Abstract
Vengono esaminate le caratteristiche principali delle direttive, fonte del diritto dell’Unione europea che comporta una legislazione “a due stadi”. Analizzata la posizione delle direttive nel sistema delle fonti, si valutano, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, i rimedi a disposizione dei titolari di posizioni giuridiche soggettive in caso di inadempimento, da parte degli Stati membri, dell’obbligo di recepimento. Infine, si analizzano gli strumenti previsti dall’ordinamento italiano allo scopo di garantire un puntuale e fedele recepimento delle direttive.
Ai sensi dell’art. 288, n. 3, TFUE, le direttive sono una fonte obbligatoria di diritto secondario dell’Unione europea. Esse presentano la caratteristica di vincolare gli Stati membri cui sono dirette (nella maggior parte dei casi, tutti gli Stati) per quanto riguarda il risultato da raggiungere, lasciandoli tuttavia liberi quanto alla scelta della forma e dei mezzi necessari per conseguirlo. A differenza dei regolamenti, quindi, non sono direttamente applicabili negli ordinamenti interni, né hanno portata generale, avendo come destinatari formali solo Stati membri.
Le direttive sono senz’altro la fonte normativa di diritto derivato che, a dispetto dell’apparente “inoffensività” quale emerge dalla lettera dei Trattati istitutivi, nella prassi si è rivelata come la più complessa e problematica. In effetti, nel modello prefigurato dal Trattato, le direttive si presentano come uno strumento di legislazione indiretta, o a due stadi, mediante il quale non si vogliono porre in essere regole uniformi in sostituzione di quelle del diritto interno, in considerazione anche della difficoltà di conciliare le notevoli diversità esistenti negli ordinamenti giuridici nazionali. Con le direttive si preferisce piuttosto attivare una (inedita, nell’esperienza delle organizzazioni internazionali di tipo classico) collaborazione tra il livello normativo dell’Unione e quello nazionale. Si lasciano così liberi gli Stati membri di determinare essi stessi le modifiche da apportare alla propria normativa interna per renderla conforme al risultato perseguito dalla direttiva, conformemente alle loro esigenze e alle loro peculiarità nazionali, pur nel rispetto dell’unità del diritto dell’Unione. Per questo motivo la direttiva è lo strumento a cui si fa ricorso per l’adozione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio di regole finalizzate al ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri che abbiano ad oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno (art. 114 TFUE) e ormai anche il più utilizzato dalle istituzioni in ragione sia dell’espandersi delle competenze dell’Unione verso settori più ampi e nuovi ma non di competenza esclusiva, sia della necessità di garantire il rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità (art. 5 TUE).
Come di norma per gli atti vincolanti adottati dalle istituzioni dell’Unione, le direttive devono essere motivate e far riferimento alle proposte e ai pareri obbligatori previsti dai Trattati (art. 296 TFUE). L’art. 297 TFUE dispone, poi, in merito alla loro pubblicità: trattandosi di atti legislativi, esse entrano in vigore, producendo obblighi a carico dei destinatari (di norma, gli Stati membri) a partire dalla data stabilita oppure il ventesimo giorno successivo alla loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione. Gli atti non legislativi adottati sotto forma di direttive indirizzate a tutti gli Stati membri sono anch’essi pubblicati sulla GUUE con la precisazione relativa alla loro natura: anch’essi entrano in vigore alla data da essi stabilita o, in difetto, il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione. Le altre direttive sono notificate ai destinatari e hanno efficacia in virtù di tale notificazione. La data di entrata in vigore della direttiva non deve confondersi con il termine (solitamente di due anni dalla loro pubblicazione) assegnato agli Stati per provvedere alla sua attuazione: solo l’inosservanza di quest’ultimo comporta l’inadempienza dello Stato.
La facoltà, lasciata agli Stati membri, di decidere circa la forma e i mezzi ritenuti più opportuni per attuare una direttiva non è sempre piena ed effettiva. Innanzitutto, dalla direttiva, una volta entrata in vigore e quindi divenuta vincolante nei confronti degli Stati membri, possono derivare immediatamente degli obblighi precisi di comportamento, come nel caso di obblighi di non fare (stand-still). Inoltre, essi devono scegliere, nell’ambito discrezionale loro attribuito dall’art. 288 TFUE, le forme ed i mezzi più idonei per il conseguimento migliore e totale del risultato prescritto e garantire piena efficacia alle direttive, conformemente allo scopo che esse perseguono (C. giust, 23.11.1977, C-38/77, Enka). Ciò significa, ad esempio, che qualora una direttiva comporti modifiche di norme nazionali di rango primario, la sua trasposizione deve realizzarsi con un atto di rango equivalente al provvedimento da modificare; significa inoltre che deve trattarsi di misure vincolanti e sufficientemente chiare e precise tali da fornire garanzie di trasparenza e sicurezza giuridica per gli amministrati affinché, nel caso in cui la direttiva miri ad attribuire dei diritti ai singoli, questi siano in grado di conoscere per intero i loro diritti ed eventualmente di valersene dinanzi ai giudici nazionali (C. giust., 17.10.1991, C-58/89, Commissione c. Germania); significa infine che non è sufficiente, a tal fine, l’adozione di semplici atti amministrativi, per loro natura modificabili discrezionalmente dall’esecutivo e quindi incapaci di fornire quelle garanzie di certezza e di pubblicità necessarie all’efficace attuazione della direttiva: pertanto una circolare amministrativa non costituisce misura adeguata di attuazione di una direttiva che crea diritti e obblighi per gli individui (C. giust., 17.5.2001, C-159/99, Commissione c. Italia).
Inoltre gli Stati membri, nel rispetto dell’obbligo di leale collaborazione e della forza vincolante delle direttive, hanno il dovere di astenersi dall’adottare, nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore della direttiva nei loro confronti (che corrisponde alla sua pubblicazione in GUUE, salva la vacatio legis) e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato prescritto, altrimenti esponendosi al rischio dell’invocazione diretta delle disposizioni della direttiva dinanzi ai giudici nazionali da parte di chi abbia interesse, al fine di opporsi all’applicazione delle misure nazionali in questione (C. giust., 18.12.1997, C-129/96, Inter-Environnement Vallonie). La Corte di giustizia ha poi avuto modo di precisare che nel periodo di tempo che intercorre tra l’entrata in vigore della direttiva e la scadenza del termine per la sua attuazione, sui giudici interni grava inoltre l’obbligo di astenersi da qualunque forma di interpretazione ed applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo della realizzazione del risultato voluto dalla direttiva (C. giust., 15.4.2008, C-268/08, Impact).
Solo una situazione di assoluta conformità del diritto nazionale alle prescrizioni della direttiva, o l’esistenza di principi generali sufficientemente precisi e chiari tali da assicurare la sua piena osservanza, dispensano lo Stato dall’adottare misure di attuazione (C. giust., 23.5.1985, C-29/84, Commissione c. Germania), mentre, all’opposto, uno Stato non può portare a giustificazione del mancato o ritardato adeguamento la particolare situazione costituzionale, normativa o amministrativa del proprio ordinamento (C. giust., 20.3.1986, C-17/85, Commissione c. Italia) o l’autonomia dei propri enti territoriali (C. giust., 17.1.1991, C-157/89, Commissione c. Italia).
Nella prassi si è notevolmente sviluppata la tendenza all’adozione di direttive sempre più particolareggiate e precise nei contenuti normativi, tali cioè da lasciare ben poca discrezionalità agli Stati circa la scelta dei mezzi per la loro attuazione (c.d. “direttive dettagliate”): in pratica, non resta loro che puramente riprodurle nel diritto interno, limitandosi la facoltà di scelta al tipo di atto da adottare. Detta prassi, emersa negli anni settanta del secolo scorso e tuttora seguita dalle istituzioni, appare funzionale alla necessità di evitare il mantenimento di regole divergenti in alcune materie particolarmente delicate per il funzionamento del mercato interno o la tutela dei diritti dei singoli (si pensi, ad es., alla produzione normativa dell’Unione in tema di comunicazioni elettroniche o di tutela dei consumatori). Si è sostenuta in dottrina l’illegittimità di tale prassi, che in effetti appare contraddire la natura stessa della direttiva e la sua funzione originaria – in quanto assimilabile in tale ipotesi sostanzialmente a un regolamento – almeno nei casi in cui i Trattati prevedano la competenza dell’istituzione ad emanare soltanto direttive e non anche atti “obbligatori in tutti i loro elementi”. Né poteva portarsi a giustificazione il fatto che simili direttive fossero adottate col consenso degli Stati in seno al Consiglio: innanzitutto perché, se adottate a maggioranza, non rispecchiavano comunque la volontà di tutti gli Stati; in secondo luogo perché anche questa istituzione è vincolata al rispetto delle norme del Trattato e non può modificarle solo perché gli Stati membri si trovino concordi nel farlo. La Corte di giustizia non ha mai esplicitamente dovuto prendere posizione sulla conformità di questi atti e la nozione di direttiva quale risulta dal Trattato, il che fa presumere una sorta di generale consenso sulla loro legittimità. In alcune sentenze, adottando un approccio di tipo funzionale, la Corte di giustizia ha incidentalmente riconosciuto la legittimità di prescrizioni dettagliate quando necessarie per conseguire il fine prefissato (C. giust., 23.11.1977, C-38/77, Enka).
Come anticipato, lo schema di legislazione a due stadi, per cui la direttiva produce effetti negli ordinamenti nazionali solo attraverso le misure di attuazione adottate dagli Stati membri, è stato messo in crisi dalla prassi: la Corte di giustizia, estendendo agli atti normativi derivati i principi interpretativi già enunciati a proposito delle disposizioni dei Trattati, ha rilevato nel caso van Duyn (C. giust., 4.12.1974, C-41/74, van Duyn) come l’effetto vincolante di una direttiva, riconosciuto dall’art. 288 TFUE, sarebbe vanificato e il suo “effetto utile” compromesso se gli interessati non potessero farla valere dinanzi ai giudici nazionali contro lo Stato che abbia omesso di adottare le idonee misure di attuazione: a tal fine occorre esaminare «se la natura, lo spirito e la lettera delle (sue) disposizioni … consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri ed i singoli» . Si tratta quindi di verificare, in relazione a ciascun atto, se sussistano le condizioni perché possa produrre effetti diretti, con la precisazione che il riconoscimento di detti effetti costituisce ad ogni modo solo «una garanzia minima che … non può servire a giustificare la mancata adozione in tempo utile, da parte di uno Stato membro, delle misure di attuazione adeguate allo scopo di ciascuna direttiva» e necessarie per assicurare il rispetto del principio della certezza del diritto (C. giust., 6.5.1980, C-102/79, Commissione c. Belgio).
Gli effetti diretti si verificano, in primo luogo, qualora la direttiva imponga agli Stati solo obblighi negativi, di non tenere un determinato comportamento: in tal caso l’osservanza dell’obbligo si impone agli Stati in modo immediato, assoluto e incondizionato. In secondo luogo, la direttiva produce effetti immediati all’interno degli Stati membri quando si limita a confermare, chiarendone la portata, un obbligo già previsto da norme dei Trattati produttive di effetti diretti, come ad esempio nel caso dell’art. 28 TFUE che pone un divieto chiaro e preciso di applicare dazi doganali o qualsiasi tassa di effetto equivalente (C. giust., 17.12.1970, C-33/70, SACE).
Infine, possono riconoscersi effetti diretti alle direttive, una volta spirato il termine assegnato per la loro attuazione al verificarsi delle seguenti condizioni: a) pongano obblighi con un contenuto precettivo sufficientemente chiaro e preciso, tale da non lasciare margine di discrezionalità agli Stati; b) abbiano carattere incondizionato, tale cioè da non richiedere l’adozione di ulteriori atti di diritto interno; c) creino diritti a favore dei singoli chiaramente individuabili nel loro contenuto. Solo in tali circostanze la direttiva (o alcune delle sue disposizioni) potrà essere applicata direttamente dal giudice interno e gli amministrati avranno il diritto di farla valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato che non abbia emanato nel termine le misure di attuazione prescritte o l’abbia recepita in modo inadeguato (c.d. effetti diretti verticali: ex multis, C. giust., 19.1.1982, C-8/81, Becker). A parere della Corte, il carattere vincolante dell’obbligo imposto dall’art. ora 288 TFUE «sarebbe reso del tutto inoperante qualora fosse consentito agli Stati membri di vanificare, con la loro omissione, anche gli effetti che talune disposizioni di una direttiva sono atte a produrre in forza del loro contenuto». Specularmente, lo Stato destinatario non potrà imporre alle persone obblighi previsti dalla direttiva non (o non correttamente) recepita (divieto di effetti diretti verticali inversi: C. giust., 21.10.2010, C-227/09, Accardo). D’altro canto, i singoli possono conformarsi alle disposizioni di una direttiva non attuata, senza con ciò incorrere in sanzioni (C. giust., 5.4.1979, 148/78, Ratti), mentre, al contrario, non possono essere sanzionati per non essersi conformati a una direttiva non trasposta (C. giust., 11.6.1987, C-14/86, Pretore di Salò).
Emerge dalla giurisprudenza della Corte che le disposizioni di una direttiva non attuata possono essere fatte valere dai privati solo nei confronti dello Stato inadempiente. Più precisamente, qualora sussistano i presupposti necessari, l’effetto “verticale” della direttiva può essere invocato anche nei confronti degli Stati federati di Stati membri federali, delle Regioni (C. giust., 14.1.1988, 227-230/85, Commissione c. Belgio), di tutti gli organi dell’amministrazione, compresi i Comuni (C. giust., 22.6.1989, C-103/88, Fratelli Costanzo) e in genere nei confronti di ogni organismo (anche privato) che sia stato incaricato, con atto della pubblica autorità, di prestare sotto il controllo di quest’ultima un servizio di interesse pubblico e che dispone a tale effetto di poteri esorbitanti rispetto alle regole applicabili nei rapporti tra privati (C. giust., 12.7.1990, C-188/89, Foster). Lo scopo è quello di evitare che lo Stato membro possa avvalersi della propria inadempienza per negare ai privati i diritti loro derivanti dalla direttiva non attuata. In applicazione dei principi generali, il giudice, così come l’amministrazione, sono tenuti a disapplicare la norma interna se incompatibile con disposizioni di una direttiva che siano chiare, precise ed incondizionate (C. giust., 28.4.2011, C-61/11, El Dridi)
Come prima anticipato, devono invece ritenersi esclusi gli effetti verticali “inversi”, ossia non è consentito che la direttiva non o male recepita nell’ordinamento interno possa essere utilizzata da un’autorità pubblica per imporre a un singolo un determinato comportamento (C. giust., 8.10.1987, C-80/86, Kolpinghuis), a maggior ragione qualora dalla direttiva (o da un’interpretazione del diritto interno in senso conforme ad essa) risultino sanzioni penali a carico del singolo (C. giust., 3.5.2005, cause C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi).
In conclusione, risulta evidente la natura o l’intento sanzionatorio nei confronti dello Stato inadempiente di simile impostazione, che si trova poi all’origine delle ambiguità e delle contraddizioni della giurisprudenza della Corte.
Questa infatti esclude gli effetti orizzontali, ossia la possibilità per il singolo di far valere le disposizioni della direttiva anche nei confronti di altri soggetti privati: secondo quanto affermato in C. giust., 26.2.1986, C-152/84, Marshall, tale conclusione deriva dalla considerazione che la direttiva vincola solo lo Stato cui è diretta e dunque non può di per sé imporre obblighi a carico dei singoli in assenza di misure di attuazione: pertanto non può essere invocata dinanzi al giudice nazionale da soggetti privati contro altri soggetti privati. Una diversa soluzione significherebbe riconoscere in capo all’Unione «il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico [dei singoli], mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare dei regolamenti» .
Una simile conclusione porta a conseguenze non coerenti e soprattutto a situazioni discriminatorie, potendo dar luogo a un’applicazione difforme della direttiva non solo nel territorio dell’Unione a seconda della tempestività o del ritardo con cui uno Stato membro provvede al suo recepimento, ma anche nell’ambito del medesimo ordinamento statale tra singoli che si trovano in una medesima situazione giuridica ma che intendano far valere la loro pretesa nei confronti di soggetti diversi, pubblici o privati. Ad esempio i dipendenti di enti pubblici potrebbero avvalersi di una direttiva contro l’amministrazione, ma non i dipendenti di enti privati contro datori di lavoro privati, pur ricadendo nella medesima fattispecie. Come precisato dalla Corte, infatti, gli amministrati, quando sono in grado di far valere una direttiva nei confronti dello Stato, possono farlo indipendentemente dalla veste nella quale questo agisce, come datore di lavoro o come pubblica autorità. In entrambi i casi, infatti, è opportuno evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto dell’Unione (C. giust., 14.9.2000, C-343/98, Collino e Chiappero).
È vero che la posizione della Corte trova giustificazione nell’esigenza di tutelare il legittimo affidamento dei privati, i quali non possono ritenersi responsabili per l’essersi conformati a una norma vigente dell’ordinamento giuridico statale, per cui il loro comportamento non è “sanzionabile”; ma si potrebbe obiettare, d’altro lato, che analoga esigenza vale anche nei confronti di coloro che, conformandosi al diritto interno, si trovano a subire le conseguenze negative della mancata attuazione di una direttiva, qualora questa sia invocata in giudizio nei confronti dell’amministrazione. Nel tentativo di chiarire quest’ultimo aspetto, la Corte ha più di recente posto una non chiarissima distinzione a seconda delle caratteristiche dei “rapporti triangolari”, in cui l’invocazione, da parte di un privato, di una direttiva nei confronti dello Stato produce ripercussioni negative sulla posizione giuridica di altri privati: premesso che il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano creare obblighi a carico dei singoli, la Corte ne ha ricavato come corollario che un singolo non può far valere una direttiva nei confronti di uno Stato membro «qualora si tratti di un obbligo pubblico direttamente connesso all’attuazione di un altro obbligo che incombe ad un terzo, ai sensi di tale direttiva». Per contro, “semplici ripercussioni negative”, anche se certe, sui diritti dei terzi, non giustificano che si rifiuti ad un singolo di far valere le disposizioni di una direttiva nei confronti dello Stato membro interessato (C. giust., 7.1.2004, C-201/02, Wells).
Un efficace tentativo di attenuare le conseguenze discutibili derivanti dalla distinzione tra effetti verticali ed effetti orizzontali delle direttive non (correttamente) recepite può riscontrarsi nella giurisprudenza inaugurata da C. giust., 10.4.1984, C-14/83, Van Colson e Kamann , in cui la Corte afferma l’obbligo per il giudice nazionale di interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde cercare di conseguire ugualmente il risultato perseguito e conformarsi pertanto all’art. 288 TFUE (obbligo di interpretazione conforme). Nelle successive sentenze (cfr. C. giust., 13.11.1990, C-106/89, Marleasing) ha precisato che tale obbligo vale per «l’insieme delle disposizioni nazionali», che siano anteriori o posteriori alla direttiva, e che questa concerne sia le controversie “verticali” che quelle “orizzontali”. Più in generale, la Corte richiede ai giudici interni di adottare una sorta di “presunzione”: lo Stato, all’interno di quel margine di discrezionalità che gli attribuisce l’art. 288 TFUE, intende adempiere pienamente alla direttiva. Da ciò consegue che “tutto il diritto nazionale”, e non solo quello adottato per attuare le prescrizioni di una direttiva, vada interpretato e, conseguentemente, applicato, alla luce del testo e dello scopo della stessa, in modo da conformarsi, per quanto possibile, al risultato da essa prescritto (C. giust. 25.2.1999, C-131/97, Carbonari). Va peraltro evidenziato che in queste come in altre occasioni la Corte appare intendere per “interpretazione conforme” un vero e proprio obbligo, a carico del giudice nazionale, di “scartare” l’applicazione della norma interna non compatibile con la direttiva non recepita o recepita in maniera non corretta (C. giust., 5.10.2004, C-397/01 - C-403/01, Pfeiffer ).
In alcune occasioni, poi, la Corte sembra distinguere tra effetti diretti orizzontali delle direttive non recepite, tuttora negati (c.d. “effetto di sostituzione”), ed obbligo per il giudice nazionale e per l’amministrazione di disapplicare le norme interne non conformi alle stesse, anche qualora la direttiva in questione non sia capace di spiegare effetti diretti in quanto non completa ovvero qualora venga invocata in controversie tra privati (c.d. “effetto di esclusione” delle norme interne difformi). Questa conclusione si è raggiunta, ad esempio, quando le prescrizioni della direttiva rivestono contenuto di tipo “procedurale” (C. giust., 30.4.1996, C-194/94, CIA Security International; 26.9.2000, C-443/98, Unilever).
Infine, occorre dar conto di una significativa svolta nella giurisprudenza della Corte di giustizia, tesa a superare le contraddizioni derivanti dalla distinzione tra effetti verticali e effetti orizzontali. In C. giust., 22.11.2005, C-144/04, Mangold, la controversia – tipicamente di carattere “orizzontale” – verteva sulla compatibilità della legge tedesca, che autorizzava la stipulazione facilitata di contratti di lavoro a tempo determinato nei confronti di lavoratori con più di 52 anni anche in assenza di una causale oggettiva (abbassando l’età oltre la quale possono essere stipulati senza restrizioni tali contratti), con la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. La Corte ha riconosciuto l’esistenza della discriminazione basata sul motivo dell’età e quindi il contrasto della normativa tedesca con quella europea. Ma tale contrasto è rilevato non sulla base della direttiva, bensì del principio di non discriminazione in ragione dell’età che deve considerarsi un principio generale del diritto dell’Unione: esso pertanto si impone come tale al legislatore nazionale, indipendentemente dall’essere confermato in una norma di diritto derivato (nella fattispecie, la direttiva 2000/78), dunque anche prima della trasposizione della direttiva stessa e a prescindere dalla circostanza se la controversia interna riguardi rapporti orizzontali tra privati.
In termini più generali, questo orientamento giurisprudenziale (confermato, ad es., da C. giust., 19.1.2010, C-555/07, Kücükdeveci) può avere implicazioni e applicazioni di vasta portata e incidere su un numero assai vario di situazioni, ogni volta che, trattandosi di invocare in controversie interne di carattere “orizzontale” una direttiva non attuata, possa farsi ricorso a un principio generale dell’ordinamento dell’Unione – sia richiamato o meno dalla direttiva in questione – per disapplicare comunque la normativa interna; principio generale che opera dunque quale parametro di legalità del comportamento del legislatore interno ogni qualvolta si rientri, anche in via indiretta e magari proprio in conseguenza dell’adozione della direttiva, come nel caso Kücükdeveci, nel campo di applicazione del diritto dell’Unione.
La mancata adozione delle disposizioni necessarie al recepimento pone in essere una violazione del diritto dell’Unione che – al di là dell’illecito costituito dalla mancata trasposizione e delle sue conseguenze sul piano istituzionale (procedimento di infrazione) – provoca la responsabilità patrimoniale dello Stato membro inadempiente (C. giust., 19.11.1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich). Ciò a condizione che le disposizioni violate della direttiva siano intese ad attribuire un diritto ai privati e che sussista un nesso di causalità tra il mancato adempimento ed il danno da essi patito. Quanto all’ulteriore condizione necessaria perché possa configurarsi la responsabilità patrimoniale dello Stato, vale a dire la sussistenza di una violazione “grave e manifesta”, la Corte ha precisato che ciò si verifica ipso iure qualora uno Stato non adotti i provvedimenti necessari per raggiungere il risultato prescritto da una direttiva (C. giust., 8.10.1996, C-178-179/94 e C-188-190/94, Dillenkofer). Diverso è il caso in cui l’intervento dello Stato in sede di recepimento, in ipotesi non conforme alle disposizioni di una direttiva, sia dovuto ad un’errata interpretazione della stessa causata dalla poca chiarezza del suo testo, il quale può «ricevere diverse interpretazioni seriamente sostenibili» (C. giust., 24.9.1998, C-319/96, Brinkmann).
L’ammontare della riparazione sarà poi determinato in base alle norme interne sulla responsabilità (C. giust., 14.7.1994, C-91/92, Faccini Dori). Qualora la violazione del diritto dell’Unione imputata allo Stato membro riguardi la mancata attuazione nei termini di una direttiva che intendeva attribuire dei diritti ai privati, la Corte ha precisato che l’applicazione “retroattiva e completa” delle misure di attuazione permette di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione, e quindi consente allo Stato membro di liberarsi dell’obbligo risarcitorio. Ciò, tuttavia, a condizione che la direttiva stessa sia stata regolarmente recepita e questo sia sufficiente a garantire un adeguato risarcimento al privato per il danno subito (C. giust., 10.7.1997, C-94/95 e C-95/95, Bonifaci).
La nostra giurisprudenza di legittimità ha recentemente ricondotto il diritto del singolo al risarcimento del danno derivante dalla violazione del diritto dell’Unione allo schema della responsabilità per inadempimento di un’obbligazione ex lege, di natura indennitaria e con prescrizione decennale della relativa azione (Cass., S.U., 17.4.2009, n. 9147).
L’attuazione delle direttive negli ordinamenti nazionali avviene con le misure prescelte da ogni Stato membro, con i limiti su indicati. Nell’ordinamento italiano, a partire dalla l. 9.3.1989, n. 86 (c.d. “legge La Pergola”), successivamente sostituita dalla l. 4.2.2005, n. 11, trova applicazione un meccanismo inteso a rendere più celere l’intervento di attuazione attraverso l’adozione di una legge ad hoc, oggi definita “legge di delegazione annuale” (art. 29 ss., l. 24.12.2012, n. 234), che contiene la delega al Governo per l’attuazione delle direttive da recepire nell’anno di riferimento nonché, qualora consentito dalla materia in discussione, disposizioni che autorizzano il Governo ad intervenire in via regolamentare. L’utilizzo di questo meccanismo ha ridotto in maniera sensibile, pur senza riuscire ad eliminarli del tutto, i ritardi cronici dell’ordinamento italiano, riducendo contestualmente i casi di responsabilità patrimoniale dello Stato per violazione dell’obbligo di dare attuazione alle direttive.
Artt. 288 ss. TFUE; l. 24.12.2012, n. 234.
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