Dio
Essere supremo, concepito e venerato quasi universalmente quale creatore e quale ordinatore dell’Universo.
La fantasia creatrice di miti tende a fissare in modo concreto e preciso i caratteri distintivi degli esseri superiori, che essa riconosce agenti nel mondo della natura e degli uomini, i quali a loro si rivolgono nel culto; a ciò concorrono spesso la poesia e le arti figurative. Ogni divinità del vero e proprio politeismo (in ciò distinto dal polidemonismo) acquista una personalità mitica e culturale; gli dei – talvolta anche in seguito all’intervento di una classe sacerdotale, come per es. in Egitto; talvolta per l’influsso esercitato da poeti quali Omero ed Esiodo – secondo una celebre frase di Erodoto vengono considerati come una società organizzata, in modo affine a quella umana, con vincoli di parentela e di più o meno stretta dipendenza gerarchica. Anche nei casi in cui la rappresentazione è aniconica, o l’immagine si distacca da quella della figura umana (sia per un ricordo dell’antica concezione di una divinità come animale, sia al fine di esaltare mediante le forme mostruose la superiorità del dio sull’uomo, come in India, sia per altra ragione), le qualità psichiche e morali e le azioni attribuite agli dei sono umane.
Entro certi limiti, ciò si verifica anche presso il popolo ebraico il cui monoteismo (prescindiamo qui dal problema dell’origine e della definizione del monoteismo stesso, e da quello della credenza dei primitivi in un Essere supremo) si distingue nettamente nell’ambito dell’antichità precristiana; e sono d’uso rappresentazioni antropomorfiche nell’Antico Testamento. Ma il profetismo ebraico mette in evidenza l’inconsistenza degli idoli e, soprattutto, riconosce in Dio il dominatore del mondo da lui creato e della storia: è lui che si serve dei popoli (quelli appunto che non credono in lui e combattono e opprimono gli Ebrei) come di suoi strumenti. Inoltre, il giudaismo, contro le dottrine della responsabilità collettiva (i figli scontano le colpe dei padri) e della retribuzione che consiste in beni terreni (chi vive bene è felice in questa vita, e viceversa), afferma la responsabilità individuale e, di fronte alla constatata esistenza del male nel mondo e delle sofferenze dei giusti, sostiene il carattere misterioso e imperscrutabile della Sapienza e Provvidenza divina.
Dal problema dei rapporti tra l’azione dell’uomo e quella di Zeus e la Moira, il pensiero greco passa a quelli dell’origine, della natura e del fine dell’Universo e dell’uomo e, nell’atto in cui li affronta con cosciente chiarezza e coerenza logica, formula anche, già con Eraclito e Senofane, la critica radicale della pur prevalente religione politeistica tradizionale. Questa resiste anche all’assalto dei misteri, pur essi preoccupati di liberare l’uomo dal male, cui tendono ad attribuire origine autonoma (onde la contrapposizione dei due principi in un dualismo, che potrà essere più o meno radicale) e ad assicurargli una redenzione e la beatitudine nell’aldilà. Il pensiero greco, pur conoscendo varie forme di ateismo e di polemica antireligiosa (Diagora, Crizia, Teodoro di Cirene), elabora un’alta e complessa teologia con Platone (dottrina del demiurgo) e con Aristotele (Dio come motore immobile, attualità pienamente realizzata e «pensiero di pensiero»). Questa teologia filtrata attraverso il panteismo fatalistico dello stoicismo confluisce nel più vasto ambito della religiosità ellenistica preparando così le vaste elaborazioni teologiche del neoplatonismo. Pertanto, una storia del ‘problema di Dio’ coincide, nella più ampia accezione includente tanto le posizioni positive quanto le negative, le religiose e le etico-filosofiche, con l’intera storia del pensiero e della religione, quindi della civiltà; sicché giova piuttosto segnalare le questioni fondamentali e le posizioni estreme tra le quali la speculazione filosofica e teologica si è mossa.
Le differenze tra l’atteggiamento puramente religioso e quello meramente filosofico si fanno evidenti quando si consideri ciascuno dei tre problemi fondamentali: natura di Dio, suoi rapporti col mondo, sua conoscibilità. Rispetto al primo, dal punto di vista del puro pensiero razionale, Dio può essere concepito ontologicamente, come principio supremo della realtà (e quindi o come puro essere o come causa trascendente del mondo o come causa prima e insieme finale dell’Universo), oppure dal punto di vista logico (quindi come principio supremo dell’ordine del mondo, della ragione nell’uomo, della corrispondenza tra il pensiero e le cose), o anche, assiologicamente, come valore assoluto; il sentimento religioso, invece, si rivolge in vari modi a Dio come persona. Il secondo problema comporta varie soluzioni riconducibili alle tre seguenti: quella dualistica, o teistica, che considera Dio come assoluto trascendente distinto dal mondo finito; quella monistica o panteistica, che lo considera invece quale principio interiore del mondo, immanente a esso; quella naturalistica che, in nome dell’autosufficienza della realtà naturale, nega la necessità di ricorrere a Dio per spiegare la natura. Ma è già a questo punto chiaro che il rapporto tra le diverse posizioni rispetto a questi due problemi non è univoco, per cui a una posizione presa rispetto al primo debba necessariamente seguire, e sia di fatto seguita nel corso della storia, una determinata posizione rispetto al secondo; e soprattutto, che la posizione che si è detta essenzialmente religiosa non è assolutamente e necessariamente contrastante con quella filosofica. Anzi, esse possono benissimo accordarsi e completarsi armonizzandosi a vicenda. Lo stesso va detto a proposito del terzo problema, quello della conoscibilità di Dio, circa il quale le due tesi estreme sono quella che si può chiamare intellettualistica (e in pari tempo ontologica), per cui Dio è oggetto di un’apprensione immediata dell’intelletto, e quella agnostica o della inconoscibilità di Dio per l’intelletto umano: onde le correnti fideistiche o pragmatistiche, e simili, che insistono tutte sul concetto di Dio, secondo l’espressione di Pascal, sensibile (cioè percettibile) «al cuore, non alla ragione». A tali correnti si riattaccano in qualche modo quelle che, sottolineando non solo la trascendenza di Dio, ma anche il suo distacco dal mondo finito, sostengono che l’essenza e gli attributi di Dio non possono essere definiti se non negativamente (la cosiddetta via negationis o anche «teologia negativa» o «apofatica»: poiché l’uomo non può usare se non termini umani, questi non possono applicarsi a Dio, il quale dunque non è buono, intelligente, ecc. secondo modalità umane, e se ne deve considerare invece l’infinità, incorporeità, immaterialità, e appunto ineffabilità e inconoscibilità). Si contrappone a essa l’altra tendenza che, senza negare la trascendenza di Dio, ritiene che di lui e dei suoi attributi l’uomo possa parlare via eminentiae, cioè positivamente («teologia affermativa» o «catafatica»), considerando in lui gli aspetti e le forme della vita, esaltati al massimo, come assoluta perfezione (spiritualità, onnipresenza, onnipotenza; somma bontà, bellezza ecc.). A queste due posizioni, che possono essere anche meramente intellettualistiche, corrispondono però anche atteggiamenti religiosi diversi, per cui l’uomo può sentire, di fronte a Dio, soprattutto la propria pochezza, o addirittura nullità, oppure avvertire in sé, nel più profondo dell’anima, un raggio della divina sapienza e virtù: quell’«illuminazione interiore» che rende possibile ogni conoscenza, quindi anche Dio, ciò che i primi cristiani hanno chiamato la «teopoiesi», cioè l’adeguarsi a Dio, l’unione con lui. Atteggiamento mistico, codesto, cui fa riscontro quello di altri mistici, i quali hanno sottolineato piuttosto l’altro aspetto e adottato la via negationis; e in realtà i due atteggiamenti, se pure in determinate personalità storiche prevale l’uno o l’altro, devono piuttosto considerarsi come complementari. Inoltre, anche il sentimento della finitezza e pochezza dell’uomo di fronte a Dio, e nello stesso tempo della fiducia in lui, è, nell’uomo religioso, atteggiamento della creatura di fronte al Creatore, trascendente e perfettissimo, Signore del mondo, in relazione (benché non immedesimato) con esso, e personale.