna; in Palestina, poi in Israele, l’ebraico, sopravvissuto come lingua speciale religiosa essenzialmente letta e scritta, partendo da ciò ha potuto tornare a essere lingua usata in ogni funzione nello scritto e nel parlato; dopo la Rivoluzione d’ottobre in Unione Sovietica, la politica linguistica di quel Paese a favore delle lingue minori diverse dal russo e un complementare immane e rapido processo di alfabetizzazione sia dei russofoni sia di popolazioni eteroglosse anteriormente analfabete hanno prodotto il passaggio alla scrittura e lettura e il conseguente salvataggio di decine di lingue; l’esperanto, lingua artificiale essenzialmente scritta, deve appunto alla scrittura il suo relativo successo per la comunicazione tra molti diversi Paesi del mondo. Questi casi attestano l’importanza che il legame con la scrittura e la lettura, anche in casi di una fragile base demografica di locutori nativi, ha per la persistenza di una lingua nel tempo.
Fino a trent’anni fa, delle settemila lingue, solo 750 circa avevano una tradizione scritta. Sono diventate oltre 2400. Si tratta in molti casi di traduzioni del Vangelo e dell’Antico Testamento, i due testi più diffusi nel mondo, promosse dalle confessioni cristiane, specie dalla Chiesa cattolica. Il passaggio alla scrittura in diverse aree afroamericane è stato accompagnato da notevoli sforzi di alfabetizzazione e molteplici esperienze dicono che il processo ha avuto successo soprattutto dove l’alfabetizzazione primaria si è svolta e tuttora si svolge non nelle lingue veicolari maggioritarie, molto spesso importate dalla colonizzazione di secoli anteriori, ma nelle lingue locali, un dato che era ben presente alla riflessione linguistico-educativa italiana (da Graziadio Isaia Ascoli a Giuseppe Lombardo Radice e Giacomo Devoto), ma che proprio nelle istituzioni scolastiche italiane è stato a lungo disatteso per un intero secolo all’indomani dell’unificazione politica del Paese (GISCEL 2007).
Il recente passaggio di molte comunità alla lettoscrittura nella loro lingua nativa è interessante da almeno due punti di vista. Quasi due terzi delle lingue sono ancorate ancor oggi unicamente alla trasmissione solo parlata. Anche per questo esse sono più esposte al rischio di essere travolte dal divenire storico e sociale, come è avvenuto innumerevoli volte nella storia linguistica dei popoli in aree ed età debolmente o per niente alfabetizzate. L’area italiana, per es., fin dall’antichità è un cimitero di idiomi di cui conosciamo l’esistenza e anche rare testimonianze scritte, ma che erano usati soprattutto oralmente e sono scomparsi: idiomi liguri, gallici, carnici, venetici, piceni, etruschi, umbri, sabini, osci, messapici, sicani, siculi, punici, sardi e, nell’età cristiana, gotici e longobardi. Il fatto che negli ultimi decenni sia cresciuto fino a triplicarsi il numero di lingue per le quali è maturato il bisogno di ancorare la loro trasmissione alla scrittura ne consolida significativamente la persistenza e fa emergere un duplice aspetto delle dinamiche in atto: da un lato si avverte il rischio di scomparsa nel mondo globalizzato, dall’altro operano sia il riconoscimento dall’esterno della rilevanza di gruppi linguistici anche minori (traduzioni di testi sacri cristiani), sia la volontà endogena di rafforzamento identitario. I fatti non depongono a favore di quanti paventano o auspicano l’avvento di un indistinto, omologato melting pot linguistico planetario. Del resto ciò è ostacolato anche dalla vitalità di numerose e diverse grandi lingue internazionali che si affermano oltre i confini nativi nella comunicazione anche orale, ma in misura rilevante scritta e attraverso Internet.
Le grandi lingue internazionali
Tra le 83 lingue parlate da oltre 10 milioni di persone troviamo le grandi lingue internazionali. Di esse alcune sono usate in una pluralità di Stati sia come prima lingua nativa parlata e scritta, sia come abituale lingua seconda di servizio, in forma anche parlata, in amministrazioni, informazione, scuola, uffici. Sono queste le lingue che, come fu proposto da Claude Truchot nel 1990, diciamo transglossiche: lingue internazionali naturalizzatesi come seconda prima lingua, talora in parte perfino nativizzata, in aree linguistiche diverse da quella inizialmente nativa e tutte dotate di grande prestigio (Mioni, in Atti del IV Congresso di studi dell’Associazione italiana di linguistica applicata, 2005). Primeggiano tra di esse l’arabo classico, il cinese mandarino, il francese, l’inglese britannico e americano, il portoghese, il russo, lo spagnolo. A queste, per la sua peculiare diffusione come lingua franca e lingua seconda in molti Paesi africani, può aggiungersi lo swahili. Ecco qualche maggiore dettaglio:
a) l’arabo standard, lingua nazionale ufficiale in Arabia Saudita e altri Paesi islamici, modernizzazione dell’arabo classico (coranico), si stima sia usato, insieme alle varietà di arabo parlato (e scritto) regionale, non sempre intercomprensibili salvo le risalite verso lo standard classico (alcune, come la varietà damascena o egiziana, dotate di grande prestigio), da circa 246 milioni di persone in Siria, Palestina, Egitto, Libia, Algeria, Tunisia, Marocco e in altri venti Paesi, concentrati tra Medio Oriente e Nord Africa, e vede aprirsi nuove prospettive per la presenza di ragguardevoli nuclei di immigrati arabofoni nei Paesi europei;
b) il cinese mandarino, oltre che nella Repubblica Cinese e a Taiwan, è parlato da nativi in altri 15 Stati cui, anche in questo caso, vanno aggiunti i gruppi sinofoni immigrati negli Stati Uniti e, negli ultimi decenni, in Europa;
c) il francese, oltre che in Francia, Belgio e Svizzera, è usato da nativi, per es. nel Québec (con spiccata autonomia conservativa), o come lingua seconda, spesso ufficializzata, in altri 53 Paesi e resiste, pur soverchiato dall’uso dell’inglese, come lingua delle relazioni internazionali in Europa;
d) l’inglese, nelle due principali varianti di British e American english, è parlato come lingua nazionale nativa nel Regno Unito e in Irlanda, negli Stati Uniti e in Canada, nella Repubblica Sudafricana, Australia, Nuova Zelanda e Malta, da circa 380 milioni di persone, e come lingua seconda, spesso ufficializzata, in altri 110 Paesi circa, tra cui, per la massa demografica degli anglofoni, spicca l’Unione Indiana (v. oltre La crisi del monolitismo linguistico);
e) l’italiano, parlato ora come prima lingua nativa da circa la metà della popolazione e come lingua seconda da un altro 45%, è usato come lingua ufficiale o nazionale in Svizzera, San Marino, Città del Vaticano, e come lingua riconosciuta o usata da nuclei di emigrati in altri venticinque Paesi e deve le sue persistenti fortune a diversi fattori tradizionali come lingua speciale della musica, del canto lirico, delle arti, sia al suo uso come lingua di comunicazione sopranazionale per il clero cattolico, sia, infine, all’interesse economico per il persistente cospicuo prodotto interno lordo (Italiano 2000, 2002);
f) il portoghese è usato in Portogallo (10 milioni circa), in Brasile (180 milioni circa), nella variante brasiliana, influente anche in altre aree, Angola, Namibia, Mozambico, e in altri 29 Paesi;
g) il russo, oltre che nella Russia europea e asiatica, è parlato in altri 30 Paesi ed è lingua seconda in Russia e nei territori dell’ex Unione Sovietica;
h) lo spagnolo (castigliano), oltre che in Spagna, accanto ad altre lingue nazionali (basco, catalano, allego), è usato come lingua nativa o nazionale in altri 44 Paesi raggiungendo un numero di circa trecento milioni di locutori, con accentuate caratteristiche autonome delle varietà latinoamericane;
i) il tedesco viene usato come lingua nativa e nazionale in Germania, Austria, Svizzera, Lussemburgo, Liechtenstein; come lingua di minoranza ufficialmente riconosciuta in Italia, Belgio, Danimarca, e da gruppi anche di nativi in altri 33 Paesi, specialmente nell’ambito dell’Est europeo.
Senza che siano parlate nativamente o come lingue transglossiche in più Stati, vanno ricordate lingue che hanno una grande base demografica, come bengali, hindi e urdu in India, e/o un imponente insediamento sia a livello demografico, sia nella vita economico-produttiva, intellettuale, scientifica, artistica internazionale come, per es., il giapponese.
Ecco dunque un altro aspetto saliente della dinamica linguistica d’oggi: sono molte le grandi lingue transglossiche e molte le lingue di forte base demografica e valenza culturale, tutte sorrette da una grande volontà identitaria delle rispettive comunità.
Incroci e differenziazioni consolidate o incipienti: esiste ancora ‘un’ inglese?
Con il loro stesso esistere in Paesi diversi e lontani, spesso sovrapponendosi in qualità di lingue seconde a differenti idiomi nativi, le grandi lingue transglossiche vedono attenuarsi la forza di coesione di un unico e stesso esprit de clocher. Già si è accennato alle varianti areali di arabo, francese, portoghese, spagnolo. Proprio a proposito dello spagnolo della madrepatria linguistica europea e dello spagnolo argentino, lo scrittore argentino Jorge Luis Borges rivolgeva un amabile paradosso ai suoi connazionali e ai castigliani di Spagna: «Ci unisce l’Oceano, ci separa la lingua».
Il caso più interessante allo stato attuale (ma anche in una prospettiva storica: solo per i latini maccheronici areali, latin de cuisine, dog Latin, latino maccheronico, si ebbe qualcosa di simile) è rappresentato dall’inglese. Il ricorso all’inglese per arricchire i lessici delle diverse lingue è un fenomeno quantitativamente imponente (A dictionary of European anglicisms, 2001). In larga misura esso è legato alla dominante presenza dell’inglese come lingua della comunicazione internazionale, spesso anche orale, in tutti i più vari ambiti tecnico-scientifici, nei costumi e intrattenimenti, nella finanza, nella diplomazia e politica, nel diritto, nelle consociazioni di Stati plurilingui e nelle sempre più invasive istituzioni collaborative internazionali ‘oltre lo Stato’ (S. Cassese, Oltre lo Stato, 2006), nelle agenzie di informazione e in Internet, ma soprattutto nella realtà quotidiana di centinaia di milioni di persone nelle diverse aree del mondo (The handbook of world englishes, 2006). Rispetto a ciò che è pur avvenuto nel passato in rapporto a lingue che erano già estinte, come il sumerico nel Vicino Oriente antico, il sanscrito (attraverso il buddismo) nel Sud-Est asiatico, il latino (e suo tramite il greco) nelle lingue dell’Europa moderna, il francese, tra Seicento e inizi del Novecento, l’influenza dell’inglese è corroborata da una massa di locutori attivi che non ha precedenti per quantità e diffusione. Essa ha superato da anni la quota di un miliardo, tende ormai verso i due miliardi di persone che usano l’inglese, in piccola parte come lingua nativa (circa 380 milioni), ma soprattutto come lingua seconda o lingua straniera per oltre un miliardo di persone. Si stima che di tutti gli scambi linguistici in inglese che si verificano nel mondo l’80% abbia come protagonisti locutori di altra lingua nativa. Certamente molti di questi scambi si limitano a usi tecnici, specifici di alcuni ambiti, che hanno poca incidenza su lessico e struttura della lingua, adottata spesso in forme semplificate, a cominciare dalla pronuncia, dando luogo a quello che un manager ha felicemente battezzato globish, l’inglese globale (Nerrière 2004 e 2005). Ma dove l’attrazione dell’inglese è più forte e dove la concentrazione di locutori anglofoni è diventata quantitativamente imponente si sono andate creando varianti regionali tendenzialmente sempre più marcatamente differenziate. In certo modo ciò si era verificato già per la variante nordamericana di inglese. Non è solo una famosa battuta di spirito (dello scrittore e umorista britannico George Mikes) dire che l’idioma britannico, l’inglese, fu scelto dai Padri fondatori, ma dopo di allora negli States non se n’è saputo più niente. La differenziazione torna ora a verificarsi anche più intensamente per diversi inglesi regionali.
Alcune formazioni intermedie sono maggiormente evanescenti, per lo più si tratta delle lingue diverse dall’inglese in quanto più o meno anglizzate, a volte per necessità commerciali o di sussistenza di gruppi immigrati, altre per moda e snobismo, tutte oggetto di denominazioni scherzose, a volte spregiative, quasi tutte parole macedonia composte dal nome della lingua prima combinato con english. Capostipiti più noti di tali nomi e fenomeni sono stati, già a metà Novecento, il franglais e l’itangliano (francese e italiano farciti di anglismi) prima o dopo accompagnati da altri: chinglish, usato genericamente per pidgin (formazioni transitorie miste, legate a particolari contesti d’uso, tra lingue internazionali, francese, inglese, olandese, spagnolo, tedesco, e lingue locali americane o afroasiatiche) o creoli anglo-cinesi, più spesso per l’inglese interferito, specie foneticamente, dal cinese, parlato negli Stati Uniti nella China Towns da comunità di cinesi immigrati, a Hong Kong, e anche per il semilinguismo scolastico di apprendenti cinesi; czenglish (ceco anglicizzante), denglish o germish (tedesco anglizzante), engrish (l’inglese di cino-giapponesi con difficoltà di pronunciare la liquida laterale), goleta english (o inglés goleta in spagnolo, detto anche Jibaro English, l’inglese tendenziale di porti portoricani, relativamente stabilizzato) e inglés de escalerilla (inglese come lingua franca nei porti spagnoli), japlish (giapponese anglizzante), konglish (coreanizzazione, dopo la guerra di Corea, dell’inglese americano, spesso di black english), llanito (creolo anglospagnolo di Gibilterra, inglese su base di spagnolo di Andalusia), poglish (inglese di immigrati polacchi, con molti calchi lessicali e sintattici dal polacco), portenglish (portoghese anglizzante), spanglish (lo spagnolo americanizzante di sudamericani, cui toccano anche altre denominazioni spregiative di vario tipo: calò, originariamente dialetto degli immigrati rom spagnoli americanizzato, chicano, parlata anglicizzata di messicani, espanglish, espan’glés, inglañol, tex-mex), svenglish o swinglish (svedese anglizzante, anche swengelska), tinglish (anche thenglish, thailish o thainglish, inglese con forti interferenze thai usato in Thailandia), yeshivish (lingua parlata da ebrei askenazi ortodossi nell’ambito di scuole talmudiche, con basi nell’yiddish), yinglish (inglese di comunità ebraiche in Paesi anglofoni).
Ma in alcuni casi le formazioni hanno una loro stabilità, appaiono non come incroci momentanei o legati a contesti particolari, ma come nuovi pidgin in via di creolizzarsi, cioè di nativizzarsi durevolmente accanto alla lingua del luogo e accanto all’inglese più o meno correttamente parlato. Si tratta di realtà in movimento, che richiedono attenzione. Ma almeno alcune sembrano avviate ormai a costituirsi in vere lingue intermedie, usate anche in chiave letteraria e nell’informazione, autonome rispetto alla lingua locale e anche alle due più accreditate varietà di inglese, la British e la American: il namlish (l’inglese della Namibia), il singlish (inglese cinese di Singapore), il taglish (inglese in ambiente tagalog, nelle Filippine), soprattutto il hinglish (diverso ormai dall’inglese parlato da indiani), una neolingua che fonde una base hindi, punjabi e urdu e una base inglese, con un suo standard di purezza, una grammatica e un lessico stabili, che si stima sia usata da 350 milioni di locutori (Mahal 2006).
L’espansione globale, compromettendo l’unità dell’inglese, si traduce in cospicue differenziazioni divergenti (Erard 2008), in processi di semplificazione (Lieberman, Michel, Jackson et al. 2007). Da molti decenni l’attenzione degli studi era stata attratta sulla nascita di pidgin e di creoli (pidgin diventati lingua nativa polifunzionale). Fatti e studi non nuovi si ripropongono ora in un’atmosfera culturale nuova e in cornici teoriche più appropriate, che, anche per spinte identitarie locali, riconoscono alle lingue creole piena dignità di lingue autonome (McWhorter 2001). I nuovi idiomi nascenti dall’inglese e i creoli contribuiscono potentemente a bilanciare il lamentato fenomeno della morte delle lingue di più fragile base con il sorgere di idiomi. L’inglese in particolare pare avviato a ripercorrere le vie di un processo analogo a quello conosciuto dal latino nell’Europa medievale, quel latino cui del resto l’inglese tradizionale è tanto largamente debitore.
La crisi del monolitismo linguistico
Come già si è accennato, il mondo non vive di solo inglese o di sole lingue internazionali e il compianto sulla morte delle lingue rischia di mascherare la dinamica e la varia ricchezza dei fenomeni in atto. Contro vecchie immagini stereotipate, oggi possiamo renderci conto che, indipendentemente da recenti flussi migratori, non c’è Paese del mondo di qualche estensione e consistenza demografica che non ospiti cittadini nativi di lingua diversa. L’Italia, con le sue quattordici minoranze linguistiche autoctone o insediate da secoli e con la sua folla di diversi e ancor vivaci dialetti (che si raccolgono in almeno una quindicina di raggruppamenti più omogenei), indipendentemente, ripetiamo, da decine e decine di lingue importate dai flussi migratori, è solo uno degli innumerevoli casi tra i duecento Paesi del mondo.
Già in epoche del passato si erano avuti movimenti migratori di consistenti parti di popolazione. L’intera storia naturale e culturale dell’Homo sapiens fin dalle origini più remote è segnata dal migrare. Lo stabilizzarsi degli Stati nazionali ha reso, da un lato, più evidente, dall’altro, più difficile e drammatico il fenomeno a partire almeno dal secolo scorso. E tuttavia, fino ad anni recenti, il fenomeno coinvolgeva masse anche estese caratterizzate però in gran parte da una relativa omogeneità culturale, religiosa, linguistica e di costume, con i Paesi d’arrivo.
In anni a noi più vicini le condizioni createsi con la decolonizzazione e con il tipo di sviluppo che le aree forti del mondo hanno imposto al pianeta hanno determinato fatti vistosamente nuovi. Estese aree del Nord del mondo, ma anche Australia e parte del Sud-Est asiatico e, da qualche anno, anche il Giappone, devono fare i conti con imponenti flussi di immigrazione provenienti dal Sud del pianeta: Asia, Africa, America Latina. Stiamo assistendo a un rimescolamento etnico-linguistico senza precedenti nella storia umana, almeno su questa scala. Alle lingue meno diffuse di antico insediamento in vari Paesi si sono andate assommando lingue di nuovo insediamento.
Anche da questo punto di vista si configura ciò che possiamo chiamare crisi del monolitismo linguistico. Esso ha avuto una prima base nella convinzione antica e ingenua che la propria lingua madre sia l’unica vera lingua, misura di tutte le altre, la sola da prendere in considerazione. Solo lentamente questa idea è stata messa da parte prima da correnti religiose e gruppi intellettuali ristretti, poi più diffusamente (De Mauro 2002; Trabant 2003). Altre ragioni, politiche, sociali e culturali, hanno sostenuto nei secoli, anche in fasi recenti, l’idea di una necessaria oppure desiderabile corrispondenza tra lingua, nazione, Stato. La trinità lingua-nazione-Stato ha funzionato come ideale regolativo di una notevole parte della storia linguistica e politico-culturale del mondo moderno, non soltanto in Europa. Oggi essa è in crisi non solo in sede scientifica e ideologica, ma nei fatti.
La novità di fondo risulta da una semplice operazione aritmetica. Gli Stati che hanno un seggio all’ONU sono circa 200, quelli censiti da Ethnologue (200515), che distingue protettorati e Paesi minori, sono 220. Assumiamo pure questa cifra maggiore. Le lingue censite come diverse sono circa 7000. Dobbiamo dunque ammettere che, mediamente, ogni Stato ospita 32 idiomi diversi. Ovviamente questa è una cifra media. L’escursione intorno a essa è assai forte. Si va dal caso, isolato, dell’Islanda, dove sostanzialmente l’intera popolazione converge verso un’unica lingua, o da quelli, di gran lunga meno rari, che ospitano due, tre lingue diverse, come Burundi, Finlandia, Haiti, ai casi nettamente superiori alla media, con almeno duecento lingue diverse. Tali, in ordine crescente di numero di lingue, sono: Brasile (200), Repubblica Popolare Cinese (241), Australia (275), Camerun (280), Messico (297), Stati Uniti (311), Unione Indiana (427; 22 lingue ufficiali), Nigeria (516), Indonesia (742), Papua Nuova Guinea (820).
Dalla consistenza dei gruppi di una data lingua all’interno di uno stesso Paese si ricava la probabilità che un abitante incontri un altro di lingua diversa. Più tale probabilità è alta, prossima alla probabilità 1, maggiore è l’indice di diversità linguistica del Paese, più la probabilità si approssima a 0 minore è l’indice di diversità. I Paesi con indice più alto, superiori a 0,9, sono, in ordine decrescente (tra parentesi la cifra complessiva di popolazione in milioni arrotondata a centomila, se superiore a questo): Papua Nuova Guinea 0,99 (3,7), Vanuatu (0,1), Salomone (0,3), Tanzania (25,8), Repubblica Centrafricana (3,4), Ciad (5,9), Repubblica Democratica del Congo (37,9), Camerun (9,6), Unione Indiana (943,3), Mozambico (16,2), Uganda (17,0), Gabon (0,6), Costa d’Avorio (9,2), Liberia (2,5), Benin (6,4), Kenia (26,4). In Europa, si hanno i seguenti indici decrescenti di diversità con arrotondamento a due cifre significative: Belgio 0,7; Italia, Moldavia, Andorra e Macedonia 0,6; Svizzera, Austria, Monaco, Gibilterra, Lussemburgo, San Marino, Ucraina ed Estonia 0,5; Spagna, Bosnia ed Erzegovina, Paesi Bassi 0,4; Lituania, Slovacchia, Russia, Francia e Albania 0,3; Bulgaria, Irlanda, Germania, Grecia, Slovenia, Romania, Svezia e Ungheria 0,2; Finlandia, Regno Unito e Liechtenstein 0,1; seguono, infine, con indici ancora più bassi Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Danimarca, Portogallo, Islanda e Malta.
Molti Stati del mondo, dal Nord dell’Europa al Canada, dalla Francia o Gran Bretagna all’Australia, si sono attrezzati con un’adeguata legislazione e, specialmente, con un’adeguata ristrutturazione delle scuole per fronteggiare la diversità linguistica di nativi e immigrati recenti. L’obiettivo, in generale, è salvaguardare l’identità etnico-linguistica non solo delle maggioranze, ma anche delle minoranze di antico insediamento e dei nuovi arrivati favorendo contemporaneamente (anzi, favorendo in tal modo), specialmente per questi, il loro miglior inserimento linguistico-culturale e sociale nei Paesi d’arrivo.
Prospettive sociolinguistiche ed educative
Ormai numerose esperienze ci dicono che la coesistenza di più etnie e lingue diverse in una medesima area, se avviene in un quadro costituzionale e politico democratico, tendente alla pari dignità e partecipazione dell’intera cittadinanza, pone problemi anzitutto educativi, scolastici. Se Paesi e popoli mirano all’inclusione e si attrezzano per affrontare e risolvere i problemi in positivo, si attenuano e svaniscono i contrasti e i conseguenti problemi di natura sociale, produttiva, giuridica, politica. Se invece la didattica nelle scuole si chiude a riccio verso gli alloglotti, antichi o nuovi che siano, prima o poi i problemi consecutivi, extrascolastici, esplodono con violenza.
Il diritto all’uso e, prima ancora di questo, il diritto al rispetto della propria lingua è un diritto umano primario e la sua soddisfazione nei fatti, come si è ricordato in precedenza (v. Valore delle lingue per individui e comunità e loro equipotenza teorica), rappresenta una componente decisiva nello sviluppo intellettuale e affettivo della persona.
Le questioni non sono solo di ordine legislativo. Certamente, sono a lungo mancate in Italia buone leggi che raccogliessero l’indicazione che la Costituzione dava dal 1948 per la tutela delle minoranze linguistiche nel suo art. 6: né la Costituzione né i fatti ci permettono di distinguere tra minoranze di antico insediamento e minoranze che si vengono formando per flussi migratori. Attualmente esiste una legge risalente al 1999, ma limitata alle minoranze di antico insediamento. Resta tuttavia carente in Italia una cultura antropologica e linguistica diffusa abbastanza capillarmente per consentire al Paese un rapporto conoscitivo e relazionale con gli altri.
Uno studioso americano, John Naisbitt, in un suo saggio dei primi anni Ottanta, Megatrends, osservò sarcasticamente che non è davvero sufficiente l’inglese per fronteggiare problemi ed esigenze del plurilinguismo nel mondo contemporaneo. Le lingue in gioco sono tante, come abbiamo visto. In ogni Paese si presenta il problema, socialmente rilevante, di fare i conti con le maggiori di queste quindici lingue almeno, non soltanto con l’inglese. E con esse, ovviamente, devono fare i conti anche gli anglofoni come, del resto, già suggeriva lo stesso Naisbitt.
Dopo avere faticosamente raggiunto la convinzione dell’opportunità di muovere, specie nelle prime fasi dell’insegnamento, dall’apprezzamento dei diversi idiomi nativi degli alunni, il sistema formativo italiano soltanto da poco (e spesso soltanto sulla carta dei progetti di riforma in atto) ha riconosciuto l’esigenza di una precoce educazione all’apprendimento di lingue straniere e, sempre a titolo sperimentale di innovazione, ha riconosciuto che lo studio delle lingue straniere deve essere parte della formazione culturale di tutti gli indirizzi della scuola secondaria di secondo grado. I risultati di passati pregiudizi verso lo studio delle lingue straniere e di miopi scelte scolastiche si misurano ricordando il dato ISTAT: solo una bassa percentuale (nel complesso circa il 20%) dichiara di conoscere bene il francese e/o l’inglese; tedesco e spagnolo sono presenti in percentuali infime, trascurabili. Non avviene così nella restante Europa in cui, dall’Est all’Ovest, dai Paesi del Nord a Malta, numerose sono le nazioni che praticano ormai un bilinguismo di massa (lingua privilegiata tra le lingue straniere è l’inglese, seguito da altre tre, francese, spagnolo, tedesco, e solo in minor misura italiano) ed estese fasce di popolazione sono spesso trilingui. Ci attende, o meglio ci attenderebbe uno sforzo immane per metterci al passo con la restante Europa. Del resto l’Europa centro-settentrionale e quella dell’Est, come sappiamo dai dati di Eurobarometer, è fortemente plurilingue, sia per un riconosciuto plurilinguismo endogeno sia per l’apertura e il riconoscimento e l’accoglienza verso i nuovi arrivati, dalla Svezia alla Gran Bretagna e Francia.
Le dinamiche linguistiche fin qui descritte smentiscono la previsione che il plurilinguismo possa o debba scomparire. Il seme della differenza sta nel linguaggio umano e in ogni lingua. I fenomeni in atto rendono ancor più inaccettabili le spiegazioni meccaniche, meramente geografiche, della diversità linguistica.
La spiegazione meccanica, ancorché diffusa e affiorante perfino in un gran libro classico come Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues (pubblicato postumo nel 1836; trad. it. La diversità delle lingue, 1991) di Wilhelm von Humboldt, non risulta soddisfacente. Essa, infatti, separa la diversità spaziale delle lingue dalla loro diversità temporale; non spiega perché in un medesimo ambiente possano nascere e vivere lingue diverse, anche assai diverse; non spiega come e perché, in uno stesso ambiente, una tradizione linguistica inizialmente omogenea si differenzi e franga in una pluralità d’idiomi diversi; non coglie infine l’evidente rapporto che s’instaura tra il formarsi di lingue differenziate e le iniziali oscillazioni e variazioni all’interno di una comunità linguistica inizialmente omogenea.
In verità, in ogni punto della realtà linguistica e in ogni essere umano si annida il principio della variazione: sta entro la competence la capacità di dominare una massa lessicale intrinsecamente oscillante, un set di regole morfosintattiche variabili, una semantica contrassegnata dall’indeterminatezza bilanciata dalla capacità metalinguistica riflessiva. Saper parlare significa non già obbedire allo spartito fisso di una lingua immota, ma sapersi muovere con strumenti variabili e plurimi entro lo spazio linguistico costruendo le vie di comunicazione con una massa parlante dappertutto solcata intrinsecamente da differenziazioni. La pluralità linguistica non sopravviene dall’esterno, come la diversità degli abbigliamenti o delle mode, ma nasce nell’interno di ciascun essere umano.
Rispettare la diversità linguistica non è solo una regola di correttezza politica, ma significa davvero rispettare un diritto umano. Quella diversità non ha a che fare soltanto con la libera scelta di costumi e usanze. Essa è corradicale alla capacità di produrre e controllare variazioni e differenziazioni linguistiche, alla capacità, in definitiva, di ‘storia’ cui la specie deve la sua origine, la sua natura più profonda, le sue possibilità di degna sopravvivenza.
In questa prospettiva si capisce la preoccupazione educativa dominante in molte aree del mondo intesa ad arricchire le conoscenze native degli allievi e le loro pratiche di comprensione ed espressione con la lingua più affermata nell’ambiente nazionale e con le maggiori lingue internazionali, senza smarrire il filo delle tradizioni classiche, da cui si irraggiano elementi linguistici ritenuti preziosi in Giappone, Cina, India, Israele e nei Paesi arabofoni (De Mauro 2008a, pp. 88-90). Non avviene così in molti Paesi europei in cui i decisori politici hanno preferito mettere al bando l’insegnamento medio-superiore delle due lingue classiche, greco e latino, cui molto hanno dovuto nella loro formazione e devono ancor oggi nei loro usi più accreditati lessici, contenuti semantici e strutture sintattiche delle lingue dell’Europa moderna.
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