DIONE Crisostomo (Δίων Χρυσόστομος, Dio Chrysostŏmus)
Nato a Prusa in Bitinia prima del 40, e morto dopo il 114 d. C., fu retore, sofista e filosofo: una delle figure più notevoli della seconda sofistica. Di elevata condizione sociale, D. scelse la carriera lucrosa e onorifica dell'eloquenza e delle lettere. Finché rimase in patria dové prender parte alla vita politica del suo comune ed esercitare, probabilmente più in favore di amici che per lucro, la professione di avvocato (Orat., XLVI, 8). si recò, certo ancora molto giovane, a Roma e là visse con una dimora interrotta da soggiorni in patria e da viaggi in luoghi famosi dell'Oriente ellenistico, come amico e cortigiano di nobili romani, e, con estrema probabilità, di personaggi della casa Flavia, tra i quali il futuro imperatore Tito.
Coinvolto nella condanna capitale che Domiziano inflisse a un membro della propria famiglia, probabilmente Flavio Sabino, che nell'anno 82 fu condannato come sospetto di tentativo di colpo di stato, D. fu colpito con la relegatio in perpetuum, cioè col bando dalla sua provincia e dall'Italia, senza naturalmente che si attribuisse alla sua opera carattere di stretta complicità, ché in tal caso anch'egli sarebbe incorso nella pena capitale.
Dall'82 al 97 (morte di Domiziano) D. visse in esilio, conducendo una vita umile e oscura, di continua peregrinazione. Egli, che aveva avversato i filosofi e scritto opere contro di loro, fu scambiato per uno di questi a causa dell'umile vestito e della vita errante. Chi lo vedeva così, cominciò a proporgli dubbî sul male e sul bene e sul sommo dei beni, e l'antico retore che aveva già dovuto spontaneamente porsi il problema se il colpo della sorte lo avesse destituito di beni essenziali e insostituibili, trovandosi così naturalmente nell'ordine di pensieri famigliare e caratteristico a quelli che nel suo tempo si chiamavano filosofi, finì col rispondere alle domande, con l'accettare e proporre discussioni, con l'adattarsi insomma alla denominazione e allo σχῆμα che la sorte gl'imponeva. Questo racconto di D. (Orat., XIII) non può nel complesso essere sospettato di falsità: non si tratta di una drammatica conversione, né di un profondo svolgimento di pensiero o di acquisto di conoscenze filosofiche. La cultura filosofica che l'antico polemista antifilosofo doveva pur possedere, la mentalità dell'erudito e del sofista restarono più o meno inalterate: cambiò solo il genere di vita, la "professione". Dall'esilio in poi D. adottò del filosofo l'abito e l'atteggiamento. Che durante l'esilio egli abbia esercitato un vero e proprio magistero filosofico-morale di carattere più serio e continuativo, è affermato dal von Arnim, il quale anzi vuol vedere in tutta una sezione dell'opera di D., una ventina di dialoghi e dissertazioni di contenuto morale, un riflesso di questo magistero, giunto a noi non attraverso l'elaborazione letteraria, ma per la riproduzione stenografica di qualche discepolo. Nonostante il lungo tentativo di dimostrazione da cui la tesi è sostenuta, non si riesce alla lettura di questi dialoghi a vincere l'impressione che si tratti di pura convenzione letteraria, di una lontana e stanca derivazione dal modello platonico. Con maggior sicurezza possiamo affermare che D. compì un viaggio nella regione settentrionale del Mar Nero, derivando da questo ispirazione e materiale per un'opera, per noi perduta, di carattere storico-etnografico Γετικά (Orat., XIX). Con la morte di Domiziano, D. poté considerarsi reintegrato nei suoi diritti civili e ritornò immediatamente alla sua città rimandando ad altro tempo il viaggio a Roma, al quale era stato invitato dallo stesso imperatore (Orat., XLV). Il periodo trascorso tra la restituzione e il viaggio a Roma, che D. poté compiere solo nei primi anni dell'impero di Traiano, passò per il retore nella cura delle sue sostanze, e in un'attiva partecipazione alla vita municipale della sua città.
Documento di questa attività sono le cosiddette orazioni bitiniche, certamente il gruppo più interessante delle opere di D. Esse ci trasportano, con un'immediatezza che è anche il principale pregio artistico, nella vita giornaliera della cittadina ellenistica, che pur sotto il continuo e diretto controllo del potere romano ambisce a mantener chiari i lineamenti della πόλις greca di tipo aristocratico. Piccola vita provinciale, le cui mediocri vicende volentieri si colorano, nelle parole del retore classicista, dei ricordi dell'antica nobiltà ellenica. Poco dopo la morte di Nerva, probabilmente nel 100 d. C., D. si recò come messo della sua città presso Traiano e riuscì a ottenere per essa alcuni privilegi. Al suo ritorno in patria prese di nuovo parte alla vita pubblica, finché, invitato dall'imperatore stesso, ritornò a Roma, e vi rimase fino all'anno 105, vivendo fra i cortigiani dell'imperatore nella professione e nella veste del filosofo, se non anche, come qualcuno vorrebbe, in quella del consigliere (Orat., III e IV; efr. von Arnim nell'analisi di queste orazioni). Nell'anno 105, partito Traiano per la seconda guerra dacica, D. riprese con aumentato prestigio la sua opera di oratore-filosofo. Una lettera di Plinio il Giovane (ad Traian., 81) dell'anno 110 o 111, ce lo mostra tornato in patria: è il più tardo dato cronologico. Nell'ultimo periodo della sua vita D. fu cittadino romano ed ebbe il cognome di Cocceianus.
Opere e frammenti di opere di diversissimo carattere e valore sono raccolte e superficialmente ordinate nell'edizione non certamente curata dal retore, dalla quale derivano, sempre riproducendola parzialmente, i molti manoscritti dionei che possediamo. Si tratta di ottanta λόγοι (orationes). Restarono completamente escluse dalla raccolta le opere che avevano un valore più di contenuto che retorico, cioè l'opera etnografica sui Geti, gli scritti polemici Contro i filosofi e A Musonio, il trattato In favore di Omero contro Platone. Le orazioni propriamente dette, in parte testimonianza e riflesso di discorsi realmente pronunziati, in parte conferenze sofistiche e filosofiche, in parte trattatelli moralistici sotto forma di orazione, costituiscono la massima parte della raccolta. A esse si aggiungono una ventina di frammenti di dissertazioni e dialoghi tratti da opere di natura filosofico-morale e combinati insieme con un criterio antologico.
Delle opere del cosiddetto periodo sofistico, conservate in numero assai minore di quelle del periodo filosofico, sono soprattutto notevoli l'orazione VI (Troiana) e la XXXI (Rhodiaca). Nella prima, lunghissima orazione il cui carattere sofistico è evidente anche se più di una volta messo in dubbio, il retore dimostra, con tutta l'abbondanza della sua erudizione e l'insistenza della sua dialettica, che Omero e la tradizione che da lui deriva sulla presa di Ilio non dicono parola di vero. A noi questa orazione interessa come documento importantissimo di tradizione omerica. L'assunto non è in realtà per il sofista né vero né falso; egli non si pone un problema di verità, ma di efficacia dialettica.
La Rhodiaca è un opuscolo polemico sotto forma di orazione, contro l'uso invalso a Rodi di concedere l'onore di una statua a personaggi stranieri, per lo più ad alti protettori romani, semplicemente mutando l'iscrizione dedicatoria a una statua già esistente. Attraverso la prolissa trattazione si riesce a scorgere un fondo di seria preoccupazione per le sorti dell'ellenismo, il chiaro senso di una decadenza irrimediabile, rilevata proprio là dove la libertà greca si affermava superstite, smentendosi continuamente col conferimento di onori ridicoli agl'indulgenti e ironici dominatori.
A D. i suoi biografi Filostrato e Sinesio attribuiscono anche alcuni componimenti appartenenti al genere tipico della sofistica, delle trattazioni serie di soggetti vili e ridicoli, ma di questa produzione non appare traccia nei manoscritti. Solo Sinesio cita come di D. un "elogio della chioma", che quasi certamente non è suo.
Fra le opere del periodo filosofico sono notevoli, oltre ai dialoghetti e alle dissertazioni già menzionate nelle quattro orazioni VII, VIII, IX, X, cosiddette diogeniche, le quattro orazioni Sul regno, I, II, III, IV, e alcune grandi orazioni di accuratissima elaborazione letteraria, nelle quali l'autore appare in veste di maestro di morale a un'intera città, la XXXII Agli Alessandrini, le due Tarsiche, XXXIII, XXXIV, appartenenti al periodo più tardo, quello della massima fama e autorità. Se non allo stesso tempo, allo stesso atteggiamento oersonale e di pensiero appartengono opere come l'Olimpica (XII), la Boristenitica (XXXVI), l'Euboica (VII), opere non elaborate letterariamente ma raccolte dalla voce del retore, e non da lui pubblicate. Nessuna sostanziale originalità di pensiero si riscontra nell'opera filosofica di D. Sotto una generica coloritura cinico-stoica, si raccolgono e si confondono massime e dottrine di provenienza diversissima. Con un particolare interesse, anche nella produzione filosofica, sono trattati i problemi politici: le orazioni Sul regno e l'Olimpica consentono di tracciare i lineamenti di una dottrina politica, non nuova certo, ma espressa con sincerità di convinzione. Ben più però che la teoria ci interessa nell'opera dionea il senso vivo della realtà contemporanea, vista sì con occhio di moralista e di classicista nostalgico, ma anche con molta concretezza di particolari. Sotto questo rispetto merita breve menzione l'Euboica, conosciuta comunemente sotto il titolo Il cacciatore, ampio frammento di diatriba filosofica sulla povertà, nella quale l'autore, allo scopo di dimostrare la trita massima che "la povertà non è un male", esamina i due principali generi di essa: la povertà degli uomini dei campi e quella degli uomini delle città. Alla prima egli dà indubbiamente la preferenza dal punto di vista morale, idealizzando non senza esagerazioni arcadiche la vita di alcuni poveri pastori e cacciatori delle montagne dell'Eubea. Il retore, nonostante il suo assunto, non può a meno di mettere in rilievo i molti mali dei quali è occasione se non causa la povertà delle plebi oziose nelle città. Dovere dello stato, egli pensa, è di dare possibilità di lavoro dignitoso agli operai liberi, e di sfollare quanto più sia possibile le città, favorendo il lavoro dei campi. Il problema essenziale della vita civile durante l'ellenismo e l'età imperiale romana è sentito nell'Euboica, tanto come esigenza morale e sentimentale di ritorno a una vita più semplice, più dignitosa, più sana, quanto come necessità sociale e tendenza concreta di azione politica. Analogo all'interesse per la vita dei campi e al vagheggiamento idillico di essa è in Dione l'interesse e l'ammirazione per i giovani popoli barbari. Nostalgie di uomo saturo di cultura, riflessioni di moralista e interesse di osservatore politico doverono confluire a ispirare a D., proprio pochi anni prima che Tacito concepisse la Germania, l'opera etnografica sui Geti o Daci. L'opera è perduta, e se ne rimangono tracce ciò è dovuto all'incredibile errore del barbaro storiografo Iordanes, che utilizzò notizie dionee per la compilazione della sua Historia Gothorum. Una parte delle diatribe filosofiche di D. è consacrata all'interpretazione moralistica dei poeti, specialmente di Omero, ed è di grande interesse come fonte per la storia dell'estetica antica, riflettendo essa antiche dispute prevalentemente cinico-platoniche, sul valore morale della poesia e sulla possibilità e necessità dell'interpretazione allegorica di essa.
Il valore dell'opera dionea è certamente molto più di documento che d'intrinseca forza di pensiero o d'arte, ma anche sotto il primo aspetto egli non rispecchia tendenze di cultura e di vita a noi altrimenti ignote o comunque distaccantisi dalle linee maestre della civiltà ellenistica in età imperiale romana, bensì queste ultime illumina e precisa. Benché tutta la sua opera voglia essere affermazione di ellenismo, egli è fondamentalmente conscio della decadenza greca, e si limita a trasformare in un'aspirazione nostalgica quella che della Grecia antica era stata caratteristica: l'attività politica così nella pratica come nella speculazione filosofica.
Questo interesse politico è forse il legame più saldo tra i due atteggiamenti di sofista e di filosofo, che soprattutto circostanze esterne lo indussero ad assumere, e che solo in qualche momento della sua vita e della sua opera appaiono nettamente distinti. Sostanzialmente egli fu sempre un sofista erudito, più che di tutto curante di accogliere in sé le voci del passato attenuandone i contrasti e cercando di risentirle tutte come elementi indispensabili alla vita intellettuale, morale, politica di un Greco illuminato. Così Omero si concilia con Platone, il sofista dei primi anni prende dai filosofi la predicazione dell'integrità morale, il filosofo degli ultimi non disdegna, se non ironicamente, la fama di eloquenza, e si mescola con interesse vivissimo alla vita municipale della sua città.
Questa varietà e conguagliamento d'interessi determinano naturalmente le sue qualità di scrittore. Manca nelle sue orazioni un punto di vista dominante e una serrata concatenazione di pensieri. Gli piace di procedere con passo uguale attraverso i molti ricordi della sua vita e della sua cultura; non rinunzia facilmente all'esempio, all'aneddoto, alla citazione. Divenuto filosofo, egli riconosce in sé questa tendenza così spiccatamente sofistica e la giustifica proclamandola necessaria conseguenza dell'atteggiamento del filosofo, che nella sua caccia al vero deve seguirne le tracce comunque e dovunque gli si presentino, anche quando portano lontano da quel vero particolare alla ricerca del quale egli si è messo da principio (Orat. VII, 127-32; XII, 38). Nonostante la giustificazione, i discorsi di D. riescono alla lettura, oltre che difficili sempre, spesso pesanti e noiosi. Pure D. ha doti di scrittore. Laddove parla di sé e delle vicende della sua vita (nelle orazioni bitiniche, in alcuni brevi dialoghi filosofici e letterarî, nell'Euboica), riesce a insinuarsi con una finale impressione di garbo e di bonomia. Quanto a lingua e stile, egli è in complesso un atticista. Ammira Platone ma predilige Senofonte e lo fa suo modello (Orat. XVIII) durante tutta la sua produzione, sua fonte di dottrine e massime filosofiche nel secondo periodo.
Fonti, edizioni: Quasi unica fonte per la biografia di D. è l'opera stessa di lui, ché da essa derivano le biografie di Filostrato e di Sinesio e i cenni di Suida e di Fozio. Edizioni principali: Emperius, Brunswick 1844 H. von Arnim, voll. 2, Berlino 1893-96 (edizione critica fondamentale); de Budé, Lipsia 1914-19.
Bibl.: Fondamentale: H. von Arnim, Leben und Werke des Dio von Prusa, Berlino 1898; Schmid, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, coll. 848-877. Sulla questione dell'esilio: A. Emperius, De exilio Dionis, Brunswick 1840 (ristampato in appendice alle edizioni del von Arnim e del de Budé); cfr. inoltre: H. Dessau, in Hermes, XXXIV (1899), p. 811 seg.; e von Arnim, ibid., p. 363 segg.; G. Leopardi, De vita et scriptis Dionis Chr. commentarius, in Opere inedite, Halle 1878, pp. 5-42. Sulla dottrina e sul valore dell'opera di Dione: A. Olivieri, Ricerche letterarie sui Cinici, Bologna 1899, pp. 1-63; Clausen, De Dionis Chr. Bithynicis quae vocantur orationibus quaestiones, Kiel 1895; Wegehaupt, De Dione Chrys. Xenophontis sectatore, Gotha 1896; M. Valgimigli, La critica let. di D.C., Bologna 1912. Trad. parziali: M. Cesarotti, Oratori greci, Milano 1843; Il cacciatore dell'isola d'Eubea, trad. da A. Scarselli, S. Margherita Ligure 1919.