RISI, Dino
RISI, Dino. – Nacque a Milano il 23 dicembre 1917 da Arnaldo e da Giulia Mazzocchi che ebbero altri due figli, Mirella (1916-1977) e Nelo (1920-2015), tra i più importanti poeti della generazione postermetica e anch’egli regista cinematografico.
Cresciuto in una famiglia della media borghesia ricca di artisti, letterati e anarchici, ricevette un’educazione laica («Da ateo, ero esonerato dalla lezione di religione, potevo entrare più tardi e saltare la prima ora, ero invidiatissimo», Compagni registi col portafoglio a destra, intervista di Barbara Palombelli, in Corriere della sera, 14 maggio 2005, p. 35). Duramente colpito all’età di dodici anni dalla prematura morte del padre, medico otorinolaringoiatra lungamente in servizio presso il Teatro alla Scala, frequentò il liceo ginnasio Giovanni Berchet dove strinse amicizia con il futuro regista Luciano Emmer e con Walter Molino, già promettente disegnatore del Bertoldo, che lo convinse a collaborare in qualità di battutista alla rivista satirica pubblicata dalla Rizzoli e diretta da Cesare Zavattini, Giovanni Mosca e Vittorio Metz. Nel 1941 venne scritturato in circostanze fortuite da Alberto Lattuada, allora aiuto-regista di Mario Soldati, per lavorare come assistente alla regia in Piccolo mondo antico e divenne a sua volta aiuto di Lattuada nel primo film da lui diretto, Giacomo l’idealista (1943). Chiamato alle armi nella primavera del 1941, venne assegnato alla caserma «del 42° fanteria di Fossano in Piemonte» (I miei mostri, 2004, p. 47). Nel giugno del 1943 fu assegnato al corso allievi ufficiali ad Avellino, ma avendo contratto l’epatite virale fu rimandato a Milano dove patì i bombardamenti a tappeto degli aerei angloamericani.
Dopo l’8 settembre, con il fratello e un gruppo di amici, tra cui Giorgio Strehler, Franco Brusati, Giansiro Ferrata e Livio Garzanti, fu internato in varie località svizzere e, all’indomani dello sbarco in Normandia, si rifugiò insieme a migliaia di connazionali militari o sbandati a Murren, nell’Oberland bernese (I miei mostri, 2004, p. 161). Qui conobbe Claudia Mosca, figlia ventenne del medico del paese che, rincontrata a Milano un anno dopo la fine della guerra, divenne sua moglie e madre dei figli Claudio (1948) e Marco (1951), in futuro entrambi registi. Si laureò in medicina, ma nonostante la specializzazione ottenuta presso l’ospedale di Pavia e alcuni mesi passati a lavorare al manicomio di Voghera, prima iniziò a scrivere racconti, articoli e recensioni per testate come Il giorno, La Fiera letteraria, Milano sera e Tempo illustrato, e successivamente si dedicò stabilmente al cinema girando tra il 1946 e il 1950 alcune pubblicità e numerosi documentari.
Di questa produzione restano degni di nota I bersaglieri della signora (1946), dedicato ai pensionati dell’ospizio milanese della Baggina, Barboni (1946) che vinse un premio alla Mostra di Venezia, Strade di Napoli (1947) e Cortili (1947), tutti di moderato taglio neorealista, e Il siero della verità (1949) e Fenomeni dell’inconscio (o Seduta spiritica, 1949) chiaramente ispirati alla mancata carriera di psichiatra. Più strutturato sul piano narrativo si rivelò Buio in sala, girato nel 1949, che descrive l’iniezione di autostima che un malmesso piazzista della disastrata Milano del dopoguerra riceve quando decide di entrare in una sala cinematografica: senza che venga mai inquadrato lo schermo, le immagini, le musiche e gli effetti sonori dei film si rispecchiano sulle mutevoli e rapite espressioni del pubblico e del protagonista, che alla fine uscirà rinfrancato e apparentemente cresciuto nella considerazione dei passanti.
Il cortometraggio piacque a Carlo Ponti che lo acquistò per due milioni e lo distribuì qualche anno dopo come prologo di Le infedeli (1953) di Steno e Mario Monicelli. Sollecitato dal produttore a trasferirsi a Roma, Risi iniziò a collaborare regolarmente alla stesura di soggetti e sceneggiature (Anna, Totò e i re di Roma, Gli eroi della domenica) ed esordì dietro la macchina da presa con Vacanze col gangster (1952), film d’avventura per ragazzi scritto con Ennio De Concini e interpretato, tra gli altri, da Lamberto Maggiorani reduce da Ladri di biciclette (1948) e dall’esordiente Mario Girotti, il futuro Terence Hill degli spaghetti western. Della stessa affabile quanto fragile consistenza si rivelò Il viale della speranza (1953), mentre l’episodio Paradiso per tre ore del film collettivo L’amore in città (1953), l’esilarante Il segno di Venere (1955) con Franca Valeri, ideatrice anche del soggetto, e Pane, amore e… (1955), terzo capitolo della serie iniziata da Luigi Comencini due anni prima, dimostrarono che il giovane regista era in grado di rinvigorire il filone popolare ottenendo un ottimo rendimento da attori smaliziati come Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Alberto Sordi, o dive emergenti come Sophia Loren. Questi ultimi due titoli, girati al termine di un breve trasferimento in Brasile dove non si era concretizzato un progetto di lavoro stabile ideato dagli amici Fabio Carpi, Luciano Salce e Adolfo Celi, lo videro cooptato nella squadra della Titanus, la storica società di produzione e distribuzione che stava impegnandosi a rifondare i canoni della commedia a dispetto delle virulente accuse di ‘tradimento’ formulate dai custodi dell’ortodossia neorealista. Con la trilogia Poveri ma belli, Belle ma povere e Poveri milionari (1956-59), scritti insieme a Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, consacrò la scelta della capitale quale set ideale del cosiddetto neorealismo rosa: il primo e più riuscito titolo, in effetti, sbancò il box office anche grazie all’ardito, ma in fondo timorato, modello di ragazza proposto dall’inedita ‘maggiorata fisica’ Marisa Allasio e divenne un caso di costume grazie alle gag e alle battute improntate a una scanzonata esuberanza giovanile a quel tempo ritenuta artisticamente e politicamente riprovevole (il critico marxista Guido Aristarco lamentò al proposito «il passaggio dal neorealismo al neoerotismo», Poveri ma belli, in Cinema nuovo, VI (1957), 101-102, p. 155). L’ingresso negli anni Sessanta sancì la sua affidabilità professionale, ma se Il vedovo (1959) e Un amore a Roma (1960) misero in evidenza una vena più acre e malinconica, Il mattatore (1960) segnò il cruciale incontro con l’interprete preferito nonché autentico amico Vittorio Gassman, del quale non smise negli anni successivi di affinare l’impetuoso virtuosismo istrionico. Tra il 1961 e il 1963, grazie anche all’intesa cementata con i principali sceneggiatori dell’apogeo della commedia ormai denominata ‘all’italiana’, Rodolfo Sonego, Age e Scarpelli, Ettore Scola, Ruggero Maccari, diresse tre dei suoi capolavori, Una vita difficile (1961), Il sorpasso (1962) e I mostri (1963).
Nel primo, la memorabile incarnazione di Sordi nel personaggio di Silvio Magnozzi tramanda la sintesi di un tumultuoso periodo della nostra storia, dalla fine della seconda guerra mondiale all’era del miracolo economico. Lo sguardo di Risi si concentra sulle tragicomiche avventure del protagonista, prima partigiano suo malgrado, poi giornalista comunista, intellettuale squattrinato, marito abbandonato, adepto del cinema impegnato e infine portaborse di un volgare industrialotto, riuscendo a fare affiorare un imbarazzante identikit nazionale dall’umanissimo groviglio di codardia e coraggio, idealismo e velleitarismo, umiliazione e ribellione. In Il sorpasso va in scena la breve vita felice del timido studente Roberto (Jean-Louis Trintignant) trascinato nell’inebriante corsa alla riscoperta di se stesso dall’aitante Bruno (Gassman), campione di tutta l’incultura, la sbruffonaggine, l’arte di arrangiarsi, la furbizia e la futilità che il Belpaese potesse offrire in quell’epoca. I due occasionali conoscenti risalgono la via Aurelia dalla desertica Roma ferragostana sino alle spiagge della Versilia a bordo della Lancia Aurelia gran turismo B24 color grigio, destinata a diventare mitica, in un viaggio costellato di incontri spassosi e dialoghi al fulmicotone («L’hai visto L’eclisse? Io ci ho dormito, una bella pennichella. Bel regista Antonioni, c’ha una Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allungà il collo») e scandito dalle migliori canzoni allora in voga, che sfocia in una sorta di tragica inversione dei destini. La peculiarità del film – amatissimo in Francia dove fu distribuito con il significativo titolo Le fanfaron – si basa sulla convinzione che il segreto della vita risieda nell’impossibilità di ingabbiarla in un modello unico o di redimerla: castigando, infatti, i vizi del cialtrone, Risi non può fare a meno di condividerne l’indiavolato vitalismo perché se i riti degli italioti neobenestanti sono letali, sarebbe un crimine non lasciarsi andare all’euforia di una bella giornata, una sosta in trattoria, un ballo sulla spiaggia, un fugace amplesso. Il terzo titolo, oltre a suggerire l’appellativo (i mostri della commedia all’italiana) che identificherà per sempre i mattatori del sottogenere, presenta al pubblico una galleria in venti episodi – i due più corti durano 30 secondi, il più lungo 17 minuti – di impresentabili connazionali interpretati da Gassman e Ugo Tognazzi, vincitori del premio di migliori attori al festival di Mar del Plata. Perfide parodie, caricature grottesche, flash al vetriolo che, inventando o rubando alla cronaca personaggi cretini, vanesi, turpi, patetici, accentuano un punto di vista radicale che fustiga il costume contemporaneo senza usare riguardi per niente e nessuno.
Affascinante, elegante, schivo, blasé anche nell'esprimersi con l'intonazione della voce e annessa erre francese identiche a quelle di Gianni Agnelli, Risi non smise per i quarant’anni successivi di girare film, episodi di film collettivi e film TV e di coltivare negli esigui intervalli di inattività le attitudini e le abitudini del bon vivant. Separatosi dalla famiglia, si stabilì definitivamente in un residence dei Parioli, astenendosi dal frequentare gli habitués e condividere i tic degli ambienti artistici romani. Si guadagnò, così, anche a causa della sua passione per gli aforismi scorretti e gli epigrammi irridenti, in tarda età anche pubblicati in alcuni volumetti come Versetti sardonici (Roma 1995) o Vorrei una ragazza (Milano 2001), la reputazione di cineasta ‘di destra’ («Nel nostro ambiente erano tutti comunisti o socialisti […]. Io non sono mai stato né comunista né democristiano […]. Quando con Pietro Germi ci siamo azzardati a elogiare Saragat, le teste pensanti del cinema ci hanno messo in quarantena, in punizione. La verità è che il Sessantotto prese di sorpresa i grandi intellettuali […]: diventarono tutti più realisti del re, volevano cambiare il mondo, io li trovavo ridicoli», Compagni registi col portafoglio a destra, cit.).
Tra il 1964 e il 1973 alle commedie di sbrigativa quanto brillante routine come Il gaucho (1964), Il tigre (1967), Il profeta (1968), Vedo nudo (1969), La moglie del prete (1971), Mordi e fuggi (1973) o Sessomatto (1973), riuscì ad affiancare opere maggiormente in sintonia con gli umori personali: da Il giovedì (1964), con un crepuscolare Walter Chiari, al malizioso ritratto coniugale di L’ombrellone (1965), dall’esilarante ‘colpo grosso’ alla napoletana Operazione San Gennaro (1966) in cui tre gangster americani rubano il tesoro del santo patrono con l’aiuto di pittoreschi malviventi locali, premiato al festival di Mosca, all’estroso compendio di sottocultura canzonettistica di Straziami, ma di baci saziami (1968) e soprattutto al feroce In nome del popolo italiano (1971), in cui – come in una profetica lettura della futura Tangentopoli italiana – l’integerrimo ma fazioso magistrato interpretato da Tognazzi occulta le prove a discarico pur di incastrare l’imprenditore reazionario e corrotto portato in scena da Gassman. A metà del decennio Risi riuscì finalmente a ottenere maggiori consensi dai recensori, nonché lusinghieri attestati in patria e all’estero (David di Donatello 1975 come miglior regista, premio a Gassman per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes 1975, premio César del 1975 al miglior film straniero uscito in Francia, nomination agli Oscar del 1976 per il miglior film straniero e per la migliore sceneggiatura non originale di Risi e Maccari) grazie a Profumo di donna (1974) tratto dal romanzo di Giovanni Arpino Il buio e il miele (Milano 1969).
L’andamento rapsodico del viaggio da Torino a Napoli dell’ufficiale Fausto, rimasto cieco in seguito a un incidente e deciso per questo a suicidarsi, rende credibile la trasformazione della spavalderia del protagonista in una dolorosa consapevolezza che forse gli consentirà il recupero della capacità di amare. Il ruolo di Gassman, gremito di performances virtuosistiche e in grado di perfezionare le affinità elettive con il regista, non a caso fu voluto e ripreso da Al Pacino nel remake americano Scent of a woman (1992) di Martin Brest che gli fece vincere nel 1993 l’Oscar come miglior attore protagonista.
Ormai eletto al rango di maestro dai maggiori critici d’Oltralpe – tanto da fare inventare dalla critica francese il neologismo dinorisien per identificare le tendenze più aggressive e trasgressive del genere brillante – , Risi alternò successivamente titoli di solida routine come Primo amore (1978), Caro papà (1979), Sono fotogenico (1980, impareggiabile spaccato del sottobosco cinematografico romano), Sesso e volentieri (1982) e numerosi episodi di film a più mani tra cui I nuovi mostri del 1977 – firmato collettivamente con Monicelli e Scola e insignito agli Oscar del 1979 di un’altra nomination per il miglior film straniero –, ai chiaroscuri tra il noir e il mélo di Anima persa (1977), La stanza del vescovo (1977) e Fantasma d’amore (1981).
Nel primo, ancora tratto da un romanzo di Arpino e ambientato nelle gotiche atmosfere di una Venezia invernale, il tema di Jekyll e Hyde è rielaborato sul personaggio di Gassman, l’austero zio che, con la complicità della sfiorita consorte (Catherine Deneuve), cerca di nascondere al nipote studente ospite del suo palazzo un inquietante segreto. La stanza del vescovo, tratto da un best seller di Piero Chiara, è uno dei film più felici della maturità grazie anche al protagonista interpretato da Tognazzi, il grossolano e maturo dongiovanni perseguitato dalla moglie megera e schiavo d’amore della torbida e avvenente cognata interpretata da Ornella Muti. In questo blando giallo, ambientato sulle sponde del Lago Maggiore nella prima estate del dopoguerra, si compendiano, infatti, i leitmotiv della nonchalance risiana: il vagabondaggio, l’amicizia fra il vecchio e il giovane, l’edonismo disincantato, lo sberleffo ai guardiani della morale e il sapore di una libertà assaporata sino in fondo e poi perduta per sempre. Con qualche eco dell’hitchcockiano La donna che visse due volte (1958), il terzo film si concentra sugli ambigui meccanismi del rimpianto: aderendo alle suggestioni paranormali prefigurate dall’omonimo romanzo di Mino Milani, il protagonista Mastroianni si convince di potere riassaporare la felicità delle stagioni d’amore condivise con una donna (Romy Schneider) che è tornato a incontrare, anche se tutti sanno che è morta da anni. Si intuirà, infine, che il delirio amoroso immerso nelle atmosfere di una Pavia ora epicurea, ora spettrale rappresenta lo scivolamento di un uomo stanco e amareggiato in una sorta di dolce follia.
Con …E la vita continua, saga familiare lombarda scritta con Giorgio Arlorio e Bernardino Zapponi, iniziò nel 1986 a lavorare per la televisione dimostrandosi a proprio agio con il nuovo linguaggio e procurando un’audience di più di tredici milioni di spettatori alle otto puntate trasmesse da RaiUno. Molto meno riusciti apparvero i successivi titoli realizzati per il piccolo schermo, dagli episodi Carla e Il vizio di vivere delle miniserie Quattro storie di donne e Amori, a Missione d’amore e al remake di La ciociara prodotto da Canale 5, in cui tornò a dirigere la Loren che vi reinterpreta l’umiliato eppure indomito personaggio del classico di De Sica; con l’eccezione delle due puntate di Vita coi figli (cinque milioni di spettatori ancora su Canale 5 nel 1991), meno flebili grazie anche alla convincente prova del protagonista Giancarlo Giannini.
Nel 1990 tornò a lavorare con Gassman in Tolgo il disturbo, il quindicesimo e ultimo film girato in comune che, ispirato alle conseguenze della ‘legge Basaglia’, racconta con eccessi di grigiore e pietismo l’arduo reinserimento in famiglia di un sessantenne dimesso, dopo vent’anni di internamento, da una clinica per malattie mentali. Nel corso degli anni Novanta diradò progressivamente l’attività e, anche grazie al mutato atteggiamento della critica italiana favorito dal ricambio generazionale, fu gratificato da numerose rassegne e omaggi e soprattutto da importanti riconoscimenti tra cui il Leone d’oro alla carriera conferitogli dalla Mostra del cinema di Venezia del 2002 diretta da Moritz De Hadeln, il David di Donatello speciale (2005) e l’onorificenza di cavaliere di Gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana (2004) per iniziativa del presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Lucido e autonomo sino agli ultimi giorni nonostante le sopravvenute disfunzioni cardiache, fu trovato esanime sul divano dell’appartamento del suo residence a Roma la mattina del 7 giugno 2008.
Fonti e Bibl.: L’unica quanto incisiva monografia su Risi è restata a lungo quella di Aldo Viganò (D. R., Milano 1977), anche se Lorenzo Codelli aveva anticipato la coraggiosa rivalutazione scrivendo vari saggi e interviste sulla rivista francese Positif sino dal 1972. Un saggio estroso e documentato è senz’altro Il sorpasso: 1962-1992. I filobus sono pieni di gente onesta, a cura di O. De Fornari, Roma 1992; mentre in D. R. – Maestro per caso di V. Caprara, Roma 1993, oltre al saggio critico sono raccolti scritti editi e inediti, appunti e idee per film non realizzati e un semiserio ‘dizionarietto dello spettacolo’ del regista. L’evento speciale svoltosi nell’ambito della Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro del 1993, curato da Roberto Turigliatto, costituisce la pietra miliare della bibliografia risiana grazie ai due volumi pubblicati in supporto al programma delle proiezioni: il quaderno I film di D. R., a cura di S. Parigi, Pesaro 1993, e il collettaneo Mordi e fuggi: la commedia secondo D. R., a cura di V. Caprara, Venezia 1993. Da menzionare, accanto a D. R. di Paolo D’Agostini, Milano 1995, e al divagante e semiserio montaggio autobiografico I miei mostri, Milano 2004, anche due documentari: Incontro con D. R. (2001), a cura di V. Caprara, prodotto per la serie Archivio della memoria della Scuola nazionale di cinema-CSC, e Una bella vacanza (2006), a cura di F. Corallo, realizzato da 3D Produzioni per RaiTre, premiato con una menzione speciale dei Nastri d’argento e presentato in diverse manifestazioni internazionali, tra cui la rassegna 41esimo Parallelo del MoMA di New York.