Dio
Nelle opere machiavelliane D. ricorre in quattro accezioni principali: come creatore e reggitore dell’universo che interviene nelle vicende umane; come ultima consolazione degli afflitti e degli innocenti; come fondamento dei buoni ordini politici e in particolare della libertà repubblicana; come ispiratore e amico dei fondatori di Stati e dei redentori politici.
Di D. come creatore e reggitore M. scrive per esempio nel capitolo “Dell’Ambizione” (vv. 16-30), dove tuttavia menziona anche un potere occulto nascosto nei cieli:
Di poco avea Dio fatto le stelle, / el ciel, la luce, li elementi e l’uomo, / dominator di tante cose belle; / e la superbia delli angeli domo; / di Paradiso Adam fatto rebello / con la su’ donna pel gustar del pomo; / quando che – nati Cain ed Abello / col padre loro e della lor fatica / vivendo lieti nel povero ostello – / potenzia occulta che ’n ciel si nutrica / tra le stelle che quel girando serra, / alla natura umana poco amica, / per privarci di pace e porci in guerra, / per torci ogni quiete et ogni bene, / mandò duo furie ad abitar in terra.
Nel cosmo di M., accanto, o al disotto, forse, di D. abitano i cieli e la Fortuna. I primi governano i moti regolari: i cicli della decadenza e del progresso, della morte e della rinascita, della corruzione e della rigenerazione e ordinano in modo generale il corso di tutte le cose del mondo, in particolare i «corpi misti», ovvero le repubbliche e le sette religiose. La seconda è signora degli eventi casuali e contingenti, usa il suo immenso potere sulle cose del mondo in modo arbitrario «sanza pietà, sanza legge o ragione». Spesso «e’ buon sotto e’ piè tiene, /l’improbi innalza e, se mai ti promette cosa veruna, mai te la mantiene» (“Di Fortuna”, vv. 28-30).
Un D. che permette la presenza di una forza occulta nel cielo con tanto potere sulle cose del mondo, e lascia che la capricciosa e furiosa Fortuna tormenti i mortali, non è il D. cristiano che governa la natura e il mondo umano per mezzo della Provvidenza. Sembra un D. che deve competere con i cieli e con la fortuna per poter intervenire nelle cose del mondo, anziché servirsi degli uni e dell’altra. Assai poco in armonia con la visione cristiana sono anche le considerazioni di M. sulla eternità del mondo (→), ipotesi che, sia pure con qualche cautela, accoglie:
A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno, credo che si potesse replicare che, se tanta antichità fusse vera, e’ sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che cinquemila anni; quando e’ non si vedesse come queste memorie de’ tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali, parte vengono dagli uomini, parte dal cielo (Discorsi II v 1).
Molti, ed eloquenti, sono i riferimenti a D. che interviene nelle vicende umane. Nelle Istorie fiorentine, per esempio, D. interviene per aiutare Firenze (VII xix); e nella stessa opera D. manifesta il suo potere immenso con eventi naturali straordinari:
Ma tornando alle cose di Italia, dico come e’ correva l’anno 1456, quando i tumulti mossi da Iacopo Piccinino finirono, donde che, posate le armi dagli uomini, parve che Iddio le volessi prendere egli, tanta fu grande una tempesta di venti che allora seguì, la quale in Toscana fece inauditi per lo adietro e a chi per lo avvenire lo intenderà maravigliosi e memorabili effetti (VI xxxiv).
Quando si tratta di aiuti straordinari, M. non distingue fra D. e gli dei pagani:
e se Dio non ci adiuta di verso mezodì, come gli ha fatto di verso tramontana, ci sono pochi rimedii; perché, come gli ha impedito a costoro [i lanzichenecchi che scendevano verso Roma] gli adiuti della Magna con la ruina d’Ungheria, così bisognerebbe impedissi quelli di Ispagna con la ruina della armata; onde noi aremmo bisogno che Junone andasse a pregare Eolo per noi, e promettessigli la contessa e quante dame ha Firenze, perché dessi la scapula a’ venti in favor nostro (lettera a Bartolomeo Cavalcanti, 6 ott. 1526).
M. evoca D. quale ultima consolazione e ausilio degli afflitti nelle Istorie fiorentine I v, trattando delle guerre religiose che sconvolsero l’Africa ai tempi di Arcadio e Onorio. Ma la medesima immagine di D. misericordioso affiora anche nelle lettere private. Il 26 giugno 1513, uscito da pochi mesi dal carcere, confida al nipote Giovanni Vernacci:
io ho avuto dopo la tua partita tante brighe, che non è maraviglia che io non ti abbia scritto, anzi è piuttosto miracolo che io sia vivo, perché mi è suto tolto l’uffizio, e sono stato per perdere la vita, la quale Iddio e la innocenzia mia mi ha salvata; tutti gli altri mali, e di prigione e d’altro ho sopportato: pure io sto, con la grazia di Iddio, bene, e mi vengo vivendo come io posso, e così mi ingegnerò di fare, sino che i cieli non si mostrino più benigni.
In una drammatica lettera a Francesco Guicciardini del 17 maggio 1526, M. si appella tre volte a D. per convincere l’interlocutore (e il papa) a combattere apertamente l’orda dei lanzichenecchi che hanno passato le Alpi: «questa occasione per l’amor di Iddio non si perda»; «provvedete, per l’amor di Iddio, ora in modo che S.S.tà ne’ medesimi pericoli non ritorni»; «ora Iddio ha ricondotto le cose in termine, che il papa è a tempo a tenerlo». Invoca ancora D., due volte, nella sua ultima lettera a Vettori, il 18 aprile 1527: «E, per lo amor di Iddio, poiché questo accordo non si può avere, tagliate subito la pratica»; «Ma chi gode nella guerra, come fanno questi soldati, sarebbono pazzi se lodassino la pace. Ma Iddio farà che gli aranno a fare più guerra che noi non vorremo».
D., e in particolare il timore di D., sono per M. sostegno indispensabile dei buoni ordini politici. Il timore di Dio rende sacro il giuramento dei soldati, e dunque è necessario per avere buoni eserciti:
Valeva assai, nel tenere disposti gli soldati antichi, la religione e il giuramento che si dava loro quando si conducevano a militare; perché in ogni loro errore si minacciavano non solamente di quelli mali che potessono temere dagli uomini, ma di quegli che da Dio potessono aspettare. La quale cosa, mescolata con altri modi religiosi, fece molte volte facile a’ capitani antichi ogni impresa, e farebbe sempre, dove la religione si temesse e osservasse (Arte della guerra IV 141-42).
Quando era segretario, per rafforzare il timore di D., aveva inserito nella Provisione della ordinanza che istituiva la milizia (1506) una descrizione dettagliata della cerimonia solenne del giuramento:
il quale commessario o deputato, come di sopra, debba la mattina seguente, che saranno il dì d’avanti convenuti insieme, fare dire una messa solenne dello Spirito Santo in luogo che tutti i ragunati l’odino; dipoi la messa, il deputato debba fare loro quelle parole che in simile cerimonia si convengano; dipoi leggere loro quanto per loro si debba observare, e darne loro solenne giuramento, faccendo ad uno ad uno tocare il libro de’ santi Evangeli (§ 59).
Dove manca il timore di D., non possono invece darsi buoni eserciti. L’Arte della guerra contiene a tal proposito un passo eloquente:
Per quale Iddio, o per quali santi gli ho io a fare giurare? Per quei ch’egli adorano, o per quei che bestemiano? Che ne adorino non so io alcuno, ma so bene che li bestemmiano tutti. Come ho io a credere ch’egli osservino le promesse a coloro che ad ogni ora essi dispregiano? Come possono coloro che dispregiano Iddio, riverire gli uomini? (VII 219-23).
Il timore di D. e il giuramento sono l’ultima difesa alla quale i popoli possono ricorrere quando è in pericolo la libertà.
Dopo la rotta che Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme, e sbigottiti della patria si erano convenuti abbandonare la Italia e girsene in Sicilia; il che sentendo, Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano li costrinse a giurare di non abbandonare la patria (Discorsi I xi 5).
Livio, nel luogo che M. commenta (Ab urbe condita XXII 53), mette in rilievo il terrore che Scipione ispirò ai cittadini che volevano abbandonare la patria: «sbigottiti non meno che se si vedessero innanzi Annibale vincitore, tutti giurarono, e si consegnarono in custodia a Scipione». M. insiste piuttosto sull’importanza della religione di fronte al pericolo estremo, quando le leggi e l’amore della patria, pur fortissimo come era quello dei Romani, non sono più in grado di vincere la paura e mantenere viva la determinazione di difendere la libertà anche a costo della vita: «E così quelli cittadini i quali lo amore della patria, le leggi di quella non ritenevano in Italia, vi furono ritenuti da un giuramento che furono forzati a pigliare» (Discorsi I xi 7). Utile in ogni ordine politico, il timore di D. è nelle repubbliche indispensabile:
E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina d’esse. Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d’uno principe che sopperisca a’ difetti della religione (Discorsi I xi 18-19).
In un testo degli ultimi anni di vita, l’Esortazione alla penitenza, M. pone la gratitudine verso D. e la carità quali fondamenti dell’etica civile:
Questi che sono ingrati a Dio è impossibile che non sieno inimici al prossimo. Sono quelli inimici al prossimo, che mancano della carità. Questa […] è quella sola che conduce l’anime nostre in cielo; questa è quella sola che vale più che tutte le altre virtù degli uomini; questa è quella di chi la chiesa sì largamente parla, che chi non ha carità non ha nulla; di questa dice san Paulo (Opere, a cura di C. Vivanti, p. 249).
La fede in Cristo si fonda sulla carità, e dalla carità discendono i principi morali. Chiunque manca della carità,
conviene di necessità che sia inimico al prossimo, non subvenga a quello, non sopporti e’ suoi difetti, non lo consoli nelle tribulazioni, non insegni agli ignoranti, non consigli chi erra, non aiuti i buoni, non punisca i tristi (p. 249).
Non può essere pieno di carità, sottolinea, «quello che non sia pieno di religione» (p. 249).
Sull’importanza del timore e dell’amore di D. per la nascita e la conservazione della vita repubblicana avevano insistito anche i teorici dell’Umanesimo civile. Matteo Palmieri, nella Vita civile, spiega che l’«umana generazione» è sottoposta a due tipi di leggi: quella «quasi divina e della natura» e quelle, simili alle prime, scritte e approvate dagli uomini. Gli uomini si riconoscono nella religione e la tengono in vita perché nei loro animi opera «una superna essenzia in divina unione eternalmente perfetta», ed essa comanda loro di compiere i doveri verso la repubblica e verso l’umanità come doveri verso Dio. Per infondere e mantenere vivo nei cittadini il sentimento dei doveri sociali come obbligo verso D., sottolinea Palmieri, la repubblica deve curare con grande diligenza il culto religioso ed educare ad amare la giustizia e la patria con l’insegnamento di buoni e venerati sacerdoti e con le cerimonie che colpiscono e muovono il sentimento delle moltitudini (Della vita civile, a cura di F. Battaglia, Bologna 1944, p. 93).
Del medesimo avviso è Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che nel De optimo cive ribadisce che la religione è necessaria per conservare le repubbliche, e che la religione cristiana è fra tutte la più idonea a educare buoni e forti cittadini. Platina parte dal presupposto che il fine ultimo delle repubbliche, come insegna Aristotele, sia permettere ai cittadini di vivere bene. Nessun uomo è in grado di governare una realtà tanto grande e tanto importante come la repubblica se non ha D. per sua guida. Poiché la religione è il vero fondamento della repubblica, il reggitore deve adoperarsi affinché nella città si osservi piamente e santamente il culto del D. della religione cristiana. Del resto, quanto sia grande la forza della religione e della pietà verso D., lo prova il fatto che i popoli che conservano la religione e rispettano il culto divino, come fece il popolo romano grazie agli ordinamenti che Numa introdusse, hanno realizzato mirabili progressi. Se questo è vero per la falsa religione degli antichi, lo è ancora di più per la santa e casta religione cristiana.
Anche per M., i legislatori che danno le leggi fondamentali dello Stato si appellano saggiamente a D.:
E veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone, così molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro (Discorsi I xi 11-13).
Così fece anche, ai tempi di M., Girolamo Savonarola, che persuase i fiorentini a istituire un governo repubblicano:
Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s’egli era vero o no, perché d’uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza: ma io dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa nessuna straordinaria, da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina e il suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede (24-25).
Il D. di M., infine, è il D. che manda e aiuta i fondatori di Stati e i redentori. L’Italia, scrive nell’ultimo capitolo del Principe «la priega Iddio che li mandiqualcuno che la redima». È D. che spinge i redentori e i fondatori all’azione («e benché insino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare chìe’ fussi ordinato da Dio»); che è loro amico («né fu Dio più amico loro che a voi») e li aiuta a realizzare la loro grande opera («Oltre a di questo, qui si veggono estraordinari sanza esemplo condotti da Dio: el mare si è aperto; una nube vi scorto il cammino, la pietra ha versato acque; qui è piovuto la manna»); che partecipa alla gloria degli uomini («Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi», Principe xxvi, 6, 4, 9, 12, 13).
Oltre ai redentori D. ama gli uomini che hanno saputo riformare le repubbliche. Nel Discursus florentinarum rerum osserva che gli uomini che hanno «con leggi e con istituti reformato le repubbliche e i regni» sono, dopo «quegli che sono stati iddii», i primi laudati (§ 102). Chi siano gli uomini «che sono stati iddii» Machiavelli chiarisce nel capitolo dei Discorsi in cui definisce la sua particolare gerarchia di gloria: «intra tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondato o repubbliche o regni» (Discorsi I x 2-3). Gli «iddii» in senso stretto sono i capi delle religioni, ma i fondatori e riformatori di repubbliche e di regni sono molto simili a essi e gloriosi. «Dio è amatore degli uomini forti, perché si vede che sempre gastiga gli impotenti con i potenti», fa dire a Castrucccio Castracani (Vita di Castruccio Castracani, § 147). E se per realizzare grandi cose gli uomini devono commettere crudeltà, saprà comprenderli. Coloro che praticano le crudeltà «bene usate», scrive nel Principe (viii 26) «possono con Dio e con gli uomini avere allo stato loro qualche remedio».
Dall’insieme dell’opera machiavelliana emerge dunque un’immagine di D. più simile a quella del Vecchio Testamento che a quella offerta dal Nuovo, e coerente con il cristianesimo repubblicano che aveva forti radici nella Firenze del tempo.