BUZZATI TRAVERSO, Dino
Nacque a Belluno, in località San Pellegrino, il 16 ott. 1906. La famiglia, di origini bellunesi, apparteneva all'alta borghesia ed aveva una ricca tradizione culturale. Il padre, Giulio Cesare, era professore di diritto internazionale all'università di Pavia; la madre, Alba, era sorella dello scrittore Dino Mantovani, che si conquistò una certa fama nel secondo Ottocento.
Nella villa di San Pellegrino, dove i Buzzati Traverso, residenti a Milano, trascorrevano l'estate ed i periodi di vacanza, c'era una biblioteca di alcune migliaia di volumi, prevalentemente di argomento giuridico, che, con la sua atmosfera misteriosa e severa, avrebbe nutrito le fantasie adolescenziali del futuro narratore.
Nella prima formazione del B., più che il padre, signore austero e tutto dedito agli studi, morto prematuramente nel 1920, contò la madre, donna comprensiva e premurosissima, sempre ricordata dai figli come una figura dai tratti angelici. E contarono la governante e le amicizie di scuola e i luoghi, specie quelli del Bellunese. La tata, di famiglia tedesca, raccontava al B. storie fiabesche e leggende e saghe nordiche, di cui si conserva una traccia sottile in tutta la sua narrativa. La villa di San Pellegrino era allora una sorta di giardino incantato, con le sue stanze segrete, popolate dai fantasmi dell'infanzia, e con il suo verde a distesa, pieno di silenzi; e Belluno significava montagne, picchi e crode dolomitiche, la realtà e la dimensione di vita, essenziali e irrinunciabili, che il B. avrebbe sentite come le più sue, rifugiandovisi ogni volta che fosse possibile: le passeggiate, le discese sugli sci, le arrampicate anche come capocordata valsero per lui come - se non di più - un romanzo di successo.
Al liceo "Parini" di Milano egli fu studente diligente, non brillantissimo, sotto la guida, in particolare, di un insegnante di latino e greco, Luigi Castiglione, vero educatore che gli temprò profondamente il carattere; ma quella scuola, soprattutto, rappresentò un'occasione e una palestra di amicizia, un sentimento che lo scrittore mise sempre in cima alla scala dei suoi valori. Arturo Brambilla fu il compagno inseparabile di tanti anni: a lui il B. confidò spesso, per lettera, i suoi stati d'animo e le sue paure, con Arturo condivise la passione per la montagna, Arturo raccolse le prime impressioni di lettura dell'amico. Nello scrivergli (l'epistolario, Lettere a Brambilla, è stato pubblicato a Novara nel 1985) ogni estate da San Pellegrino, il B. mostra di avvicinarsi un po' disordinatamente alle opere di letteratura, preferendo i classici ai contemporanei e l'esperienza della natura a quella dei libri; e si firma Anubis, come il protagonista del poema Anubeide, composto negli anni dell'adolescenza sull'onda dell'entusiasmo per l'egittologia e mai pubblicato.
Giusto questa prima, informe ed ingenua prova poetica ha valore consistente di indizio: un indizio letterario, perché il B. si orienta, subito, verso un mondo mitico e fantastico, come astratto dal tempo, dove non c'è spazio per l'attualità, anche culturale, e ciò che importa è il fascino del racconto, il mistero sovrannaturale e l'emozione che l'accompagnano; un indizio esistenziale, perché, alla stregua di quella letteratura in boccio, la sua vita si rivela appartata, protetta all'esterno da austeri modi e comportamenti borghesi, ma venata all'interno da un'inquietudine e da un'insicurezza di cui la scrittura narrativa (e la montagna in parallelo) costituisce un tentativo di rimozione o di sublimazione.
Affinché rimozione e sublimazione si compiano, la letteratura deve potersi fondare su alcune incrollabili certezze. Non problematica, non sperimentale, chiusa al nuovo, indisponibile a farsi carico degli amari polisensi del reale, essa è definita una volta per sempre. Il commuovere, il costruire intrecci coinvolgenti, l'impaginare con chiarezza e con la giusta suspense messaggi univoci (destinati a ripetersi) sono i suoi principi istituzionali. È una letteratura che si fa sull'esperienza e si giova di un presunto talento naturale e poco ha bisogno di crescere su altra letteratura, su altri libri. Il B. non legge molto e non ha cari, per esempio, Dante e Proust; ama, per contro, Maupassant, Tolstoi e quanti hanno praticato forme narrative solide e tradizionali, ottocentesche; il mitico Omero, il creatore per antonomasia.di avventure e di emozioni, resta il suo idolo.
Terminati gli studi liceali, dopo aver accarezzato l'idea di iscriversi a lettere, il B. frequentò regolarmente i corsi di giurisprudenza (una scelta dettata da considerazioni pratiche ed utifitaristiche), conseguendo la laurea nei tempi previsti. D'estate e quando possibile, tra il Pelino e la Civetta, esplorò ogni picco; le montagne dolomitiche fecero da sfondo al servizio di leva, che egli prestò, a partire dal 1926, quale allievo ufficiale. Congedato, presentò domanda di assunzione come cronista al Corriere della sera. Entrò al giornale, non senza manifestare insicurezza, il 9 luglio 1928.
Il B. al Corriere della sera fa una lunga gavetta. Poco ambizioso e ancor meno loquace, chiamato con affetto Cretinetti dai suoi colleghi, metodico e puntuale, si occupa scrupolosamente di cronaca nera e gira per la città sostando immancabilmente in questura, che è un inesauribile serbatoio di notizie. Non si può dire che compia una carriera rapida. È destinato, per qualche tempo, ai resoconti degli avvenimenti musicali e svolge, soprattutto, un oscuro lavoro redazionale, passando notti intere in via Solferino. Solo i primi successi letterari gli varranno come carte di credito per salire di grado nel quotidiano milanese. L'esperienza accumulata da cronista, comunque, esercita notevoli influssi sulla pratica dei narratore: gli offre, per intanto, un repertorio di temi che, opportunamente trasfigurati, torneranno in molti racconti; lo conferma nel suo convincimento che quello da stabilire con il lettore è un contatto emotivo e che sugli elementi capaci di tenerlo avvinto, e persino di farlo piangere, va costruito ogni testo; lo abitua ad una normalità linguistico-stilistica, che sarà resa particolarmente funzionale all'emergenza di atmosfere e climi fantastici. Si produce, nel B., un utile connubio, mai aggredito dalla crisi, che contribuisce ad ottenergli il favore del pubblico: il suo giornalismo, insistendo sull'obiettivo dell'emozione e della sollecitazione sentimentale, ha una spiccata vocazione letteraria; la sua narrativa, votandosi alla chiarezza dell'espressione e puntando sulla koinè linguistica, soggiace all'ipoteca della comunicazione giornalistica. La miscela, nell'uno e nell'altro campo, è di quelle che ben si attagliano al gusto e al senso comuni e piacciono perciò al lettore medio. E lo scrittore dirà, convintissimo: "L'optimum del giornalista coincide con l'optimum della letteratura".
Anche per vincere i momenti di routine e di monotonia del suo mestiere, il B. si era dato, intanto, a scrivere racconti. Rifiutata dalla Domenica del Corriere una storia alla Poe, illustrata da disegnini (Poe è l'autore entrato ormai nel suo cuore più di tutti; e quella del disegno è una passione che risale al periodo della fanciullezza), egli compose, nell'arco di due anni, Barnabo delle montagne. Il testo, per la mediazione di C. Poggiali, capocronista al Corriere, fu proposto a Treves, che lo pubblicò (Milano-Roma 1933). Presso lo stesso editore, uscì poi Il segreto del bosco vecchio (ibid. 1935).
Nei due racconti lunghi la montagna fa da scenario e da esplicita primattrice. Sul suo sfondo si stagliano personaggi reali e personaggi fantastici, animali parlanti come nelle più tipiche delle favole, venti e geni dei boschi, briganti e taglialegna, incarnazioni del bene e incarnazioni del male. Nella storia di Barnabo e in quella di Procolo, l'eroe negativo del Segreto del bosco vecchio, si possono cogliere già i temi e le dimensioni caratteristiche della narrativa del B.: la paura e il rifiuto di una vita a dimensione di città, il cui emblema, di contro alla nuda verità della montagna, è la pianura come luogo di esilio; il bisogno di un'immersione rigeneratrice nella natura, a contatto con le presenze animali e vegetali e fantasmatiche che la popolano e la animano; un'aura fiabesca e il graduale trapasso dal piano realistico a quello fantastico, che delineano una sorta di tragitto iniziatico, al termine del quale trionfa il bene e il lieto fine - Barnabo rinuncia alla vendetta sui briganti; Procolo si ravvede e muore per salvare Benvenuto, il nipote da lui tradito ed angariato - si colora di rassicurante moralismo; una scrittura piana e semplice, che indulge ad uno stile cronachistico. Il segreto del bosco vecchio, firmato per l'ultima volta anche col secondo cognome, Traverso, fu in lizza per il premio Bagutta.
Il B., preso l'abbrivo, continuò di buona lena. Pubblicò racconti su Omnibus e sulla Lettura e, nelle lunghe notti trascorse nella redazione del giornale, maturò l'idea di un romanzo e venne lentamente elaborando quello che sarebbe stato Il deserto dei Tartari. L'opera era già compiuta nel 1939, quando L. Longanesi chiese al B. se avesse qualcosa di pronto per la collana da lui varata per Rizzoli. La storia fantastica di Giovanni Drogo vide appunto la luce presso l'editore milanese nel 1940, accolta con grande interesse.
La vicenda del tenente (chiamato Dongo nella stesura iniziale), che in una fortezza di confine, nella quale i gesti e le sorti si assomigliano e si ripetono ciclicamente, attende vanamente l'arrivo dei Tartari ovvero l'occasione e il senso di un'esistenza intera (finché, mentre i nemici forse si concentrano nel deserto e preparano l'assalto, l'unica lotta che lo vedrà protagonista sarà quella condotta, solitario e dignitoso, con la morte), trae origine, per ammissione del B., dalle esperienze del cronista al giornale e dalla sensazione di una vita grigia e uniforme, senza sbocchi immediati e credibili. Montata però in un intreccio che elimina qualunque preciso riferimento spazio-temporale e si organizza in sequenze tendenzialmente similari e individua coppie di personaggi in corrispondenza e in opposizione; riproducendo, casualmente che sia, i caratteri morfologici della fiaba, ma culminando in una iniziazione alla morte e non già alla vita, procedendo per suspense e moltiplicandone gli effetti con i segni del sempreuguale, nel meccanismo ferreo che stringe la realtà dei personaggi (elemento, quest'ultimo, che ha spinto alcuni critici a tirare in ballo, un po' frettolosamente, il nome di Kafka, autore letto dal B. intorno al 1935), quella vicenda diviene metafora della condizione umana ed appare omologa allo stato di crisi, e di precarietà di valori, della borghesia italiana in quegli anni di regime. Rispetto alle forme e ai modi di una narrativa di crisi, la più significativa nel Novecento europeo, Il deserto dei Tartari, tuttavia, esibisce non poche difformità e discrepanze. Ideologicamente l'autore insiste sulla poetica della commozione e sale sul proscenio, spesso, per consolare Drogo e, attraverso di lui, il lettore. Linguisticamente il romanzo non dà spazio alcuno alla crisi: normalizzato e medio, cronachistico e facile, il suo stile si rende del tutto funzionale all'intreccio e all'intento di coinvolgere emotivamente il fruitore. Il linguaggio, purché semplice e ordinato, è indifferente alla logica del racconto: non è un caso che, pronte le bozze, lo scrittore chiedesse ad Arturo Brambilla di correggerle, variando il lei in voi (come voluto dall'editore) ed emendando le frasi a suo piacimento, secondo le regole d'uso, comune.
Proprio nel 1939, non appena ebbe consegnato il dattiloscritto della sua opera più significativa, il B. partì per Addis Abeba, come inviato del Corriere della sera. Ammalatosi di tifo, rientrò in Italia giusto in tempo per essere richiamato allo scoppio del conflitto mondiale. Si imbarcò, come corrispondente di guerra, su diversi incrociatori, in particolare il "Fiume" e il "Trieste", assistendo alla battaglia di Capo Matapan e a quella della Sirte.
Iscritto al partito fascista come quasi tutti gli Italiani in quegli anni, il B. fu sempre sostanzialmente un apolitico, solo convinto del primato ideale e culturale della classe borghese. Ma questo suo atteggiamento di distacco e di astensione non lo salvò né da un certo qualunquismo né dal subdolo ricatto del mito. Subì in parte quello di Mussolini, se ne rammentava ammirato, in una lettera al suo amico di liceo, la posa statuaria; scontò fino in fondo quello del militarismo.
L'ordine e l'asciutto cameratismo virile (nessuna figura femminile, forse per l'ingombrante presenza della madre nell'esistenza dello scrittore, assume ruoli di protagonista nei suoi primi romanzi) e il rispetto della norma e l'esenzione dalla responsabilità di una scelta, delegata all'istituzione e allo spirito di corpo (come il B. nota spesso, nelle tante interviste rilasciate), lo indussero, lui fondamentalmente insicuro, ad amare e a privilegiare, non solo narrativamente, la realtà militare. La guerra, in quest'ottica, gli si configurò allora come un mito ulteriore. Tanto che l'esperienza di corrispondente dagli incrociatori sarebbe stata ricordata, letteralmente, cosi: "Anzi, ci sono state delle occasioni, delle circostanze che mi davano anche un senso di esaltazione. Pure in guerra. Per mare, per esempio, certe battaglie (mentre arrivavano i proiettili intorno) davano un senso di bellezza straordinaria!". Tracce di esaltazione e di enfasi si leggono chiare, del resto, nel racconto Ritratto con battaglia, che trovò posto in un'antologia di storie di guerra (Prime storie di guerra, Milano 1942).
Nello stesso anno di edizione di questo volume, presso Mondadori, apparve la prima raccolta di novelle del B., I settemessaggeri, che riproducono scenari e climi dei romanzi precedenti e lasciano affiorare quei mostri strabilianti, in realtà allegorici, che avrebbero trovato largo spazio nella narrativa successiva dello scrittore. Il libro fu accolto con favore dal pubblico e dalla critica e dimostrò che la vera misura del B. era quella del racconto breve.
La caduta del fascismo, la sconfitta militare e la Resistenza provocarono un acuto senso di disagio nel Buzzati. L'Italia toccava il fondo della crisi; venivano spazzati di colpo e cadevano come un castello di carte le idealità e i miti, quello militare soprattutto, che tanto avevano fatto breccia nel narratore della storia di Drogo. Il B. visse un periodo di sbandamento; per un anno e mezzo lavorò al Corriere lombardo, giornale di cui fu tra i fondatori. Tornò poi al Corriere della sera, occupandosi di cronaca e svolgendovi compiti redazionali (fu titolista di terza e di quinta), e ottenne l'incarico di redattore capo della Domenica del Corriere, allora diretta da E. Possenti. Nel 1945 pubblicò La famosa invasione degli orsi in Sicilia (Milano) e, in collaborazione con G. Ramazzotti. Il libro delle pipe (ibid.).
L'uno, una storia fantastica illustrata dall'autore, un libro per ragazzi concepito in prima istanza per la nipotina, e l'altro testo, del cui contenuto frivolo e brillante dice già con chiarezza il titolo, sono una esplicita testimonianza di questo particolare momento dei Buzzati. C'è, da parte sua, un bisogno di evasione, in risposta ai traumi e alle amarezze della contingenza storica, che ora si esprime nelle sue forme più estreme, non solo rifiutando ogni compromesso con il gusto neorealista in auge, ma anche negando programmaticamente qualunque, pur minimo e indiretto rapporto con l'attualità e la storia. È un bisogno d'evasione che allontana la riflessione problematica sulla funzione della letteratura e serve, semmai, da autodifesa e da lenimento in nome di quella poetica da sempre buzzatiana, congeniale ad una letteratura di successo, che tornerà a mietere allori di li a qualche tempo.
Se Paura alla Scala (ibid. 1949) mette in rilievo l'ideologia buzzatiana, facendo riemergere, dalla trama favolistica della narrazione, un moralismo ed un allegorismo di troppo, che confermano l'esigenza di ordine e il timore di radicali rivolgimenti politico-sociali, con In quel preciso momento (Vicenza 1950), che ottenne nel 1951 il premio Gargano, il B. traccia un suo bilancio,il fondo rassicurante e carminativo, degli anni da poco trascorsi.
È un libro di pagine diaristiche, di appunti e di note, dove i recenti avvenimenti e il dramma del conflitto mondiale subiscono una triplice, risanante riduzione: sottratti a qualsiasi analisi che sia cruda e lacerante e che si accompagni ad una spietata autoanalisi, essi sono raccorciati e compressi nella sfera della realtà soggettiva dell'autore e, quando non si prestino ad essere esorcizzati da una scrittura favolistica, si rendono comunque funzionali all'idea di un'esistenza, privata e collettiva,la cui legge è, come nel Deserto dei Tartari, l'approssimazione, eroica perché dignitosa e moralmente consapevole, alla morte. In quel preciso momento, che apparentemente documenta lo smarrimento dei B. e il sentore di una irreversibile senescenza, indica nella favola e nell'allegoria (ciò che nei testi dello scrittore bellunese impedisce la sussistenza dei fantastico, quale genere letterario fondato sull'esitazione) una facile e redditizia via d'uscita.
Sulla favola, come invenzione di un mondo capace di toccare e solleticare i precordi del lettore, e sull'allegoria, didascalicamente suggerita cosi da intrigare i buoni (e comuni) sentimenti nonché un cattolicesimo di ritorno, il B. avrebbe costruito i suoi racconti, pronto, se del caso, a tradurli per il teatro (una delle trascrizioni più efficaci è Un caso clinico, Milano 1953, che sarebbe stato più volte rappresentato e da cui sarebbe stato ricavato anche un film). E avrebbe costruito il suo crescente successo editoriale. Pubblicò infatti Il crollo della Baliverna (al libro, edito a Milano da Mondadori nel 1954, fu assegnato il premio Napoli) ed Esperimento di magia nel 1958 (Padova). In questo stesso anno la raccolta antologica dei Sessanta racconti pubblicata a Milano ebbe il premio Strega.
Il B., tramontata la stella dei neorealismo, era ormai sulla cresta dell'onda. Alcune sue novelle divennero libretti per musica, mentre anche il giornalista si era tolte le sue brave soddisfazioni. Articoli, che oggi definiremmo "strappalacrime", fecero allora storia: in particolare quello su una sciagura ad Albenga, che aveva provocato la morte di quaranta bambini.
Altri due libri (ora lo scrittore si era messo a sfornarli in serie) apparvero nel 1960: Egregio signore, siamo spiacenti di… (opera sui generis e ricca di illustrazioni, pubblicata dall'editore milanese Elmo, che si pone tra Il libro delle pipe e In quel preciso momento); Il grande ritratto (Milano 1960), romanzo di fantascienza suggestionato dalla cibernetica, in cui un automa reincarna l'anima e i desideri e la libido di una donna morta. E poi, sempre a Milano, Un amore, che esprime appieno i cedimenti dello scrittore ai miti e alle mode e insomma al mercato della letteratura: correva l'anno 1963, quando, mentre pullulavano i primi best sellers, veniva allo scoperto la feroce contestazione della neoavanguardia.
Avendo già fatto le prove in alcuni racconti precedenti, il B. pone come sfondo al romanzo di Antonio Dorigo, professione architetto, la Milano lungamente conosciuta attraverso il lavoro di cronista. È una città sordida e oscura, notturna e tentacolare, che il narratore fa rivivere in alcune concitate sequenze quasi di monologo interiore. Ma è un ammodernamento stilistico solo di facciata, perché l'intreccio è ancora di quelli ben oliati e a forte tenuta ed esibisce, con uno strisciante e remunerativo moralismo, tutti gli ingredienti di una narrativa di consumo: una storia d'amore spesso pruriginosa e piccante, un personaggio femminile - Laide - che è l'erotica Lolita di turno, gelosie sempre gradite al lettore e una montante febbre di vita che brucia e ringiovanisce l'architetto Dorigo.
Mentre il successo ormai gli arrideva e gli consentiva un'incursione nel territorio della poesia (e a Vicenza, per i tipi di Neri Pozza apparvero nel 1965 Il capitano Pic e altre poesie e, nel 1967 Due poemetti), il B. sposò nel 1966 una giovane, Almerina Antonazzi, che avrebbe definito il suo più bel personaggio. Continuava intanto il suo lavoro al giornale: scriveva ora elzeviri, che avrebbe raccolto in Il colombre (Milano 1966) e in Le notti difficili (ibid. 1971). Tra l'uno e l'altro libro: un'antologia di racconti pubblicata nella collana dei "tascabili" (La boutique del mistero, ibid. 1968), ristampe delle sue opere maggiori e soprattutto Poema a fumetti (ibid. 1969), che ebbe il premio di Paese sera per il miglior fumetto.
Il libro rispolvera i soliti fantasmi buzzatiani, proponendo, attraverso una variazione sul tema del mito di Orfeo ed Euridice e attraverso l'impiego di imageries fiabesche, un accattivante mélange tra dimensioni e realtà di vita e dimensioni e realtà presunte di morte. Cantautori con chitarra e donne procaci stipulano un contratto, destinato a piacere in primo luogo al lettore. In esso si prescrive che i due universi, la vita e la morte, non combacino, se Eura non può essere restituita alla luce dal suo Orfi, per quanti tentativi egli faccia; ma si autorizza, nel contempo, un vero e proprio rito esorcistico, se il regno dei morti appare abitato da rassicuranti figure domestiche e familiari.
L'importanza del Poema a fumetti risiede, in specie, nel fatto che contribuisce a redigerlo, accanto allo scrittore, un B. disegnatore. Così dice di sé il B. nella pagina di un catalogo: "La pittura per me non è un hobby, ma il mestiere; hobby per me è scrivere. Ma dipingere e scrivere per me sono infondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie".
La pittura fu un altro ambito in cui l'autore del Deserto dei Tartari, in quegli anni, seppe mietere successi, giovandosi della sua fama di narratore, recuperando iconograficamente temi letterari e impaginandoli in uno stile tra il metafisico e il naïf. Lo stesso stile che si rintraccia nei Miracoli di Val Morèl (Milano 1971), ultimo lavoro del B., che raccoglie 39 invenzioni di ex voto.
Ristampe, trasposizioni cinematografiche, traduzioni in svariate lingue, pubblicazioni postume (pronache terrestri, ibid. 1972), più complete antologie di racconti (180 racconti, ibid. 1982), gli scritti giornalistici riesumati (quelli del B. inviato al giro d'Italia), i convegni, una mostra antologica di quadri, acquarelli, disegni e manoscritti (Cencenighe Agordino, 28 giugno14 sett. 1986), le fondazioni in suo onore (esiste in Francia un'associazione degli amici dello scrittore bellunese) stanno a testimoniare un interesse per il narratore-giornalista ancora vivo a parecchi anni di distanza dalla morte, avvenuta a Milano il 28 genn. 1972 dopo una breve e fulminante malattia.
Fonti e Bibl.: D. B.: un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu, Milano 1973; A. Veronese Arslan, Invito alla lettura di B., Milano 1974; M. Carlino, Come leggere "Il deserto dei Tartari" di B., Milano 1976; I. Crotti, B., Firenze 1977; R. Battaglia, Il mistero in D. B., Milano 1980; D. B. vita e colori, a cura di R. Marchi, Milano 1986.