DIOSCORIDE Di Pedanio
D. Anazarbeo, medico attivo nel sec. 1° d.C., autore del trattato di farmacologia De materia medica (Πεϱὶ ὕληϚ ἰατϱιϰῆϚ), non si hanno notizie biografiche se non le scarse che egli stesso fornisce nel proemio dell'opera.Nato ad Anazarba (od. Anavarza) in Cilicia, studiò a Tarso e ad Alessandria e si ritiene abbia servito come medico militare nell'esercito romano ai tempi di Claudio e Nerone. Ricevette la cittadinanza romana, giacché il nome Pedanio è quello del patrono, un membro della gens Pedania, forse L. Pedanio Secondo, prefetto nel 56, o Pedanio Secondo, governatore della provincia d'Asia subito dopo il 50, o ancora Cn. Pedanio Salinatore, console nel 60.Il De materia medica, dedicato all'amico e maestro Lecanio Ario di Tarso, descrive tutte le sostanze capaci di esercitare un effetto fisiologico sul corpo umano: comprende quindi i farmaci propriamente detti, ma anche i tossici e gli alimenti. L'organizzazione dell'opera prevede per ogni argomento un capitolo suddiviso in paragrafi, disposti secondo un ordine interno. Il sistema non è rigido, ma di solito segue il criterio di fornire innanzitutto il nome e i sinonimi della sostanza, che nella grande maggioranza dei casi è un vegetale, poi l'habitat e la descrizione botanica, quindi le proprietà e gli usi medicinali, poi gli effetti collaterali, le quantità e le dosi d'impiego, quindi le norme per la raccolta, la preparazione e la conservazione; seguono le adulterazioni e i metodi per rivelarle, gli usi veterinari, quelli magici o non strettamente medicinali, mentre da ultimo si indicano le localizzazioni geografiche specifiche.I capitoli si raggruppano in cinque libri: dopo il proemio, in cui D. dichiara di aver raggruppato le sostanze secondo gli effetti osservati e verificati sperimentalmente, nel primo libro sono trattate le sostanze aromatiche (ventisette piante e droghe medicinali, sedici oli, venticinque unguenti, diciannove resine e catrami, trentasette alberi e arbusti, trentadue frutti medicinali e commestibili); nel secondo si descrivono settantasette sostanze utili fornite dagli animali (farmaci o parti alimentari) e cento piante alimentari (graminacee, leguminose, ortaggi da foglia, fusto, radice o frutto); nel terzo e nel quarto le rimanenti sostanze medicamentose vegetali (rispettivamente centosettanta e centonovantaquattro), mentre nel quinto libro quarantadue capitoli sono dedicati alla vite e ai vini e novantasette ad altrettanti minerali.L'influenza di questo trattato sul pensiero scientifico, sia occidentale sia orientale, fu enorme e si prolungò per diciassette secoli, fino alla comparsa della farmacologia chimica.Si ritiene che D. abbia pubblicato il suo trattato nel 77-78; infatti, pur essendo contemporaneo di Plinio, non viene mai citato nella Naturalis Historia (dedicata all'imperatore Tito nel 77 e pubblicata postuma nel 79), ove si tratta molto estesamente della botanica farmacologica e si dà conto di tutte le fonti possibili.Galeno (129-201) giudicò il De materia medica la migliore opera farmacologica in assoluto, la lodò senza riserve e la utilizzò ampiamente, anche se contribuì più di chiunque altro a distruggerne la peculiare organizzazione interna (Riddle, 1985). Infatti le molteplici proprietà medicamentose di una sostanza sono considerate da D. caratteristiche qualitative che si rivelano sperimentalmente attraverso l'osservazione e non vengono affatto organizzate in una complessa teoria medico-filosofica che spieghi i motivi per i quali la sostanza agisce sull'organismo. Galeno invece propone una costruzione razionale, la nota teoria degli umori, per la quale la malattia è uno squilibrio umorale che una equilibrata miscela di farmaci deve riportare all'armonia primitiva. La teoria galenica, in tutta la sua complessità, si integrò perfettamente nel pensiero medievale sia cristiano sia islamico, mentre il metodo di D. rimase inspiegato e ininfluente, anche se fu proprio la mancanza di un apparato dottrinario che permise al De materia medica di assumere in tutte le epoche il ruolo di testo primario di riferimento e di prestarsi a sintesi e riorganizzazioni.Sulla questione se il testo dioscorideo prevedesse fin dall'inizio la presenza di illustrazioni o se queste costituissero la prima e più importante modifica, frutto di un meccanismo di trasmissione e volgarizzazione, il parere degli studiosi è assai discordante, anche se una serie di considerazioni - in primo luogo l'assoluta assenza nel testo di riferimenti a immagini, quindi il carattere eminentemente specialistico della trattazione, che discute anche di prodotti semilavorati o derivati da piante esotiche - induce a propendere per la seconda ipotesi. L'introduzione delle illustrazioni isolò comunque la parte botanica del De materia medica, probabilmente perché era la componente più attraente sotto l'aspetto figurativo: a ciascun nome di pianta venne aggiunta la traduzione in quasi tutte le lingue dell'impero; inoltre, stravolgendo totalmente la concezione dioscoridea, all'erbario (v.) venne dato un ordinamento alfabetico.L'esempio più antico di questa rielaborazione, nota come erbario alfabetico di D., è il codice di Anicia Giuliana (v.) del 512 ca. (Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1), che contiene anche brani derivati dall'opera di Crateva - erborista al servizio di Mitridate VI, re del Ponto (132-63 a.C.) - e da Galeno; si suppone che il rifacimento alfabetico sia avvenuto tra il sec. 3°, dopo Galeno, e prima di Oribasio (325-403), medico dell'imperatore Giuliano, che utilizzò per una sua opera larghi estratti dell'erbario alfabetico di Dioscoride. Tuttavia il testo integrale del De materia medica non venne affatto abbandonato e continuò a essere trasmesso sia in forma illustrata, soprattutto in area bizantina e araba, sia privo di figure, in ambito latino; la sua vera riscoperta si ebbe peraltro solo con il 15° secolo.Il più famoso manoscritto contenente l'erbario di D. è certamente quello, citato, di Anicia Giuliana, alla quale fu donato dagli abitanti del quartiere costantinopolitano di Pera (Honoriana). Il manoscritto, acquistato nel 1569 dall'ambasciatore del Sacro romano impero a Costantinopoli, Ogier-Ghislain de Busbecq, è attualmente composto da quattrocentoottantacinque fogli di pergamena (dei cinquecentoquarantasei originari) e contiene trecentoottantatré figure di piante, generalmente a piena pagina, ordinate alfabeticamente secondo il nome greco. Le figure non sono copiate dal vero, ma da modelli più antichi di qualità molto differente. All'inizio del codice le rappresentazioni sono eccellenti e realistiche, per ciò che riguarda sia il disegno sia il colore: le piante vengono mostrate complete di radici, in positure naturali; le foglie, i rami e i fiori sono disposti senza torsioni e secondo vari piani di profondità. In diversi casi si nota la ricerca del dettaglio naturalistico, come un rametto spezzato o una foglia appassita; vi traspare un'eccellente scuola pittorica che impone i suoi vezzi, a scapito dell'astrazione della rappresentazione scientifica. Anche quando il processo di copia ne riduce sensibilmente l'effetto (c. 62v), la volontà di colpire l'osservatore è comunque evidente. Singer (in Riddle, 1985) fa discendere undici di queste figure, come l'asfodelo (c. 26v), direttamente dall'erbario di Crateva. Altre figure di questo gruppo, la metà ca. del totale, non arrivano a questi livelli di qualità, ma paiono piuttosto derivare da una redazione di genere più didattico, formatasi verso la fine del sec. 2° e oltre. Le rimanenti figure invece mostrano un processo di schematizzazione abbastanza avanzato, probabilmente causato dalla copia da un modello a sua volta scaduto; si nota anche la mano di artisti inclini a seguire i canoni stilistici dell'età tardoantica, completamente disinteressati alla resa realistica. Le figure appaiono appiattite, addirittura schiacciate, mentre i colori sono decisi e senza sfumature; le foglie basali, perduto ogni effetto prospettico, sono disposte a croce di s. Andrea o a pale di mulino. A c. 126r si coglie un interessante esempio di contaminazione tra figura reale e immagine mentale: la radice dell'eringio termina con la testa di una Gorgone, forse alludendo al sinonimo gorgonéion (Pächt, 1975). Nel manoscritto viennese va anche notata la serie di cinque miniature introduttive, che si ritrova anche in alcune copie più tarde. In tre di esse compaiono Anicia Giuliana in trono e due serie di ritratti di medici illustri. Nella miniatura di c. 4v si vede D. assiso che riceve dalla personificazione dell'Invenzione (Héuresis) la mandragola in forma di radice antropomorfa, mentre ai suoi piedi un cane si contorce negli spasimi dell'agonia. Questa rappresentazione allude alla leggenda divulgata da Giuseppe Flavio (fine del sec. 1°), secondo la quale la radice della mandragola al momento di venire estirpata emetteva un grido così orribile da uccidere chi l'avesse udito; era allora indispensabile far eseguire l'azione da un cane che, legato alla pianta e richiamato da lontano con un suono o con del cibo, strappasse la radice. Nella miniatura di c. 5v si vede la personificazione dell'Attenzione (Epínoia) che presenta la mandragola a un giovane pittore, secondo alcuni identificabile con Crateva, che seduto al cavalletto la ritrae su una pergamena; di lato, D. allo scrittoio redige un codice. L'identificazione dei personaggi di questa scena non appare del tutto certa: Riddle (1985), per es., si mostra possibilista riguardo al ritratto di D., ma nega l'identificazione della figura del pittore con Crateva.A Napoli (Bibl. Naz., ex Vind. gr. 1, già Suppl. gr. 28) si conserva un altro erbario alfabetico di D., databile al sec. 7°, che deriva certamente da un archetipo comune a quello di Anicia Giuliana; le illustrazioni sono disposte a gruppi di tre o quattro nella parte superiore della pagina, al di sopra del testo disposto in colonne. La qualità delle figure non giunge mai ai livelli del codice di Vienna e mostra apertamente il carattere schematizzato derivante dal processo di copia. Alla c. 113r si deve notare che la lonchítis ha i fiori, in accordo con la descrizione di D., simili a maschere di istrioni.Entrambi gli erbari sono opere d'arte libraria di grande pregio e non sono certamente assimilabili a manuali universitari. Il codice di Napoli, che è stato eseguito in Italia, forse in ambito ravennate o romano, e non ha dato origine a copie, nel sec. 13°-14° appartenne a un medico di notevole cultura che vi lasciò alcune note. Il codice di Anicia Giuliana probabilmente rimase nella biblioteca imperiale fino al sacco di Costantinopoli del 1204, quando finì forse in mani francesi e perse un buon numero di fogli: uno di questi, che portava la figura della vite, molto probabilmente fu usato come modello per un De materia medica arabo. Quando Michele VIII Paleologo riconquistò la capitale imperiale nel 1261, il codice tornò in mano greca e fu assegnato al monastero costantinopolitano di S. Giovanni Battista a Pera. Tuttavia le sue figure, durante il breve periodo in cui circolarono in Occidente, esercitarono una grande influenza sugli erbari latini. Nel corso dei secc. 14° e 15° il codice di Anicia Giuliana rimase nel monastero di S. Giovanni, al quale fu aggregato, nel terzo decennio del sec. 14°, un ospedale fondato dal re serbo Stefano Uros III Dečanskij; uno dei medici attivi in questo ospedale, il monaco Neofito, alla metà dello stesso secolo fece copiare il codice (Padova, Bibl. del Seminario Vescovile, gr. 194). Il manoscritto patavino contiene in realtà due erbari alfabetici di D.: il primo ha ora trecentosessantasei raffigurazioni di piante (in origine doveva averne quattrocentotrentacinque), disposte singolarmente o a coppie su ogni pagina, tratte dal codice di Anicia Giuliana, benché il testo sia derivato da un De materia medica integrale; il secondo erbario conta invece ottantatré figure derivate da un codice di D. diverso, qualitativamente molto inferiore, probabilmente formatosi nell'11° secolo.Il più antico codice del De materia medica integrale dotato di figure è conservato a Parigi (BN, gr. 2179); tra gli studiosi c'è accordo sulla sua datazione al sec. 9° ma non sulla sua origine, di volta in volta ricercata in Italia meridionale, in Egitto, o nella regione siro-palestinese. Il manoscritto è largamente incompleto e contiene quattrocentoquindici miniature, piuttosto piccole, disposte ai margini dei fogli o in spazi ricavati nel testo. Alcune di queste figure derivano chiaramente da un modello classico, ma la maggior parte ha un carattere così poco rispettoso delle specificità della pianta da richiamare piuttosto lo stile dei codici arabi di Dioscoride. Questo carattere, che potrebbe essersi evoluto in modo affatto autonomo, ricerca simmetrie decorativistiche nel disegno delle piante, usa un cromatismo squillante e adotta poi le Assistenzfiguren, personaggi che alludono a pratiche connesse con l'elemento terapeutico (notevole l'erbolaio che scalza la pianta a c. 4v) e che non esistono nei codici più antichi (Weitzmann, 1952). Infine compaiono due figure che hanno attirato la curiosità di Singer e di Bonnet (in Riddle, 1985) e che si ritrovano negli erbari arabi: l'erba lonchítis dalle testine ridenti (c. 65r) e l'erba aighílops con le teste d'aquila (c. 98r). La prima immagine si trova anche, sia pure in forma naturalistica, nel citato codice di Napoli, mentre la seconda trova giustificazione nella descrizione dioscoridea della pianta.Il manoscritto di Monaco (Bayer. Staatsbibl., Clm 337) è di poco posteriore a quello di Parigi e contiene la più antica versione latina del De materia medica; redatto in Italia meridionale, forse a Montecassino, il codice presenta alcune piccole e insignificanti raffigurazioni di piante, talvolta con Assistenzfiguren.Vi sono poi altri due importanti codici figurati del De materia medica in greco. Il primo, conservato a New York (Pierp. Morgan Lib., M.652) e databile alla fine del sec. 9° o agli inizi del 10°, conta ca. settecentocinquanta immagini, che si riferiscono non solo a un erbario alfabetico derivato da quello di Anicia Giuliana con l'integrazione di altri erbari, ma anche alle figure relative agli altri capitoli del De materia medica concernenti gli animali, gli oli, gli alberi, i vini e i minerali; secondo Mioni (1959) la seconda serie di raffigurazioni di piante del citato manoscritto patavino potrebbe derivare da questo prototipo. Il secondo manoscritto, conservato al monte Athos (Grande Lavra, 75Ω), databile al sec. 12°, ha figure di qualità mediocre che paiono spesso influenzate dai modelli dei mosaicisti.Tra gli altri numerosi manoscritti del De materia medica vanno infine citati quello latino di Bologna (Bibl. Univ., 620), in quanto rielaborazione alfabetica in ca. settecento capitoli, secondo una redazione che ebbe origine nella scuola salernitana ad opera di Costantino Africano (ca. 1085); quelli greci figurati di Venezia (Bibl. Naz. Marciana, gr. XI, 21), del sec. 13°, con piccole figure in rosso/nero; di Milano (Bibl. Ambrosiana, A. 95 sup.), eseguito nel sec. 14°, con figure molto piccole; di Bologna (Bibl. Univ., 3632), della fine del sec. 14° o degli inizi del successivo, che in aggiunta alle solite miniature introduttive ne contiene altre due, relative all'estrazione della mandragola, probabilmente in origine presenti anche nel codice di Anicia Giuliana.
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Il primo a portare un testo greco di D. alla corte di Baghdad fu, secondo il medico e storico arabo Ibn Juljul (944-994), il giovane cristiano nestoriano Ḥunayn b. Isḥāq (809-873), capo del Bayt al-Ḥikma (casa della saggezza), un istituto di traduzioni scientifiche fondato dal califfo abbaside alMa'mūn (813-833), dotato di una ricca biblioteca. Sotto la sua supervisione, al tempo del califfo al-Mutawakkil (847-861), Stephanos, figlio dell'interprete Basileos, tradusse D. dal greco in siriaco; lo stesso Ḥunayn tradusse poi in arabo i primi quatto libri di questa versione, mentre Stephanos curò la versione del quinto e di altri due ulteriori libri apocrifi.I termini botanici vennero tradotti ogniqualvolta fu possibile individuare le piante; in tutti gli altri casi si preferì traslitterare in arabo i nomi greci. Ḥunayn approntò poi un'altra versione, traducendo dal greco al siriaco su richiesta dell'archiatra Bakhtīshū῾ b. Jibrīl (terzo membro della dinastia).La traduzione di Stephanos si diffuse in tutto il mondo islamico fino all'estremo Occidente, dando origine a un certo numero di copie, figurate e non. Nel 948 l'imperatore bizantino Romano II, figlio e coreggente di Costantino VII Porfirogenito, offrì in dono al califfo di Córdova ῾Abd al-Raḥmān III (912-961) uno splendido manoscritto illustrato del D. in greco. Poiché a Córdova nessuno conosceva la lingua greca, su richiesta del califfo da Costantinopoli fu inviato nel 951 il monaco Nicola, che, con l'aiuto del giudeo Ḥasdāy ibn Saprūt e di altri sei erboristi, provvide a completare la traduzione di Stephanos, salvo dieci termini relativi a piante. L'intervento del monaco Nicola non dette origine alla stesura di una nuova traduzione, quanto piuttosto al completamento di quella di Stephanos, probabilmente utilizzando le figure del codice greco. Il problema dei nomi delle piante è del resto cruciale nelle traduzioni perché D. descrive le particolarità anatomiche di una specie paragonandole a quelle di un'altra; questo sistema, legato a uno specifico orizzonte botanico, complicato per di più dal numero dei sinonimi, fu fonte di continui fraintendimenti e incomprensioni. Rimane da osservare che non esistono versioni arabe del D. alfabetico benché è assai probabile che fosse conosciuto.Lo studio del De materia medica diede origine a una quantità innumerevole di opere di botanica farmacologica. Il problema della individuazione delle piante dioscoridee e la scoperta di piante esotiche, particolarmente indiane, mai citate nel De materia medica resero necessario un considerevole lavoro di integrazione. Il medico Ibn Juljul raccolse il risultato del lavoro del gruppo di studiosi che aveva lavorato insieme al monaco Nicola nel suo Kitāb anwā^ al-mufrada min Kitāb Diyusqūridūs (Libro della spiegazione dei nomi dei semplici che si trovano in Dioscoride), aggiungendovi poi un Maqāla fī dhikr al-adwiyya llatī lam yadhkur Diyusqūridūs (Trattato dei termini che non si trovano in Dioscoride, detto anche Libro ottavo perché considerato come continuazione dei cinque libri dioscoridei e dei due apocrifi), nel quale si dà notizia di sessantadue semplici, quasi tutti di origine indiana.Il più antico testo arabo di D. conservato (Leida, Bibl. der Rijksuniv., Or. 289) è datato 1083 e dal suo colofone si deduce che fu copiato da un esemplare più antico, datato 990, e che venne redatto, rettificando la traduzione di Stephanos, da Abū 'Abdallāh al-Natīlī. Quasi un secolo dopo, Abū Salīm al-Maltī fu incaricato dal re artuqide di Ḥiṣn Kayfā, Fakhr al-Dīn Qara Arslan (1144-1167), di riprendere in mano la versione siriaca di Ḥunayn e di tradurla in arabo, ma questa traduzione - individuata da Sadek (1983) nel manoscritto di Parigi (BN, arab. 4947) - fu giudicata così scadente che il cugino di Fakhr al-Dīn, Najm al-Dīn Alpi (1152-1176), richiese una nuova traduzione a Mihrān ibn Manṣūr, già noto per le sue traduzioni da Aristotele; questa versione è conservata in Iran, a Mashhad (Kitābkhāna-yi Āstāna-yi Qudṣ-i Riżāwī). Un'ulteriore copia della versione di al-Maltī, eseguita dal medico pratico Bihnam al-Mawṣilī e terminata nel gennaio 1228, come attesta il colofone, è conservata a Istanbul (Topkapı Sarayı Müz., A.III 2127). Un'altra traduzione, non si sa se derivata direttamente dal testo greco o da una versione siriaca, fu eseguita da Abdallāh b. 'Abdallāh b. 'Abdallāh nel 1244 ed è conservata a Bologna (Bibl. Univ., ar. 2954).Seguendo di norma i dettami dell'arte araba, le raffigurazioni botaniche dei codici islamici di D. sono costrette in schemi geometrici, talvolta molto complessi, di grande valore decorativo, nei quali prevale la razionalità della corrispondenza delle parti verso il tutto a scapito della rappresentazione realistica dei caratteri specifici della pianta. Esse sono intese non tanto per illustrare quanto per decorare la pagina e ricordano, qualche volta assai da vicino, la ceramica coeva. Le piante mostrano molto spesso una netta simmetria bilaterale (Bologna, Bibl. Univ., ar. 2954, c. 114v); i rami, i fiori e le foglie sono disposti secondo costruzioni geometriche in modo tale che l'aspetto della pianta è del tutto irriconoscibile; i colori carichi e squillanti, distesi in modo piatto e senza sfumature, completano l'alto livello di astrazione.Nelle miniature di alcuni manoscritti appaiono spesso Assistenzfiguren o anche scene con animali o paesaggi che poco o nulla hanno a che vedere con il soggetto botanico cui si riferiscono. Indipendentemente dalle intenzioni dell'artista, tali scene di genere hanno l'effetto di distrarre l'attenzione dal tema centrale della figura; in ogni caso è sorprendente il divario tra l'accuratezza delle traduzioni scientifiche arabe e la povertà degli apparati iconografici.In alcuni codici si trova il ritratto di D., seduto su un trono, chiaramente derivato dal modello bizantino, ma reinterpretato secondo il gusto arabo. Questa libertà nel processo di copia da parte dell'artista rende molto difficile correlare con sicurezza i manoscritti arabi a qualche modello bizantino conosciuto, anche se vanno registrate due importanti eccezioni. Il codice di Parigi (BN, arab. 4947), che ha la particolarità di essere l'unico erbario arabo su pergamena, mostra un'evidente somiglianza con un altro codice parigino (BN, gr. 2179), perché nei centoottanta capitoli comuni (il manoscritto arabo è molto incompleto) settanta delle centosessanta figure sono identiche e le rimanenti sono così simili da postulare un prototipo comune (Riddle, 1985). Di certo la pianta dalle teste d'aquila di c. 23v è la stessa aighílops di c. 98r del codice greco, mentre non si può fare nessun confronto con la lonchítis dalle testine ridenti di quest'ultimo (c. 65r), perché manca nel codice arabo. Queste due piante così particolari si ritrovano nei citati codici di Bologna e di Istanbul e in un altro conservato sempre a Istanbul (Topkapı Sarayı Müz., A.III 2147). Mancano invece in tutti gli altri manoscritti arabi, con una sola possibile eccezione (Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Ayasofya 3702).Un discorso a parte richiede l'iconografia del codice di Istanbul (Topkapı Sarayı Müz., A.III 2127), di straordinario interesse, che solleva diversi interrogativi riguardo alle sue figure, che sembrano derivare da una gran quantità di fonti differenti. Il manoscritto si apre con la figura di D. assiso su un tronetto (c. 1v) che riceve l'omaggio di due studiosi (c. 2r). Non ci sono dubbi che questa raffigurazione, eseguita probabilmente da tre artisti diversi, si ispira a quelle degli evangelisti nei manoscritti bizantini, forse al S. Giovanni di un evangeliario prodotto in Cappadocia nel sec. 10° (Parigi, BN, Coislin 195) per la positura e le caratteristiche del manto. Bisogna notare che la finissima descrizione dei lineamenti del viso dei personaggi li rende tipi riconoscibili e non meri stereotipi. Si tratta di veri ritratti, come è evidente nel carattere semita del giovane contrapposto a quello caucasico del suo compagno. A c. 2v vi è poi un'altra scena di ispirazione classica di dotta conversazione tra due botanici. Le cinquecentosessantatré figure di piante che illustrano il codice furono eseguite da numerosi artisti di talento e ispirazione molto diversi. In generale le miniature rispecchiano i caratteri di tutti gli erbari arabi di esecuzione corrente, come quella di c. 29r, che rappresenta una pianta resinosa sul cui tronco è iscritto il nome dell'artista, con la formula 'lavoro di 'Abd al-Jabbār b. 'Alī'; talvolta invece l'esecuzione è così fine da sembrare una lacca, come alle cc. 180r-180v. In altri casi si riconosce il modello greco dell'aighílops (c. 76r) o dell'apsínthion (c. 125v), chiaramente derivato da un erbario alfabetico di D. a figure grandi. La stupenda vite di c. 252v, che stilisticamente si colloca in netto contrasto con le altre miniature, non può che essere stata copiata direttamente da un foglio staccato dal codice di Anicia Giuliana (Vienna, Öst. Nat. Bibl., Med. gr. 1), che può aver raggiunto la bottega in cui si dipingeva l'erbario dopo il sacco di Costantinopoli del 1204, o come prodotto di scambio, o, più probabilmente, al seguito di un artista greco. La libertà d'invenzione degli artisti che hanno illustrato questo manoscritto è straordinaria. La miniatura di c. 209v mette in evidenza la simmetria raggiata di una mandragola vista dall'alto, mentre non viene minimamente mostrata la radice antropomorfa per cui la pianta è famosa. Vi sono poi numerose figure di piante ritratte dal vero con grandissima perizia: meritano di essere ricordati gli agli (c. 96r), la cipolla (c. 97r), le malve (cc. 143v e 144r), l'ibisco (c. 177r), le canne (c. 177v) e, eseguiti con minore abilità, i papaveri (c. 109r). Alle cc. 143v e 144v compaiono poi i più antichi esempi conosciuti di figure a impressione (Naturselbstdrucken); le foglie della pianta sono state ricoperte di pigmento verde e quindi impresse sulla carta.Queste miniature rivoluzionarie, così lontane dagli esempi offerti da tutti gli altri erbari coevi (islamici e occidentali), sembrano indicare che il committente, Malik Abu'l-Faḍa'il Muḥammad, governatore dell'Anatolia, di Damasco, di Diyarbakır ed Erman, dovesse essere un uomo molto aperto alle istanze degli ambienti scientifici. È altrimenti possibile che la ricerca del realismo nelle figure dell'erbario sia stata influenzata dalle teorie ottiche di Ibn al-Haytham, che postulavano la validità scientifica dell'indagine visiva.Il seguente elenco di D. figurati è suddiviso secondo le versioni studiate da Sadek (1983).Del gruppo derivato dalla traduzione di Stephanos rivista da Ḥunayn, il primo codice (Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Ayasofya 3702) non è datato, ma è antecedente al 1416; è scompleto e conta duecentonovantasei figure molto rozze. Il secondo codice (Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Ayasofya 3703), datato 1224, opera dello scriba 'Abdallāh ibn alFaḍl Sibt al-A'azz, attualmente conta centocinquantasei figure di piante e otto minerali. La qualità delle miniature, molto spesso animate da figure umane, è notevole e di grande interesse per la storia dell'arte, più che per quella della botanica. Il terzo codice (Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Ayasofia 3704) non è datato, ma riferibile al sec. 13°-14°; delle due figure introduttive la prima rappresenta D. tra due discepoli, la seconda due medici in dotta argomentazione. I disegni delle piante sono piuttosto rozzi ma abbastanza fedeli allo stile del modello bizantino.Del gruppo derivato dalle traduzioni di Stephanos e di Ḥunayn rettificate da al-Natīlī nel 990, il citato codice di Leida (Bibl. der Rijksuniv., Or. 289) conta seicentoventi figure di modesta qualità e di notevole astrazione. Il secondo codice (Londra, BL, Or. 3366), datato 1344, ha figure modeste ma meno schematiche che in altri manoscritti; si nota la mano di un artista in alcuni casi capace di un certo naturalismo. Il terzo codice (Patna, Khudā Bakhsh Oriental Public Lib., 2189) non è datato, ma da una nota di possesso si ricava che non può essere più tardo del sec. 11°; non è stato ancora descritto.Del gruppo derivato dalla traduzione di Ḥunayn dal greco in siriaco e da questa in arabo a opera di Mihrān ibn Manṣūr, il primo codice (Mashhad, Kitābkhāna-yi Āstāna-yi Qudṣ-i Riżāwī) non è datato, ma è riferibile al regno del committente Najm al-Dīn Alpi (1152-1176); conta seicentosessantasette figure di piante e duecentoottantaquattro di animali, vivaci e animate da figure umane, completamente irrealistiche, e costituisce il più antico esempio conosciuto della scuola mesopotamica di pittura.Del gruppo derivato dalla traduzione di Ḥunayn dal greco in siriaco e da questa in arabo a opera di Abū Salīm al-Maltī, il primo codice (Parigi, BN, arab. 4947) non è datato; secondo Bonnet (in Riddle, 1985) le centosessanta figure sono in gran parte derivate dal D. di Parigi (BN, gr. 2179). Il secondo manoscritto è quello, già descritto, di Istanbul (Topkapı Sarayı Müz., A. III 2127).Del gruppo di incerta collocazione il primo codice (Bologna, Bibl. Univ., ar. 2954), datato 1244, presenta il ritratto di D. con Aristotele e Luqmān ai lati; la figura ha qualche analogia con quella del manoscritto di Istanbul (Süleymaniye Kütüphanesi, Ayasofya 3704); presenta molte Assistenzfiguren assai vivaci; le figure botaniche hanno un forte impianto geometrico tipico dello stile arabo. Il secondo codice (Oxford, Bodl. Lib., Arab.D. 138), datato 1239, ha il ritratto di D. parzialmente eraso da un pio lettore; conta trecentonovantanove figure di qualità assai modesta. Il terzo codice (Parigi, BN, arab. 2850), non datato ma riferibile al sec. 12°, è redatto in Spagna ed è il più antico D. andaluso; conta centouno miniature molto modeste e assolutamente non naturalistiche. Il quarto codice (Parigi, BN, Coll. Particulière), scompleto e non datato, non è stato descritto.
Bibl.:
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