CAMPANA, Dino
Nacque a Marradi (Faenza) il 20ag. 1885 da Giovanni, maestro elementare, e da Fanny Luti, casalinga benestante. Dopo aver frequentato il ginnasio inferiore presso il convitto salesiano di Faenza, nel 1899-1900 sostenne gli esami di licenza nel locale ginnasio-liceo E. Torricelli. L'anno successivo, allievo di prima liceo, cominciò a dare i primi segni di quello squilibrio mentale che lo travaglierà fino alla morte. In una lettera del 13 sett. 1906 al prof. A. Brugia, direttore del manicomio di Imola, il padre precisava fra l'altro: "Nel 1900 incominciò a dar prova di impulsività brutale, morbosa, in famiglia e specialmente con la mamma". Il rendimento scolastico divenne incerto e saltuario, e solo dopo aver cambiato diverse scuole riuscì a conseguire la licenza liceale presso il collegio Bresso di Carmagnola, dove aveva frequentato con scarso profitto l'ultimo anno (1903).
Durante questo periodo di tempo ebbe a che fare, secondo una sua vaga testimonianza, con la giustizia: sarebbe stato rinchiuso per un mese in un carcere di Parma, probabilmente durante una delle pause della vita di collegio. Il motivo è ignoto, ma non è improbabile ascriverlo a quelli che più tardi lo costrinsero a subire innumerevoli analoghe disavventure: l'ubriachezza, l'irascibilità, lo squilibrio nervoso.
Il curriculum dei suoi studi universitari incerti, e del resto destinati a fallire, fu questo: iscritto al primo anno di chimica pura a Bologna nel 1903-1904, l'anno seguente passò a chimica farmaceutica e si trasferì all'Istituto di studi superiori di Firenze; nel 1905-1906 frequentò il terzo anno della stessa facoltà ma di nuovo a Bologna, nel 1906-1907 restò a Bologna, ma passando di nuovo a chimica.
Anche la scelta di una facoltà scientifica da parte di un temperamento che doveva rivelarsi fondamentalmente artistico e fantastico ha suscitato problemi fra gli interpreti. Alcuni l'hanno spiegata con la pressione o il consiglio di qualche parente o amico, altri l'hanno giustificata con l'ingenuità di un giovane privo d'esperienze e ancora ignaro di sé. L'inclinazione verso la scienza allora mostrata dal C. può non apparire però del tutto priva di significato: non solo perché s'inquadra in un complesso problema di rapporti fra arte e scienza, che riguarda tutto un ampio settore della cultura decadente borghese fra Otto e Novecento; ma anche perché nel C. poeta certi tratti di uno scientismo delirante e impressionistico persistono all'interno di un tessuto linguistico che continuamente fuoriesce dai confini della tradizione letteraria costituita.
Nel frattempo il C. dovette affrontare nuovi e più graviattacchi del male. Nel 1906, mentre era ancora a Bologna, il padre lo fece visitare dal prof. G. Vitali che diagnosticò "una forma psichica a base di esaltazione, per cui si rende necessario il riposo intellettuale, l'isolamento affettivo e morale, e l'uso di preparati bromici". Il 4 settembre venne ricoverato nel manicomio di Imola, dove restò fino al 31 ottobre, quando il padre, contro il parere dei sanitari, decideva di farlo uscire. Nei mesi successivi il C. migliorò, ma l'ombra della pazzia e della demenza precoce non lo lascerà mai più.
Al di là della precisa valutazione medica, si può dire che, per quanto riguarda i riflessi nell'arte del C., la pazzia si configura in lui come una sorta d'irrequietudine e d'insoddisfazione perenne, come una specie di prolungata e tesa rivolta, fra l'amarezza e il furore, contro ogni tipo di normalità. Non sarebbe difficile tentarne un'esplorazione psicanalitica: le testimonianze dell'astio contro la madre convalidano l'impressione, che si può anche ricavare dalla lettura delle poesie, di una carenza affettiva profonda risolta in chiave di violenza o, come gli accade talvolta, di dolorosa frustrazione. Il suo rapporto erotico con l'Aleramo, di cui diremo più avanti, è la più evidente espressione di una impossibile ricerca della madre, sia nel tipo di "richiesta" alla donna, che il C. vi manifesta, sia nella ripulsa finale e nella motivazione di questa, con la violenza che necessariamente le accompagna.
L'irrequietezza, in taluni casi la vera e propria frenesia psicologica, se per un verso assume la forma classica del nomadismo, per un altro, ancor più essenziale, diventa impossibilità da parte del C. di una vera e propria collocazione sociale. Il primo aspetto precostituisce le condizioni per un accumulo di materiali impressionistici esotici e per un prevalere del paesaggio come caleidoscopio di immagini in perpetuo movimento, che sono elementi essenziali della sua poesia più matura; il secondo fornisce una base oggettiva, materiale, e una giustificazione autobiografica al suo destino di poeta assolutamente incapace di muoversi nel gioco degli interessi pratici, anche di quelli che sorreggono lo sviluppo della letteratura come istituzione e come cultura.
Ciò non significa che la poesia del C. discenda dalla dimensione patologica della sua follia. Significa invece che lo squilibrio innerva della sua "eccezionalità" o "a-normalità" una condizione umana che in ciò trova la forza per distinguersi e sapersi distinta, anche quando nella poesia, - intesa anch'essa dal C. come fatto "eccezionale", come "rottura della norma", - troverà lo strumento adeguato di espressione. Ma poiché la poesia in generale - e particolarmente nel C. - è sempre comunicazione e non-comunicazione, parola e cifra, la poesia sarà per lui al tempo stesso scioglimento della "peripezia" e sua imperitura, insormontabile conferma: liberazione e vincolo nel medesimo istante di una condizione esistenziale così concentrata in se stessa da risolvere quasi interamente la biografia nella storia di una poesia (da qui la difficoltà di scrivere una traccia biografica di un personaggio, del quale si è costretti a chiedersi talvolta se sia mai realmente esistito).
Nel 1907, secondo una ragionevole congettura, trovandosi un giorno alla stazione di Bologna, il C. fu preso all'improvviso dal desiderio di partire e, infilatosi sull'istante in un treno, raggiunse con pochi soldi in tasca Milano; di qui attraverso Domodossola passò in Svizzera, poi in Francia, dove arrivò fino a Parigi.
Il 1908 fu l'anno dei grandi viaggi. A quella data, infatti, va fatto risalire (secondo l'accurata ricostruzione fatta da G. Gerola) l'inizio di una lunga peregrinazione del C., che resta un episodio fondamentale nella sua storia umana e poetica.
Rientrato a Marradi dalla Francia, decise di ripartire e, attirato dal fascino della pampa argentina, s'imbarcò di lì a poco a Genova e raggiunse Buenos Aires. Nei mesi successivi, girovagando quasi sempre a piedi, si recò a Bahia Blanca, Montevideo, Rosario, Santa Rosa, Mendoza, esercitando i mestieri più diversi: il suonatore di triangolo nella marina argentina, lo sterratore, il garzone, lo stalliere, il portiere in un circolo, il poliziotto (ossia "pompiere"). Per ritornare in Italia, s'imbarcò clandestinamente su di una nave: scoperto, lavorò come marinaio per guadagnarsi la traversata. Giunse così a Odessa, dove la nave fece un lungo scalo. Il C. ne approfittò per aggregarsi a una compagnia di bossiaki, sorta di zingari, con i quali si recò di fiera in fiera a vendere stelle filanti. Ripartito, raggiunse Anversa, dove visitò diversi musei e vide il quadro da cui trarrà ispirazione per Il cappello alla Rembrandt. Acausa delle sue stravaganze, conobbe la prigione di Saint Gilles e poi il manicomio di Tournay (dove incontrò quella singolare figura, che gli fornì il pretesto per Il russo, una delle pagine più inquietanti dei Canti orfici). Rilasciato, passò a Parigi, e di lì tornò a Marradi.
Dal ritorno fin verso il 1912 il C. continuò a condurre un'esistenza di vagabondaggio e di inquietudine, di cui è difficile seguire tutte le tracce. Nell'aprile 1909 fu ricoverato per diciotto giorni in una clinica fiorentina per malattie nervose e mentali. Nel 1910 compì un lungo pellegrinaggio a piedi da Marradi al Falterona e alla Verna. All'incirca nello stesso torno di tempo si rifugiava, pare per parecchi mesi, presso un contadino delle montagne marradesi, alla ricerca di una pace che doveva essere propizia alla manifestazione della sua poesia.
Fra il 1911 e il 1912 rimise insieme, molto probabilmente in più riprese, i frutti di un'attività poetica che doveva aver cominciato intorno ai venti anni. Si tratta di quei quarantatré componimenti che, essendo stati trascritti dal C. su di un quaderno scolastico ritrovato in casa sua molti anni dopo la morte, compongono quella sezione delle liriche che è nota sotto il nome di Quaderno.
Lo stacco dall'atmosfera e dai risultati dei Canti orfici non è sempre marcatissimo ma pur tuttavia abbastanza evidente. L'insieme della raccoltina è soprattutto interessante perché consente d'individuare più scopertamente certe tecniche e certi metodi della sua poesia e il modo con cui egli accetta e rielabora alcuni aspetti della tradizione e altri della contemporaneità. Su di uno sfondo non del tutto contraddittorio - sia pure nel senso di un'evoluzione - con la lezione dell'ultima e grande poesia italiana di Carducci e D'Annunzio (colpisce la fulminante intuizione con cui il C. precisò la natura e il senso di questo rapporto, affermando: "Non vi sembra che un cafonismo molto carducciano possa essere una base solida per i miei giuochi di equilibrio?"), egli innesta, con animo che si direbbe "sperimentale", le suggestioni di un decadentismo disperato e notturno (alla Verhaeren) oppure di un futurismo tutto riscoperto (non si sa quanto consapevolmente) nella sua matrice simbolista (come nei componimenti Nella pampa giallastra e O poesia poesia poesia). Ma in numerosi punti (per esempio in Pei vichi fondi tra il palpito rosso e in Spiaggia,spiaggia) s'indovina già verso quali direzioni l'amalgama degli sparsi elementi sarà realizzato.
Il colorismo e la musicalità, come esiti epifenomenici di questo particolare tipo di poesia, cominciano, a configurarsi nella loro funzione più autentica di fantasma espressivo di un procedimento profondo, essenzialmente analogico e non descrittivo, il cui fine ultimo non è la rappresentazione del reale ma la sua introiezione nel dominio dello spirito, di cui la parola costituisce l'unica manifestazione autentica. A poco a poco, cioè, e con una consapevolezza teorica, che purtroppo non può essere testimoniata, ma che s'indovina altissima, il C. imbocca da solo la strada che, in un ambiente sordo o addirittura ostile, gli consentirà di realizzare una grande poesia decadente. In questo senso talune indicazioni gli verranno anche dall'esperienza crepuscolare, sebbene poi si affretti a superarle in una visione assai più alta e impegnativa della forma.
Fra il 1911 e il 1912, terminate le esercitazioni del Quaderno, il C. si rifece vivo negli ambienti universitari bolognesi. Il 22 nov. 1912 si iscrisse alla facoltà di chimica pura. L'8 dicembre pubblicava nel Papiro, foglio goliardico bolognese, Le cafard, La chimera e Dualismo;a metà febbraio del 1913 pubblicava nel Goliardo, altro foglio universitario bolognese, Torre rossa - Scorcio (i primi otto capoversi de La notte):la composizione dei Canti orfici era dunque in pieno svolgimento. Nel febbraio del '13 si trasferì presso l'università di Genova, ma verso la primavera s'imbarcò, raggiunse La Spezia e di lì la Sardegna.
Verso l'autunno del 1913 la composizione della raccolta doveva essere terminata. Nel dicembre il C. si recò da Marradi a Firenze e si presentò a Papini e Soffici, allora direttori di Lacerba, per avere un giudizio sulla propria opera.
La storia dei suoi rapporti con l'ambiente della giovane cultura fiorentina è quella di una singolare incomprensione, o meglio di una reciproca impossibilità di comunicare. È vero, infatti, che da quel momento, e per tutto l'inverno '13-'14, il C. frequentò quell'ambiente e si fece notare tra il pubblico di caffè famosi come Le Giubbe Rosse e il Paszkowski. Ma non ci sono le tracce che tra lui e quel gruppo di giovani intellettuali ambiziosi, impegnati in un tentativo di egemonizzazione anche terroristica della cultura italiana contemporanea, vi fosse un vero scambio di idee e di suggestioni. Al massimo, per Papini e per Soffici, egli resterà il "poeta pazzo", la figura singolare vestita miserabilmente, che si era presentata una sera nel loro "covo" a piatire una comprensione che la loro aridità sarebbe stata incapace naturalmente di concedere. Mentre per il C., forse pazzo, ma sensibile, e proprio in questo frangente capace di dimostrare un'alta consapevolezza di sé (da una lettera a Prezzolini del 6 genn. 1914: "Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Lei forse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fui presentato dal signor Soffici all'esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato; per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che oggi è poco comune da noi"), gli intellettualì del calibro di Papini, Prezzolini e Soffici resteranno sempre (nonostante alcune obbligatorie ritrattazioni successive) "ces chacals" che gli avevano rubato "ce qui devait être ma defense et la justification de ma vie" (come da una lettera del C. a G. Boine).
Il manoscritto dei Canti orfici era stato affidato dal C. a Papini, e da questo a Soffici che l'aveva perduto. Stanco di aspettare una risposta che non arrivava mai, il C. tornò a Marradi nella primavera del '14. Di lì richiese il manoscritto a Soffici, che fu costretto a confessare di non possederlo più.
"Per Campana fu un'altra delusione gravissima, una negligenza e trascuratezza, se non peggio, che provocarono in lui una ferita che non rimarginerà più completamente" (Gerola). Fu colto allora da un furore terribile, che si manifestò nel proposito di scendere a Firenze con un coltello in tasca per uccidere Soffici, o di spaccargli la testa con un bastone come un "sale nègre".
Dando prova tuttavia di una tenacia insospettabile in un temperamento fragile come il suo, il C. ricostruì a memoria il testo dei Canti orfici. Nel corso dell'estate 1914 il tipografo Bruno Ravagli di Marradi metteva a stampa l'opera (dietro la promessa dell'autore di garantire lo smercio delle copie) in un'edizione estremamente dimessa.
I Canti orfici comprendono ventidue componimenti, parte in prosa (le "novelle poetiche" cui il C. accenna nella lettera a Prezzolini), parte in poesia, cui vanno aggiunti altri sei componimenti, inseriti dal Binazzi nell'edizione del '28 e definitivamente portati a dieci dal Falqui nella sezione della raccolta da lui intitolata dei Versi sparsi. La prima pagina della prima edizione portava la dedica "A Guglielmo II Imperatore dei Germani l'autore dedica"; e nel frontespizio il sottotitolo "Die Tragoedie des letzen Germanen in Italien". Il C. giustificò più tardi tali inconsuete dichiarazioni di filogermanesimo con il desiderio di vendicarsi contro quegli "idioti di Marradi" "il farmacista, il prete, l'ufficiale postale", che levavano alte e fastidiose querimonie per la barbarie della guerra tedesca allora allora iniziata. Forse qualche spiegazione più profonda va cercata. Non solo quella suggerita dal Gerola, secondo cui il C. avrebbe in questo modo manifestato "la coscienza... di essere una specie di barbaro capitato sulle rive del Mediterraneo"; ma anche quella che consiste nel rilevare la corrispondenza tra questo pur epidermico germanesimo e la presenza determinante di un autore come Nietzsche all'interno della sua poesia. Non è impossibile dimostrare (si veda N. Bonifazi) che la tramatura delle idee-base dei Canti orfici (per esempio Viaggio a Montevideo, Il russo, L'incontro di Regolo) è da ricondursi ad una lettura del filosofo tedesco assai meno superficiale di quella operata molto prima dall'esteta D'Annunzio, tant'è vero che il C. vi coglie non la teorica della volontà di potenza o del superuomo ma piuttosto quella dell'"eterno ritorno" e del "dover essere quel che si è", che pure impronta, a ben vedere, certe scelte drammatiche della sua esistenza. S'intende che questo irrobustimento teorico poggia a sua volta su una chiarificazione ulteriore anche delle ragioni profonde che stanno alla base delle sue scelte più squisitamente linguistiche e stilistiche. Il C. sviluppa abilmente, infatti, l'aspetto "notturno", misterico, della sua poesia (La notte, L'invetriata, Il canto della tenebra ecc.), per farne meglio risaltare i momenti d'"illuminazione", le accensioni improvvise e vibranti, gli squarci di colore bianco sullo sfondo opaco dei grigi e dei violetti, le improvvise girandole dei colori accesi e pastosi (La chimera, La sera di fiera, Viaggio a Montevideo, ecc.). A questo punto il riallacciamento con le tecniche e l'ispirazione della grande poesia decadente straniera si fa pressoché completo, nonostante il permanere di talune scorie linguistiche dovute, più che all'inesperienza dell'autore, a certe sue inevitabili incertezze teoriche. Il nome di Rimbaud, fatto ormai più volte dalla critica, dà il senso e le dimensioni di questo riallacciamento. Si vorrebbe però precisare che l'accostamento vale non tanto nel senso di una puntuale ripresa da parte del C. dei modi del poeta francese, quanto come indicazione dell'originalità e dell'autonomia con cui il C. opera il suo scavo nel terreno magico del simbolismo europeo. La tecnica dell'illuminazione viene infatti da lui ripresa e al tempo stesso originalmente modificata accentuandone gli elementi più puramente immaginifici e verbali, in vista della costruzione di un quadro in cui, tanto per intendersi, si potrebbe dire che l'uso del linguaggio non appare molto dissimile dall'uso che del colore fa un pittore novecentesco, quando sia della taglia, ad esempio, di un Morandi o, su di un versante completamente opposto, di uno Scipione. L'elemento plastico, l'uso della spatola e del pennello, prevalgono sul lavoro d'intarsio e di cesello.
Il risultato è quasi sempre grandioso, estremamente suggestivo, ricco d'implicazioni ritmiche e semantiche.
Ultimata la stampa dei Canti orfici, il C. si recò a Firenze a più riprese, vendendo le copie dell'edizione Ravagli per le strade e ai frequentatori di caffè. Nell'autunno del 1914 componeva il Canto proletario italo-francese, pubblicato nel novembre '14 sul foglio goliardico bolognese Il cannone e poi nel 1916 sulla rivista La Riviera ligure di M. Novaro. A dicembre era a Torino, da dove venne rinviato a Marradi dalla polizia.
All'inizio della primavera del '15 ritornò a Torino e poi, attraverso Domodossola, raggiunse Ginevra dove lavorò, come operaio straordinario, presso il Comitato delle società italiane fino al 6 maggio, quando fu licenziato. Rientrato in Italia, ormai scesa in guerra, cercò di farsi arruolare, ma venne riformato. Il C. accusò il colpo, che ufficialmente lo condannava alla sua infermità: nei mesi successivi fu preso da altri malesseri e da una crescente irrequietezza.
Dopo la pubblicazione dei Canti, continuò a scrivere: Bastimento in viaggio, Arabesco-Olimpia, Toscanità. Ma le sofferenze rendevano sempre più difficile e aleatoria la continuazione da parte sua di una linea di ricerca organica e coerente. Tuttavia ancora nel corso del 1916 ci sono testimonianze della sua volontà di proseguire e rafforzare il lavoro poetico: dal rapporto positivo con nuovi amici, che rispondono ai nomi di Cardarelli e Cecchi, al progetto di fondare una nuova rivista, Il diario della nuova Italia, un organo di "umanesimo integrale", "la realtà come dimostrazione dell'attuazione dello spirito", capace di collocarsi al livello europeo. Nell'aprile si trasferì in Lastra a Signa, presso il padre; di lì, poi, a Mantignano, a Marina di Pisa, a Rifredo di Mugello. Nell'estate conobbe Sibilla Aleramo, che gli si era presentata per lettera, chiedendogli di incontrarlo. Fra i due sbocciò improvviso l'amore, che illuse il C. di una sua completa reintegrazione umana e morale e al tempo stesso finì di bruciarlo.
Il C. attribuiva alla donna un compito risanatore, che nessun essere al mondo avrebbe potuto realizzare. Quando apparve evidente che l'Aleramo, nonostante la dedizione, che la spinse a sopportare da lui per un certo periodo violenze e percosse, non era in grado di compiere il miracolo, il C. le si rivoltò contro con tutto l'astio di un'anima che si sentiva ormai condannata ed era capace di giungere fino all'aspro sarcasmo di una lettera come questa: "Egregia Sibilla, Il mio silenzio deve avervi significato che nulla è più possibile tra noi. Voi avrete dunque rinunciato al progetto del vostro viaggio quassù. Già vi dissi che preferivo uccidermi piuttosto che vivere con voi. Questa mia decisione si è consolidata. Lasciatemi dunque perdere. Sento che non potrò mai più perdonarvi. Addio dunque. Tutto è finito per sempre (8 marzo 1917).Nel "tutto è finito per sempre" c'era forse l'oscura intuizione della prossima, definitiva chiusura di un ciclo.
Prima della fine dell'anno venne definitivamente riformato dall'Ospedale militare del Maglio, e poco dopo, il 12 genn. 1918, fu necessario ricoverarlo all'Istituto fiorentino di osservazione per le malattie mentali. Il 28 seguente fu trasferito all'ospedale psichiatrico di Castel Pulci, presso Badia a Settimo. Non ne uscì più.
Della lunga degenza sappiamo soprattutto quanto ne narrò il dott. C. Pariani, suo medico curante per un certo periodo. Pare che il C. non fosse sempre tranquillo, alternasse momenti di aggressività e di confusione mentale. "Fallacie sensoriali o solo rappresentative, ossia percepite come idee immesse da altri, generano e rafforzano i deliri". Si adattava comunque al trattamento riservato ai più umili fra i ricoverati. Mostrava, ma solo a sprazzi, di conservare coscienza di ciò che era stato. Nel 1928, quando apparve una nuova edizione dei Canti orfici, curata dall'amico B. Binazzi, ne rilevò con acutezza i difetti e le illecite modificazioni. Nel novembre 1931 manifestò un notevole miglioramento nella lucidità mentale e nel controllo di sé. Ma la speranza del ristabilimento doveva risultare effimera.
Nel febbraio 1932 ebbe una ricaduta. Verso la fine del mese fu preso da violentissima febbre, originata probabilmente da setticemia. Morì il 1º marzo 1932.
La salma, interrata dapprima nel cimitero di S. Colombano a Badia a Settimo, in seguito all'invito per una sistemazione più degna lanciato da P. Bargellini nel 1938 dalle pagine del Frontespizio, fu collocata nella chiesetta del paese, ai piedi del campanile romanico. Dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale, fu risistemata sotto il pavimento della ricostruita navata.
Opere: Alla prima edizione curata dal C. stesso (Canti orfici, Marradi 1914) seguì quella curata da B. Binazzi (Canti orfici ed altre liriche, Firenze 1928), notevolmente disinvolta e scorretta. Da questa seconda edizione data il lavorio della critica sia per allargare l'arca dei componimenti già noti, sia per restituire il testo il più conformemente possibile alla volontà dell'autore. Espressione di questa sempre più estesa e accurata attività sono: Canti orfici, a cura di E. Falqui, Firenze 1941; Inediti, a cura dello stesso, ibid. 1942; Taccuino, a cura di F. Matacotta, Fermo 1949.
Una prima tappa importante del lavoro critico è Canti orfici e altri scritti, a cura di E. Falqui, Firenze 1952, che presenta già l'ossatura di una raccolta definitiva e prelude alla quinta edizione, sempre a cura di E. Falqui, Firenze 1960 (seguita da altre ediz. anche economiche), che fornisce il corpus probabilmente completo della produzione del C. (oltre ai Canti orfici integrati dai Versi sparsi, comprende il Quaderno e due ampie sezioni Da taccuini, abbozzi e carte varie). Si aggiunga un Taccuinetto faentino, a cura di D. De Robertis e con prefaz. di E. Falqui, Firenze 1960, che raccoglie una serie di abbozzi estremamente interessanti ma difficilmente databili (per altri versi, infatti, essi sembrerebbero precedere addirittura le composizioni del Quaderno, per altri seguire quelle della raccolta dei Canti orfici). Importanti anche le Lettere. Carteggio di D. C. con Sibilla Aleramo, a cura di N. Gallo e con prefaz. di M. Luzi, Firenze 1958. Un'altra edizione da tener presente è Canti orfici e altri scritti, a cura di C. Bo-A. Bongiorno, Milano 1972.
Nel 1971 (cfr. M. Luzi, Corriere della sera, 7 giugno 1971) fu miracolosamente ritrovato, fra le carte di Soffici, nella casa di Poggio a Caiano, il famoso manoscritto, che il C. aveva affidato quasi sessant'anni prima a Papini e che si era perduto nel modo che sappiamo. Esso è stato pubblicato in ediz. anastatica a cura di E. Falqui e D. De Robertis, col titolo originario Il più lungo giorno, Roma 1973, e appare assai diverso, contrariamente a quanto ci si aspettava, dalla redazione definitiva dei Canti orfici. Falqui giudica che "la vera prima edizione delle prose e delle poesie di Campana, riveduta e corretta e autorizzata dall'autore, è e resta quella dei Canti orfici. Il manoscritto de Il più lungo giorno ce ne presenta e ce ne offre una parziale lezione antecedente, che a parer nostro non è, nel suo insieme, da preferire a quella stampata in Marradi nel 1914". Successivamente a questa riscoperta è apparsa una nuova ediz. della serie vallecchiana, intitolata Opere e contributi, con prefaz. di M. Luzi, a cura di E. Falqui, Firenze 1971, voll. 2, che aggiorna le edizioni precedenti e amplia il corpus della produzione del C. fino a comprendervi pressoché tutti gli scritti conosciuti (includendovi anche le Lettere a S. Alerarno e Per una cronistoria dei "Canti orfici"di E. Falqui, più sotto cit.).
Nuove pagine per la conoscenza di D. C. sono state aggiunte dalla pubblicazione di un Fascicolo marradese inedito del poeta dei "Canti orfici", a cura di F. Ravagli, Firenze 1972, che raccoglie abbozzi e appunti inediti.
Fonti e Bibl.: Il lavoro fondam. di editore dei testi del C. da parte di E. Falqui è sfociato nella pubblicazione Per una cronistoria dei "Canti orfici", Firenze 1960 (precedentemente nota all'ediz. dei Canti curate dallo stesso Falqui), strumento insostituibile di lavoro (comprende notizie biografiche, note ai testi delle diverse sezioni dell'opera e la più completa bibliografia della critica a quella data). Ci si limita perciò a indicare le voci essenziali o i necessari aggiornamenti. Per la biografia sono da vedere le testimonianze personali di E. Cecchi nella Tribuna del 13 febbr. 1915 e del 21 maggio 1916, e nell'Italia letteraria del 17 giugno 1928 (ma cfr. Falqui, cit., p. 147); di S. Aleramo, in Il passaggio, Milano 1932-33, pp. 215 s., e in Amo dunque sono, Milano 1933, pp. 189 s.; A. Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, Firenze 1931, pp. 109-29; C. Pariani, Vite non romanzate di D. C. scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze 1938; F. Ravagli, D. C. e i goliardi del suo tempo, Firenze 1942. Risolutivo per tutta una serie di questioni è G. Gerola, D. C., Firenze 1955.
Per l'interpretazione critica del C. vasta è ormai la bibliografia, spesso però costituita da semplici articoli di giornali. Ci si limita perciò a segnalare (rimandando per un panorama completo a Falqui, cit. e a Galimberti sotto cit.): G. De Robertis, in La Voce, 30dic. 1914; G. Boine, in La Riviera ligure, agosto 1915 (ora in Plausi e botte, Firenze 1921, pp. 202-06;) C. Bo, in Frontespizio, dicembre 1937(ora in Otto studi, Firenze 1940); G. Contini, in Letteratura, ottobre 1937 (ora in Esercizi di lettura, Firenze 1939); E. Montale, in L'Italia che scrive, XXV (1942), pp. 152-154; M. Costanzo, Corazzini,Michelstaedter, C., Roma 1949 (successiv. il Costanzo è ritornato varie volte sull'argom.: cfr. Studi critici, Roma 1955, pp. 97-115); La Fiera letteraria, 14 giugno 1953, numero dedicato al C. (con scritti di L. Capelli, M. Costanzo, E. Falqui, F. Monterosso, ecc.); O. Macri, Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze 1956, pp. 107-23; M. Petrucciani, I Canti orfici. Appunti per un saggio su C., Roma 1955, e in Poesia pura e poesia esistenziale, Torino 1957; G. Mariani, in Poesia e tecnica nella lirica del Novecento, Padova 1958; F. Ulivi, D. C., in Icontemporanei, I, Milano 1963, pp. 669-90; N. Bonifazi, D. C., Roma 1964; P. V. Mengaldo, Da D'Annunzio a Montale, nel miscellaneo Ricerche sulla lingua poetica e contemporanea, Padova 1966; C. Galimberti, D. C., Milano 1967 (con un'eccellente bibliografia cronologica, che completa e chiarisce quella presentata dal Falqui, cit.); E. Sanguineti, introduzione a Poesia italiana del Novecento, Torino 1969, pp. LIV ss.; M. Del Serra, Catal. della mostra bio-bibliogr. su D. C. nel Gabinetto scientif-lett. Vieusseux, Firenze 1973. Ultimi importanti contributi alla critica campaniana sono: M. Del Serra, D. C. Firenze 1974, e AA.VV. Dino Campana oggi, ivi 1974 (atti del convegno svoltosi a Firenze il 18-19 marzo 1973.