Dionigi di Alicarnasso
Storico e retore greco (circa 60 - dopo il 7 a.C.), visse a Roma dal 30 a.C. Autore di trattati di retorica molto reputati nel Quattro e nel Cinquecento, D. compose anche una storia di Roma in venti libri, nota con il titolo di Antiquitates, che copriva il periodo dalla fondazione al 264 a.C., anno di inizio della prima guerra punica e delle Historiae di Polibio. Dell’opera di D. sono sopravvissuti solo i primi undici libri (fino alla tirannide dei decemviri), integrati dalla scoperta di ulteriori frammenti solo nel tardo 16° e nel 17° secolo.
Le Antiquitates erano conosciute e adoperate anche nell’originale greco (per esempio da Lorenzo Valla), ma si diffusero presso gli umanisti solo a partire dalla traduzione realizzata dal milanese Lampugnino Birago (Lapus Biragus) all’interno del vasto progetto di versioni latine sostenuto da papa Niccolò V con l’intento di rendere finalmente disponibili nella lingua di cultura europea capolavori storiografici, come le opere di Erodoto, Tucidide, Senofonte, Strabone, Diodoro Siculo, Polibio e Appiano. Messosi al lavoro sin dal 1449, Birago ultimò la traduzione del primo libro, dedicato a Niccolò V, abbastanza presto, ma ci vollero altri vent’anni affinché portasse a termine l’impresa, nel gennaio del 1469 o del 1470, quando, come era abitudine in questi casi, la corredò per l’occasione di una seconda dedica al nuovo pontefice Paolo II. La prima stampa fu approntata a Treviso nel 1480, seguita da una edizione a Reggio Emilia nel 1498 (l’ultima vivente M.); mentre per una traduzione in volgare italiano fu necessario attendere quella di Roberto Venturi (Venezia 1545). Il passaggio in tipografia assicurò alle Antiquitates una immediata popolarità, tanto che a cavallo tra fine Quattro e inizio Cinquecento le troviamo citate costantemente e spesso preferite al racconto liviano. Gli eruditi apprezzavano il gran numero di informazioni su usi, costumi, pratiche religiose e istituzioni fornite da D., che scriveva per un pubblico straniero, bisognoso di chiarimenti reputati superflui da un Tito Livio, ed era considerato particolarmente affidabile per la sua amicizia con il grande antiquario romano Marco Terenzio Varrone. Ma sin dalle epistole dedicatorie di Lampugnino Birago è evidente che i lettori rinascimentali apprezzavano anche due altre caratteristiche delle Antiquitates: l’abbondanza di orazioni, retoricamente elaborate, attribuite a diversi personaggi storici, e le articolate riflessioni politiche dell’autore e degli stessi protagonisti degli eventi narrati. Nell’introduzione alla propria storia di Firenze (pubblicata solo nel Seicento), il segretario della cancelleria di Firenze Bartolomeo Scala, amico di Bernardo Machiavelli, rivendicò esplicitamente di essersi rifatto ai modelli di D. e di Plutarco.
A lungo trascurato dagli studiosi, D. rappresenta un punto di riferimento essenziale per M., che non lo nomina mai (come d’altra parte non nomina mai altri autori importanti per lui come Polibio), ma trae dalla sua opera un gran numero di riflessioni messe a frutto nei Discorsi. Se infatti nelle Antiquitates non troviamo nulla di paragonabile al sesto libro delle Historiae di Polibio, dove la costituzione romana è descritta in maniera sistematica, D. è portato a spiegare il successo e l’insuccesso degli Stati non alla luce dei mores (costumi), come era abitudine per gli storici romani, ma delle leges (leggi). M. sembra aver tratto ispirazione da D. su un gran numero di questioni: per esempio, gli argomenti con cui in Discorsi I v difende la scelta di collocare la «guardia delle libertà» nelle mani del popolo sono una risposta a quelli di Appio Claudio in Antiquitates V 66-67. In questa sede conviene però soffermarsi esclusivamente su quattro punti particolarmente importanti per il progetto politico dei Discorsi.
Il debito di M. nei confronti delle Antiquitates riguarda anzitutto la teoria della costituzione mista. Tradizionalmente il giudizio dei Discorsi (I ii) sulla superiorità di questa forma politica rispetto a tutte le altre è stato ricondotto alla conoscenza del sesto libro delle Historiae di Polibio, dove viene formulata la teoria della ciclicità delle costituzioni, anche se il testo a quel tempo non era tradotto né in latino né in italiano, dunque teoricamente inaccessibile ai non conoscitori del greco. Una spiegazione alternativa (che non esclude che M. possa aver avuto notizia anche delle Historiae) è che M. abbia tratto questa idea da D., che se ne serve abbondantemente per spiegare il successo di Roma.
Alcuni indizi spingono in tale direzione. Ogni volta che M. si discosta da Polibio, cosa che avviene piuttosto spesso, la sua versione coincide puntualmente con quella di Dionigi. È necessario elencare almeno le principali convergenze: sia nelle Antiquitates (II 3) sia nei Discorsi (I ii) tutte e sei le forme semplici sono cattive (mentre per Polibio monarchia, aristocrazia e democrazia sono comunque buone, anche se non quanto la costituzione mista); sia nelle Antiquitates (II 14 e IV 73-74) sia nei Discorsi (I ii) la repubblica è vista come un perfezionamento della monarchia temperata di Romolo, ragion per cui Bruto si sarebbe sostanzialmente limitato a sostituire al re una coppia di consoli, lasciando immutato l’assetto complessivo delle istituzioni; sia nelle Antiquitates (lungo tutto il quinto, sesto e settimo libro) sia nei Discorsi (I iii-iv e I vi) il compimento della costituzione mista è il frutto degli scontri sociali tra patrizi e plebei; a differenza di Polibio, sia nelle Antiquitates (VII 55-56) sia nei Discorsi (I iv-viii) il bilanciamento dei poteri caratteristico di Roma va più interpretato come un potere reciproco di controllo e di interdizione che come il risultato della necessità di collaborare; sia nelle Antiquitates (VII 55-56 e 6566) sia nei Discorsi (I v e I vii-viii), infine, il tribunato e la possibilità di processare davanti all’assemblea dei cittadini chi fosse sospetto di tramare contro il governo repubblicano appaiono tasselli essenziali della costituzione mista.
Gli umanisti quattrocenteschi avevano avuto grande difficoltà a capire il funzionamento della dittatura romana e avevano oscillato tra due soluzioni opposte: assimilarla alla monarchia, traendone un argomento a favore del governo di un solo uomo (la prova cioè che nessuna repubblica è in grado di mantenersi senza un principio unitario di governo), oppure farne la causa più diretta della morte della Repubblica, ricordando come Cesare avesse assunto proprio il titolo di dictator dopo la morte di Pompeo. Nei Discorsi (I xxxiv) M. propone invece un’analisi approfondita di questa particolare magistratura (la prima del genere nel mondo postclassico), che ricalca in maniera molto fedele il giudizio di Dionigi. Secondo le Antiquitates (V 70-77), la dittatura gode di una pessima considerazione a causa di Lucio Cornelio Silla, Gneo Pompeo e Giulio Cesare, che se ne servirono per giustificare le loro azioni dispotiche. In realtà però – sostengono D. e M. – tutti coloro che hanno denigrato questo istituto si sono lasciati ingannare dalle parole invece di guardare alla profonda differenza di comportamento tra i generali sediziosi del I sec. a.C. e quanti avevano ricoperto quella magistratura nei precedenti quattrocento anni.
Il grande merito della dittatura è stato quello di aver potenziato ulteriormente la capacità di controllo e di interdizione già presente nella costituzione mista (infatti tutti i magistrati e i cittadini sono sottoposti al potere del dittatore, tribuni compresi), lasciando aperta la strada a una terapia eccezionale ma non extra-legale contro gli «accidenti straordinari» e il «moto tardo delle republiche», come leggiamo sempre in Discorsi I xxxiv (nessuno può infatti contestare le azioni del dittatore finché rimane in carica). Proprio questo, nota D., ha fatto sì che il dittatore fosse «l’unico rimedio a tutti i mali insanabili e l’ultima speranza di salvezza allorché tutte le altre erano state spezzate da qualche sventura».
Da Lauro Quirini a Francesco Patrizi, sino a Marcantonio Sabellico, gli umanisti italiani del Quattrocento avevano ripetuto il suggerimento aristotelico di concedere con parsimonia la cittadinanza agli stranieri (Politicorum libri VII 4). Diverso era stato invece il parere dell’antiquario Biondo Flavio, che nella sua influente Roma triumphans aveva individuato proprio nella generosa politica di apertura dei Romani una delle principali cause del loro successo e aveva citato a sostegno della propria tesi un lungo discorso dell’imperatore Claudio riportato da Tacito (Annales XI 24) e un ragionamento affine di Cicerone (Pro Cornelio Balbo xiii). Anche M. si mostra del parere di Biondo, ma il suo giudizio si arricchisce pure in questo caso del contributo delle Antiquitates, dove il confronto tra la chiusura dei Greci e l’accoglienza dei Romani costituisce uno dei principali fili conduttori del racconto (Antiquitates I 9; II 16-17; III 10-11; IV 22-23 e VI 19). Diversamente da Biondo e da Tacito, presso i quali la concessione della cittadinanza deve considerarsi un virtuti pretium, cioè un premio da riservare ai migliori, per D. e M. si tratta invece soprattutto di mettere a disposizione della repubblica un esercito di dimensioni sufficienti a difendersi dalle aggressioni altrui, e possibilmente a intraprendere una politica di conquista. Nei Discorsi l’argomento di D. fa però un ulteriore passo avanti rispetto alle Antiquitates, perché M. stabilisce un preciso rapporto tra la propensione all’apertura o alla chiusura verso i nuovi cittadini e la natura filopopolare (come a Roma) o filoaristocratica (come a Sparta e a Venezia) dell’ordinamento costituzionale (Discorsi I vi).
Gli studiosi riconoscono oggi che uno dei punti più innovativi della teoria politica machiavelliana è la valutazione positiva dei conflitti tra patrizi e plebei proposta in Discorsi I iv-vi. Generalmente si afferma che questa posizione non ha precedenti, soprattutto nel pensiero politico classico, dove la concordia è universalmente indicata come una delle principali cause della forza degli Stati (e la discordia, vivecersa, come una delle principali cause della loro debolezza); in realtà, invece, essa è già chiaramente espressa nelle Antiquitates. Il ragionamento di M. muove dalla constatazione che i tumulti di Roma erano stati contenuti in forme non violente e non erano mai sfociati in veri e propri scontri armati, come era invece avvenuto nelle città greche: una idea che gli può essere stata ispirata da Antiquitates II 11; VII 18 e VII 66 (cfr. Sasso 1987, pp. 459-61). D’altra parte, nota M., quegli stessi tumulti avevano avuto un ruolo determinante nell’istituzione del tribunato della plebe, grazie al quale la Repubblica aveva raggiunto finalmente il necessario equilibrio di tutti e tre i poteri: dunque erano stati positivi. Proprio D. aveva messo in scena un duello oratorio tra Mezio Fufezio e Tullo Ostilio, in cui il primo aveva sostenuto la superiorità di Alba Longa, non contaminata dall’afflusso di stranieri e priva di conflitti sociali, mentre il secondo aveva rivendicato quella apertura e quei conflitti, sino a fare di essi una prova della forza di Roma: «Le nostre discordie interne, poiché tu ce le rimproveri, non portano al sovvertimento e all’indebolimento dello stato, ma alla sua salvezza e al suo accrescimento» (Antiquitates III 11). Siamo molto vicini all’idea machiavelliana di un preciso rapporto tra concessione della cittadinanza, tumulti e forza militare che troviamo in Discorsi I vi, dove si invitano i lettori a considerare gli scontri incruenti di Roma nient’altro che «un inconveniente necessario a pervenire a romana grandezza». Rispetto a D., M. radicalizza il discorso perché insiste sulla necessità dei tumulti anche una volta raggiunta la costituzione perfetta, per permettere al popolo di «sfogare» i suoi «umori» in forme non distruttive.
Oltre alla prove interne di una puntuale utilizzazione delle Antiquitates nei Discorsi, è importante segnalare almeno alcuni dei più importanti elementi probatori desumibili dal contesto e dalla tradizione, a cominciare dal fatto che M. e D. sono spesso associati nella trattatistica successiva (per es. da Jean Bodin, che nei Six livres de la République li accosta in quanto teorici della costituzione mista). Due sono però le testimonianze più rilevanti: un passaggio della Republica fiorentina di Donato Giannotti, in cui l’amico e discepolo di M. riprende la sua tesi sull’importanza di «incorporarsi drento i nemici superati» nominando assieme a lui «Dionisio alicarnasseo»; e soprattutto la riscrittura purgata dei Discorsi allestita dal gesuita Antonio Ciccarelli da Foligno (Discorsi sopra Tito Livio, 1598), dove su tutte le questioni principali evocate in precedenza si rimanda direttamente alle Antiquitates.
Bibliografia: Le antichità romane, a cura di F. Donadi, G. Pedullà, Torino 2010.
Per gli studi critici si vedano: A. Momigliano, Polybius between the English and the Turks (1974), in Id., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1980; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987; E. Gabba, Dionysius and the history of archaic Rome, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1991 (trad. it. Dionigi e la storia di Roma arcaica, Bari 1996); F. Millar, The Roman republic in political thought, Hannover 2002, pp. 39-46; G. Pedullà, La ricomparsa di Dionigi. Nicolò Machiavelli tra Roma e la Grecia, «Storica», 2004, 28, pp. 7-90; G. Pedullà, Una «tirannide elettiva». Ovvero: ciò che gli umanisti e Machiavelli possono insegnarci sulla dittatura e sullo «stato di eccezione», in Il governo dell’emergenza. Poteri straordinari e di guerra in Europa tra XVI e XX secolo, a cura di F. Benigno, L. Scuccimarra, Roma 2007, pp. 35-73; G. Pedullà, Giro d’Europa. Le mille vite di Dionigi di Alicarnasso (XV-XIX secolo), in Dionigi di Alicarnasso, Le antichità romane, Torino 2010, pp. lix-cxlix; G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 2011, pp. 419518, 565-602; G. Pedullà, Machiavelli e Dionigi: le ragioni di una proposta, «Rivista storica italiana», 2013, 3, pp. 606-26.