dirigente
Persona dotata di autonomia decisionale, che fa parte della direzione di un’organizzazione (un’impresa pubblica o privata oppure una parte di essa) e opera al fine di promuovere, coordinare e gestire gli obiettivi aziendali. I d. occupano, pertanto, posizioni di vertice all’interno delle organizzazioni e possono essere responsabili di un’intera azienda o di una unità organizzativa, come per es. una funzione o una divisione. Ciascun d. può essere alle dipendenze di un altro d. (è il caso, per es., di un d. di funzione o di divisione) o può essere alle dipendenze della proprietà (è il caso, per es. dell’amministratore delegato o del direttore generale di un’impresa). In questo senso, il d., nell’esercizio della sua autonomia discrezionale, si muove entro gli spazi definiti dal soggetto a cui risponde. Nel termine così inteso, pertanto, egli svolge mansioni tipicamente manageriali, anche se non tutti coloro che svolgono tali funzioni sono dirigenti.
Da un punto di vista giuridico, infatti, nell’ordinamento italiano, è prevista la figura del d. tra le categorie dei lavoratori subordinati (che comprendono anche quadri, impiegati e operai). Il ruolo del d. si caratterizza per i poteri di coordinamento e controllo di cui è investito, l’autonomia di cui gode nei confronti del datore di lavoro, l’elevata discrezionalità nell’assumere le proprie decisioni. Nella pratica non è sempre facile stabilire se un lavoratore rientra nella categoria dei d., soprattutto perché il confine tra questa e la categoria immediatamente inferiore dei quadri è piuttosto sfumato. L’appartenenza o meno alla dirigenza ha un rilievo non indifferente per il trattamento giuridico del lavoratore, giacché non mancano nel diritto del lavoro italiano norme riferite unicamente ai dirigenti. Tali norme delineano un trattamento diverso rispetto a quello degli altri lavoratori, nel senso che al d. non si applicano una serie di norme generalmente poste a ‘garanzia del lavoratore’. Tra le altre, quelle in materia di orario di lavoro, quelle relative a contratti a tempo determinato e, soprattutto, quelle sul licenziamento. Al d., infatti, non si applicano le norme limitative del licenziamento contenute nella l. 604/1966 e nella l. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), per cui è possibile nei suoi confronti il cosiddetto recesso ad nutum, non sorretto dalle usuali motivazioni per la giusta causa o per il giustificato motivo, con l’unico vincolo posto dalla l. 108/1990, della forma scritta dell’atto di recesso, pena la sua inefficacia. In mercati del lavoro più flessibili di quello italiano, tali regole meno garantiste si applicano a tutti i dipendenti, con effetti spesso positivi nell’occupazione delle componenti più deboli della forza lavoro. La ratio di tale normativa risiede nella natura fiduciaria che lega il d. all’impresa: il venir meno di tale fiducia inficia la relazione professionale e spiega la possibilità di interruzione immediata del rapporto di lavoro. Se tale interruzione pregiudica la reputazione professionale del d., è previsto un indennizzo economico.