Dirigenza pubblica e nuovo testo unico
Con il progetto riformatore introdotto dalla l. delega n. 124/2015 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) e che si concluderà tra un anno con l’emanazione dei decreti legislativi, viene posta nuova enfasi sul rapporto di lavoro pubblico e soprattutto sulla figura dirigenziale. Continuano così a rincorrersi, governo dopo governo, innovazioni legislative spesso risultato di impostazioni teoriche e organizzative diverse e non sempre conciliabili. In questo caso, al legislatore delegato è assegnato anche un compito estremamente delicato: redigere un testo unico che riguardi tutto il lavoro pubblico che raccolga e coordini la disciplina vigente ormai in rivoli normativi che hanno già quasi del tutto rotto l’unicità di modello contenuto nel d.lgs. 165/2001: un testo unico che non potrà essere meramente ricognitivo, sia perché dovrà spesso rapportarsi con incongruenze insite nel dettato vigente, sia perché dovrà raccordarsi con le novità che la legislazione delegata emanerà in base ai nuovi criteri di delega1.
Nell’impostazione della l. 7.8.2015, n. 124, il legislatore adotta, nella previsione sulla regolamentazione del rapporto di lavoro dirigenziale, una tecnica legislativa “inclusiva”, con l’intento di disciplinare in modo sostanzialmente analogo la materia, a prescindere dalla tipologia istituzionale presso cui il dirigente pubblico opera.
Le vicende e i trascorsi normativi che hanno condotto a questa legge sono stati ampiamente illustrati nell’analoga voce di questa opera2 e ad essa si fa rinvio per completezza di informazione.
Solo per connessione tematica, va detto che con l’approvazione della legge da parte del Parlamento, si è anche formalmente convalidata l’inversione di tendenza rispetto alla legislazione precedente che aveva, invece, sempre distinto la fonte disciplinante il lavoro dirigenziale, a volte dettandone la normativa in specifiche leggi di settore (come nel caso delle autonomie locali o della sanità), talvolta e per lo più disciplinando in modo compiuto il rapporto di lavoro della dirigenza ministeriale come orientamento, anche interpretativo, per le figure dirigenziali di altre amministrazioni (come nel caso della dirigenza scolastica e della dirigenza non medica del SSN, nonché della norma di raccordo generale contenuta nel d.lgs. 10.3.2001, n. 165).
Naturalmente, solo i decreti legislativi delegati consentiranno di capire fino a che punto questa tecnica “inclusiva” avrà davvero uniformato le regole del rapporto dirigenziale nelle pubbliche amministrazioni, ma le disposizioni contenute nei criteri di delega già autorizzano a segnalare questa prima importante discontinuità.
I decreti delegati dovranno prestare attenzione soprattutto alla regolamentazione della dirigenza regionale per l’innegabile reciproca influenza che norme sull’organizzazione e norme sulla dirigenza esercitano e in ragione dell’attuale assetto di fonti che l’art. 117 Cost. determina, assegnando alla competenza legislativa statale la regolamentazione del rapporto di lavoro (anche pubblico a seguito del processo di contrattualizzazione) e a quella regionale la regolamentazione dell’organizzazione. Preoccupazione che sembra aver colto il legislatore delegante solo per la dirigenza non medica del Servizio Sanitario Nazionale alla quale è dedicata una specifica lettera dei criteri di delega dalla quale comunque il legislatore statale non è riuscito ad astenersi più di tanto.
Accanto all’inclusività del progetto riformatore, va segnalata anche una tendenza alla rilegificazione del rapporto di lavoro. Si tratta, in verità, di una tendenza che riguarda tutto il lavoro pubblico presente non solo in questa legge ma nella legislazione di settore a partire dal 2008; e proprio perché da quell’anno parte quella che possiamo definire la legislazione della crisi, si tratta di un trend che riguarda tutti i Paesi europei; anche se nei sistemi amministrativi nei quali la contrattualizzazione del rapporto di lavoro (nel nostro caso dirigenziale) era stata più accentuata, come nel caso italiano, l’inversione è stata maggiormente avvertita.
Pertanto, rilegificazione (o iperegolazione) del rapporto di lavoro e omogeneizzazione della disciplina legislativa sono i tratti più evidenti della nuova riforma che potranno influenzare anche il rapporto tra politica e amministrazione, soprattutto se nei decreti delegati la regolamentazione legislativa dovesse raggiungere livelli tali da limitare discrezionalità e autonomia dirigenziale senza gli opportuni contemperamenti che le costituende Commissioni dovranno svolgere nelle fasi di valutazione e accertamento della responsabilità dirigenziale.
Un contemperamento difficile da realizzare se si pensa che, come evidenziato da studi comparati, i processi di rilegificazione, soprattutto se si collocano in modelli organizzativi basati su tecniche e competenze manageriali dei dirigenti, determinano un cortocircuito tra capacità gestionali professionalmente enfatizzate e forte ridimensionamento degli strumenti gestionali ad essi affidati: un cortocircuito che può facilmente comportare il rifugiarsi ancora una volta nel rispetto formale delle norme e nell’adeguamento alla volontà (organizzativo-gestionale) eventualmente espressa dal responsabile politico di riferimento.
Un ulteriore carattere critico riscontrabile nella soluzione adottata dal legislatore è quella di aver distribuito materie riguardanti la dirigenza sia nei criteri di delega di cui all’art. 11, sia in quelli relativi all’art. 17: il primo riferito esplicitamente alla disciplina sulla dirigenza, il secondo al riordino del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni; con una distinzione che riguarda non solo le fonti delegate, ma anche il limite entro il quale i decreti legislativi devono essere emanati (12 mesi per i decreti sulla dirigenza e 18 mesi per quelli sul lavoro pubblico): una sfasatura di tempi che sarebbe utile che il legislatore delegato sanasse, superando la sfasatura dei termini ricorrendo alla opportunità concessa dal co. 2 dell’art. 17. E ciò per ragioni di metodo e sistematicità della disciplina.
Va, infatti, ricordato che, come recita il co. 1 dell’art. 16, lett. a) e viene ribadito anche dal co. 1 dell’art. 17, la disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sarà disciplinata (tra t.u. e normativa delegata) insieme «ai connessi profili di organizzazione amministrativa». Come dottrina e giurisprudenza hanno evidenziato fin dai tempi del d.lgs. 3.2.1993, n. 29 è proprio la demarcazione tra lavoro e organizzazione, che passa anche per la distinzione di fonti, il punto delicato della contrattualizzazione del lavoro.
Ma, segnalato in generale il rischio che l’enfasi posta sull’organizzazione unifichi macro e micro organizzazione e che ciò apra la strada ad una ulteriore emarginazione della fonte contrattuale, va sottolineato come questo equilibrio sia ancora maggiormente delicato proprio per la figura dirigenziale, la cui funzione e il cui rapporto di lavoro presentano molti istituti “a cavallo” tra organizzazione e lavoro.
Sono queste le ragioni per cui sul piano del metodo, sarebbe auspicabile che t.u. derivante dal co. 2 dell’art. 16 (che basandosi sulla legislazione vigente riguarda l’insieme dei lavoratori pubblici), normativa delegata derivante dai criteri dell’art. 11 e normativa delegata derivante dai criteri di cui all’art. 17 costituissero un unicum normativo, soprattutto considerando, come si accennava, che sul piano del contenuto non sono pochi gli istituti di carattere generale – riguardanti quindi dirigenti e lavoratori dei comparti – che sono previsti nella delega dell’art. 17.
In questo paragrafo esamineremo le novità previste dalla leggedelega sui diversi ambiti disciplinari che compongono la figura dirigenziale, rinviando, per quanto riguarda il rilevante istituto degli incarichi allo specifico contributo in questo stesso volume.
2.1 Ruoli e reclutamento
La disciplina specifica è contenuta nell’art. 11 della l. n. 124/2015 che qualifica il sistema dirigenziale pubblico come formato da «ruoli unificati e coordinati ... (e) caratterizzato dalla piena mobilità tra i ruoli». Di fatto, la struttura adottata è quella di tre ruoli distinti per tipologia istituzionale delle amministrazioni, ma comunque con esclusione di quella scolastica e di quella medica del SSN:
i) centralizzate (con eliminazione della doppia fascia di inquadramento per quella ministeriale) comprendente anche università, ricerca e agenzia, ma con esclusione della dirigenza non contrattualizzata;
ii) regionali e delle province autonome, comprendente anche le camere di commercio e la dirigenza non medica del SSN; iii) degli enti locali comprendente anche i segretari comunali e provinciali (la cui figura viene abolita) iscritti al relativo albo (che viene soppresso alla data di emanazione del decreto delegato).
Proprio il requisito della piena mobilità, rafforzato dal criterio di delega di cui al co. 1, lett. f), e quelli della omogeneità delle modalità di accesso improntati a criteri di merito, aggiornamento e formazione continua porta a semplificare la descrizione del modello definendolo come basato sul ruolo unico: definizione che se bene descrive la scomparsa dei ruoli di amministrazione, va comunque contemperata con la enunciata previsione di tre ruoli unificati, ma anche col fatto che nell’ambito del primo, l’art. 11, co. 1, lett. b), n. 1, preveda anche una non meglio specificata “introduzione di ruoli unici (e non di semplici sezioni per professionalità speciali) per la dirigenza delle autorità indipendenti, nel rispetto della loro piena autonomia”. Ciò che porta a ipotizzare la istituzione di ulteriori ruoli (per tutte le autorità, per tipologie o per ognuna e difficile dire, se non che saranno più di uno) per i quali non dovrebbe valere almeno il principio della piena mobilità (se non all’interno del loro stesso perimetro istituzionale).
A salvaguardia del modello e soprattutto dell’autonomia e terzietà della gestione del rapporto dirigenziale (rectius, dei ruoli) sono poste le Commissioni di ognuno dei ruoli unificati delle quali si definisce la sede istituzionale solo per quella del ruolo statale e che presidiano le fasi di conferimento, conferma o revoca degli incarichi in base al concreto utilizzo di criteri di valutazione, e alle quali sono attribuite anche le funzioni che l’art. 22 d.lgs. n. 165/2001 attribuiva in fase di accertamento della responsabilità dirigenziale al comitato dei garanti per la dirigenza statale.
Nel mentre per la dirigenza statale e per quella regionale, il legislatore non entri nel merito degli assetti organizzativi e di responsabilità delle amministrazioni, nel caso degli enti locali, l’art. 1, co. 1, lett. b), n. 4, detta disposizioni precise in merito alla articolazione della funzione dirigenziale, all’attribuzione di funzioni specifiche in capo ad esse, alle modalità di esercizio delle stesse a seconda della dimensione degli enti. Una maggiore invasività (non necessariamente illegittima allo stato attuale dei criteri di delega) che si spiega da un lato con l’esigenza di assorbimento dei segretari comunali e provinciali e delle conseguenti esigenze di salvaguardia delle funzioni e temporaneo percorso di integrazione e, dall’altro, con quelle di garanzia del contenimento della spesa negli assetti delle funzioni degli enti locali, soprattutto per il privilegio accordato al loro esercizio in forma associata.
Ancora ricostruendo la nuova normativa di delega, va segnalato che la l. n. 124/2015 conferma le modalità di accesso (art. 11, co. 1, lett. c) alla qualifica dirigenziale, richiamando sia l’istituto del corso-concorso, sia quello del concorso, ma introducendo notevoli innovazione nelle procedure soprattutto di valutazione e stabilizzazione del rapporto di lavoro.
Entrambe le procedure prevedono che siano definiti requisiti e criteri ispirati alle migliori pratiche europee e il possesso di un titolo di studio non inferiore alla laurea magistrale: in entrambi i casi, e sulla base della normativa delegata, dovrà essere aggiornata quella attualmente prevista dal d.P.R. 16.4.2013, n. 70 sul riordino del sistema di reclutamento e formazione dei dipendenti pubblici e delle Scuole pubbliche di formazione, anche nella prospettiva di una gestione integrata del corso-concorso da parte della riformando (art. 11, co. 1, lett. d) Scuola Nazionale dell’Amministrazione in collaborazione con istituzioni formative e universitarie anche straniere.
Sui requisiti per l’accesso, vanno segnalati due criteri di delega previsti tra quelli che l’art. 17 detta per la disciplina di riordino generale e che non è certo (almeno in un caso) riguardino anche la dirigenza. Se infatti può ritenersi certo che valga anche per l’accesso alla dirigenza il criterio della valorizzazione del titolo di dottore di ricerca (lett. f), occorrerà verificare – sia sotto il profilo del rischio di disparità di trattamento, sia sotto quello del rischio di svalutazione dell’elemento formativo nella creazione di una figura di elite come appare quella dirigenziale – se e come il legislatore delegata intenderà estendere il criterio della «soppressione del requisito del voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi» (lett. d).
Altri elementi condivisi dalle due procedure sono la cadenza annuale, l’esclusione di graduatorie di idonei, l’espletamento delle procedure di reclutamento per ognuno dei ruoli indicati, la possibilità di reclutare con tali strumenti anche dirigenti di carriere speciali o di autorità indipendenti.
Le due procedure di reclutamento svolgono però funzioni diverse e tra le due il legislatore privilegia quale strumento prioritario di reclutamento e formazione della dirigenza quella del corso-concorso. Ad esso è in primo luogo attribuita la funzione di rispondere in modo sistematico e complessivo al fabbisogno dirigenziale di tutte le amministrazioni; ad esse, infatti, è richiesto di definire il fabbisogno «minimo» annuale di personale da reclutare la cui somma costituirà «il numero fisso» di posti da mettere a concorso. Il concorso, invece, opera in funzione integrativa e subordinata al corso-concorso, prevede un numero «variabile» di posti risultante dal numero di posti previsti in dotazione organica e non coperti dal corso-concorso.
Resta da chiarire come si svolga la funzione di integrazione e soprattutto cosa si debba intendere per «posti non coperti»: infatti, se ad essi si deve attribuire il significato di «posti non coperti per mancanza di vincitori al corso-concorso», il ruolo del concorso è effettivamente ausiliario a quello del corso-concorso che assolve a pieno alla funzione di procedura di sistema; se invece si deve intendere «posti non coperti per mancata segnalazione da parte delle amministrazioni del numero complessivo di posti vacanti» (fabbisogno minimo), allora le amministrazioni potrebbero esse stesse orientare, secondo proprie convenienze ed esigenze, la copertura dei posti con uno o l’altro tipo di reclutamento; ad esempio, mantenendo maggiore o minore flessibilità nella gestione della percentuale di incarichi dirigenziali ex art. 19, co. 6, d.lgs. n. 165/2001.
E a questo punto va anche tenuto in conto che le percentuali di incarichi fiduciari si sono differenziati nella legislazione di settore, con incrementi molto più significativi soprattutto negli enti locali.
Anche a prescindere la esigenza di chiarire se percentuali diverse di comparto resteranno anche successivamente alla legislazione delegata, resta il fatto che percentuali ampie di incarichi fiduciari finiscono per condizionare e limitare l’inserimento dei dirigenti di ruolo e, soprattutto, di creare problemi di ricollocazione dei dirigenti che, rimasti privi di incarico, siano collocati in disponibilità, come si vedrà in seguito.
Appare in verità alquanto complessa se non tortuosa, e forse anche a rischio di stemperare l’obiettivo di rinnovamento generazionale delle pubbliche amministrazioni più volte dichiarato dal Governo, la fase di inserimento in organico dei nuovi dirigenti per l’una e l’altra modalità di reclutamento.
Al termine della formazione universitaria o postuniversitaria, e ipotizzando che si tratti di candidati che non abbiano già svolto esperienze lavorative nelle pubbliche amministrazioni o all’estero i vincitori del corso-concorso saranno immessi in servizio come funzionari (presumibilmente soprannumerari), con obbligo di formazione per i primi tre anni, al termine del cui periodo – in caso di svolgimento di lavoro qualificato valutabile (estero o altre p.a.) – saranno immessi nel ruolo unico della dirigenza sulla base della valutazione da parte della Commissione. Non si comprende la ragione per cui vincitori di una prova selettiva complessa e qualificata come quella del corso-concorso siano poi chiamati a svolgere per tre anni compiti di funzionario e non a creare ed affinare competenze e sensibilità dirigenziali; e ciò soprattutto se si considera, come vedremo, che ben altra sorte tocca ai vincitori del concorso.
In questo caso, punti delicati da affrontare (oltre a quelli appena indicati tra parentesi) sono il livello di autonomia della Commissione che non sembra poter essere configurato come mero adempimento successivo alla valutazione dell’amministrazione, né che possa essere ristretto al solo ambito della verifica dell’utilizzo dei criteri di valutazione adottati dall’amministrazione. Il problema si pone in quanto, in base all’art. 11, co. 1, lett. b) una maggiore incisività della Commissione sulla valutazione delle amministrazioni sembrerebbe esserci solo per il conferimento o la revoca degli incarichi e non nella fase di reclutamento. A meno di non far rientrare questa ulteriore funzione di autonoma valutazione nell’ambito dei poteri transitati alle Commissioni dai Comitati dei garanti; nel qual caso, andrebbe individuato un soggetto analogo anche per i ruoli diversi da quelli dello Stato.
Pertanto, non si comprende la ratio per cui i vincitori del corso-concorso (procedura di reclutamento privilegiata dal legislatore) siano immessi in servizio come funzionari e solo a seguito dell’immissione in organico acquisiscano la qualifica dirigenziale, mentre i vincitori del concorso (procedura che nel sistema dovrebbe essere ancillare alla prima) sono immessi, seppure al termine di una formazione iniziale, in servizio direttamente con qualifica dirigenziale e con contratto a termine, con successiva assunzione a tempo indeterminato dopo un triennio di servizio (anch’esso riducibile nelle ipotesi già indicate) previo esame di conferma da parte di un organismo indipendente non meglio definito (e perché non la Commissione?). In questo secondo caso, l’inquadramento come funzionario giunge, eventualmente, in caso di mancato superamento dell’esame di conferma e a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro. All’interno di questa seconda procedura, l’inquadramento nel ruolo dei funzionari non può considerarsi un diritto del dirigente non confermato, sia perché il legislatore si preoccupa di chiarire che tale inserimento è solo eventuale, sia perché va chiarito quale sia il rapporto tra dirigente non confermato, organico della (o delle) amministrazione(i), mobilità dei funzionari in caso di esuberi, vincoli assunzionali e finanziari.
Ma anche qui va segnalata una lacuna normativa (sebbene limitata ai criteri di delega) per quanto riguarda i dirigenti/funzionari vincitori del corso-concorso, qualora non ottengano la conferma al termine del triennio: l’ipotesi può essere, nel silenzio della legge, che restino inquadrati nel ruolo dei funzionari (soprannumerari o in mobilità): ma non è chiaro se per assonanza con trattamento riservato ai loro colleghi vincitori del concorso, questa sia solo una eventualità o una conseguenza logica.
Va quindi disegnata la fattispecie di responsabilità che in questa ipotesi ricorra: infatti, non avendo qualifica dirigenziale, il mancato superamento della valutazione non può configurare una responsabilità dirigenziale e l’estinzione del rapporto di lavoro può essere richiamata solo con riferimento alle ipotesi di estinzione proprie del personale non dirigente.
Ma su questo punto, e in generale sulla responsabilità dirigenziale, i criteri enunciati alla lett. m) del co. 1 dell’art. 11 sono eccessivamente generici per ricavarne ipotesi normative in fieri.
2.2 Gli istituti del rapporto di lavoro
Va a questo punto e per completezza segnalata una difficoltà di coordinamento che potrà però senz’altro essere ricomposta in sede di normativa delegata. Infatti, anche in materia di responsabilità dirigenziale si trovano criteri di delega sia nell’art. 11 (co. 1, lett. m), sia nell’art. 17 (co. 1, lett. t) per decreti delegati che dovrebbero però essere emanati in due periodi diversi a distanza di sei mesi l’uno dall’altro.
A prescindere da questa sfasatura, ricomponibile nel riassorbire la materia della responsabilità dirigenziale nei soli decreti conseguenti ai criteri di cui all’art. 11, va segnalato l’obiettivo di conseguire una maggiore distinzione da un lato tra le diverse responsabilità riconducibili alla dirigenza (dirigenziale, amministrativo-contabile, disciplinare: soprattutto art. 11) e dall’altra tra indirizzo politico-amministrativo e attività di gestione (soprattutto art. 17). Dalle disposizioni richiamate si ricava che il riordino avverrà riconducendo la responsabilità dirigenziale a quella definita dall’art. 21 d.lgs. n. 165/2001 e collegando più strettamente responsabilità amministrativo-contabile e responsabilità gestionale, restando regolata la responsabilità disciplinare da parte dei contratti collettivi.
Se indubbiamente, l’opera di riordino contribuirà ad una maggiore chiarezza e semplificazione nella individuazione delle responsabilità, soprattutto dopo che a partire dal d.lgs. n. 150/2009 la legislazione ha disseminato in diversi provvedimenti la casistica di responsabilità del dirigente, va anche detto che senza una revisione del citato art. 21 d.lgs. n. 165/2001 non si perseguirà fino in fondo l’obiettivo dichiarato dai criteri di cui alla lett. t) del primo comma dell’art. 17 di rafforzare il principio di separazione tra indirizzo e gestione.
Va infatti ricordato che tra le ipotesi di responsabilità dirigenziale enunciate dall’art. 21 continua ad essere prevista quella di «inosservanza delle direttive». Soprattutto se la direttiva viene interpretata come vincolo e non come «orientamento della discrezionalità». In sede di legislazione delegata, andrebbe quindi chiarito in modo definitivo che il termine inosservanza non va interpretato in maniera tale da negare il «modello di direzione collaborativa» che la separazione di funzione presuppone, ma valutato in ragione della capacità dimostrata dal dirigente, nel caso in cui decidesse di discostarsene, di aver opportunamente tenuto in considerazione le ragioni dell’organizzazione cui è preposto e dei risultati da conseguire. In altri termini, si tratta di affermare che «inosservanza delle direttive» e «mancato raggiungimento degli obiettivi» non sono due fattispecie autosufficienti e autonome di responsabilità, ma sono tra loro collegate in una relazione funzionale della prima alla seconda locuzione; nel senso che la sanzionabilità dell’inosservanza delle direttive dipende anche, se non soprattutto, dai risultati negativi conseguiti.
Un aspetto delicato di raccordo tra delega ex art. 11 e delega ex art. 17 riguarda i meccanismi di valutazione che in buona parte coinvolge anche il contenuto del t.u. considerando che il modello vigente è previsto nella disciplina del d.lgs. n. 150/2009.Nel progetto normativo delineato dalla l. delega, l’art. 11 si occupa solo delle conseguenze della valutazione disponendo la rilevanza della valutazione ai fini del conferimento dei successivi incarichi, del percorso di carriera e del collocamento in disponibilità (lett. i, l), mentre l’art. 17 appronta criteri per la semplificazione, la razionalizzazione e l’integrazione dei sistemi di valutazione (di qui il richiamo necessario alle disposizioni del d.lgs. n. 150/2009), «anche al fine della migliore valutazione delle politiche». Quest’ultimo richiamo, insieme a quello immediatamente successivo dello «sviluppo di sistemi distinti per la misurazione dei risultati raggiunti dall’organizzazione e dei risultati raggiunti dai singoli dipendenti», segna di fatto il superamento del «modello Brunetta» nel quale la dimensione individuale (premiante o punitiva) della valutazione assorbiva quella organizzativa e dell’implementazione delle politiche.
Il sistema delle fonti potrebbe registrare una considerevole discontinuità anche con riferimento alla retribuzione, a maggior ragione se si considera che i criteri definiti dalla lett. n) del co. 1 dell’art. 11 riguardano non solo la retribuzione dirigenziale, ma anche quella dei lavoratori del comparto. È in questo caso evidente come la legge mini il ruolo della contrattazione collettiva come fonte privilegiata del trattamento economico e, per questa via, ampli ancora di più la forbice che divide il settore privato da quello pubblico.
In alcuni casi i criteri indicati sono del tutto condivisibili anche perché assistiti da un alto tasso di “buon senso” (come nella previsione per cui vanno rispettate le risorse disponibili); in altri casi, sono programmaticamente inevitabili, soprattutto nella prospettiva della mobilità tra ruoli (come nella previsione della omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio); in altri casi, infine, la linea di demarcazione, di per sé delicata, tra organizzazione e rapporto di lavoro sembra riassorbire la seconda nella prima intervenendo sulla stessa struttura della retribuzione (come nelle previsioni che riguardano il rapporto tra retribuzione fissa, di posizione e di risultato).
In quest’ultimo caso, infatti, la soluzione di definire criteri di delega per i decreti legislativi è una precisa presa di posizione a favore della legge, considerando che – in vista della riduzione drastica delle aree dirigenziali in attuazione dell’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 – lo strumento contrattuale poteva essere esso stesso strumento di omogeneizzazione e razionalizzazione e, per quello che qui interessa, i criteri di delega avrebbero potuto essere più opportunamente enunciati e sviluppati all’interno degli atti di indirizzo in base ai quali Aran e organizzazioni sindacali negoziano il contratto collettivo.
Analoghe considerazioni valgono per i criteri riguardanti la retribuzione del personale dei comparti con riferimento al trattamento economico e al potere organizzativo (e quindi valutativo, premiale e incentivante) del ruolo datoriale svolto dal dirigente.
Nelle pagine precedenti abbiamo segnalato punto per punto quali siano o possano essere i profili problematici della normativa emanata con la l. n. 124/2015; profili problematici che non possono che avere il carattere della parzialità e della provvisorietà, come sempre avviene quando non si commenta una disciplina in se del tutto autoapplicativa ma che rinvia buona parte del suo contenuto alla legislazione delegata.
Anche per rispettare il carattere di questa pubblicazione, non ci siamo soffermati su specifiche critiche di genericità di molti criteri che pure sono state sottolineate dalle audizioni tecniche che hanno accompagnato l’iter parlamentare della legge. Nel momento in cui il Parlamento ha completato il suo compito e il Governo inizia l’elaborazione delle nuove norme, è stato importante preservare e trasmettere la complessità e l’unicità del sistema generale che caratterizzerà la dirigenza pubblica.
Ma in sede di conclusione vanno ancora segnalate due criticità di sistema dalla cui soluzione dipende buona parte della innovatività proclamata dalla legge.
La prima attiene al rapporto tra normativa delegata specifica e il t.u. previsto dall’art. 16, co. 1, lett. a) che, nel tenore del suo dettato, non può che ricomprendere anche la figura dirigenziale, anche se il co. 3 rinvia ai soli criteri di delega contenuti dagli art. da 17 a 19, con esclusione quindi di quelli contenuti nell’art. 11 sulla dirigenza. Secondo i criteri individuati in questo articolo, si tratta di una semplificazione normativa perseguita attraverso testi unici sostanzialmente ricognitivi che armonizzino la disciplina vigente limitando l’intervento di manipolazione alle sole esigenze redazionali, di semplificazione e chiarezza e di risoluzione delle antinomie.
A sua volta, l’art. 17 che, come detto, pure contiene criteri che si riferiscono anche alla dirigenza, cogliendo una esigenza di contemporaneità nell’esercizio della delega, prevede che i decreti delegati sulla dirigenza (art. 11) e sul lavoro pubblico in genere (art. 17) possano essere emanati congiuntamente (ma in questo caso entro un anno) «secondo la procedura di cui all’art. 16».
Questa possibile procedura, comunque da preferirsi in sostituzione di un rischio di spezzatino normativo che, al di la delle intenzioni, provocherebbe difficoltà di raccordo, richiede però che siano definiti innanzitutto se a governare la struttura della nuova disciplina debba essere l’azione dichiaratamente ricognitiva svolta nella fase di semplificazione, oppure quella altrettanto dichiaratamente normativa ed innovativa svolta nella fase di implementazione dei principi e dei criteri di delega.
Si tratta di un profilo non solo teorico, come crediamo di aver evidenziato soprattutto in materia di valutazione, laddove la disciplina vigente, in più punti e soprattutto per impianto dei poteri datoriali dirigenziali, confligge con la previsione di una valutazione prevalentemente organizzativa orientata, anche a verificare i livelli e la qualità dei servizi.
La seconda criticità riguarda il rapporto tra legislazione di riforma e contrattazione collettiva, anch’essa segnalata soprattutto per evidenziare la continuità del trend della legislazione “nella crisi” a rilegificare molti istituti del rapporto di lavoro pubblico, anche dirigenziale e anche quando questi non siano strettamente attinenti all’organizzazione.
In questo ultimo paragrafo, vogliamo però evidenziare un profilo di struttura del rapporto tra legge e contratto relativo al rapporto tra ruoli e aree contrattuali dirigenziali.
Il co. 2 dell’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 prevede che, nella prossima e sembra imminente tornata contrattuale, per la prima volta dopo il blocco della contrattazione, tramite appositi accordi tra l’Aran e le Confederazioni rappresentative, «… sono definiti fino a un massimo di quattro comparti di contrattazione collettiva nazionale, cui corrispondono non più di quattro separate aree per la dirigenza» e che «una apposita sezione contrattuale di un’area dirigenziale riguarda la dirigenza del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, per gli effetti di cui all’articolo 15 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni».
L’attuale composizione delle aree dirigenziali, ricavabile dal CCNQ 1.2.2008 per il quadriennio 20062009 registra la seguente articolazione:
«Area I: dirigenti del comparto dei Ministeri, ivi compresi i dirigenti delle professionalità sanitarie del Ministero della Salute di cui all’art. 2 della Legge 120/2007. Area II: dirigenti del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali. Area III: dirigenti dei ruoli sanitario, professionale, tecnico, amministrativo del comparto del Servizio sanitario nazionale. Area IV: dirigenza medico-veterinaria, comprendente medici, veterinari ed odontoiatri del comparto del Servizio sanitario nazionale. Area V: dirigenti dei comparti Scuola e Istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica e musicale. Area VI: dirigenti dei comparti Agenzie fiscali e Enti pubblici non economici, ivi compresi i professionisti del comparto Enti pubblici non economici, collocati in apposita separata sezione ai sensi dell’art. 40, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001.Area VII: dirigenti dei comparti Università e Istituzioni ed enti di ricerca e sperimentazione. Area VIII: dirigenti del comparto della Presidenza del Consiglio dei Ministri».
Secondo questa disciplina la contrattazione collettiva disciplina comparti e aree con il solo limite del numero massimo, ma senza ulteriori vincoli di contenuto o struttura.
Si comprende quindi quale sia il delicato rapporto tra ruoli e struttura della contrattazione, nel momento in cui la l. n. 124/2015 già adotta una configurazione di amministrazioni assimilabili cui fa corrispondere i diversi ruoli individuati e le deroghe (dirigenza scolastica, dirigenza medica).
Prefigurando una prevalenza del ruolo sull’area, e quindi della legge sulla contrattazione, che finirebbe per influenzare anche la composizione dei comparti, si giungerebbe alla seguente corrispondenza:
• Ruolo unico dei dirigenti dello Stato: Area I, Area VI, Area VII, Area VIII;
• Ruolo unico dei dirigenti delle regioni: Area II (solo dirigenti regionali), Area III;
• Ruolo unico dei dirigenti degli enti locali: Area II (tranne dirigenti regionali), Segretari comunali e provinciali di fascia A e B e, dopo due anni, anche come funzionari, di quelli di fascia C.
In questa ipotesi resterebbero con disciplina autonoma i dirigenti scolastici (Area V) e la dirigenza medica del Servizio sanitario nazionale (Area IV); quest’ultima in base all’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 dovrebbe far parte di una sezione contrattuale di una area dirigenziale. Non essendo possibile fare una simulazione inversa, visto che i nuovi comparti e le nuove aree non sono ancora stati definiti dalla contrattazione collettiva, si evidenzia comunque come si determinerebbe comunque una asimmetricità tra norme di inquadramento (con quanto ne consegue in termini di istituti normativi e retributivi, come visto nei paragrafi precedenti) e norme di gestione del rapporto di lavoro e si conferma quindi la delicatezza dell’individuazione di una linea di demarcazione chiara tra norme sull’organizzazione e norme sul lavoro.
In conclusione, nell’esaminare la nuova disciplina sulla dirigenza e proiettandola anche nella prospettiva del t.u. sul rapporto di lavoro, si riaffaccia l’attualità della distinzione tra macro e microorganizzazione (e natura giuridica delle relative fonti) che, pur se riaffermata in tutte le leggi di riforma successive al d.lgs. n. 165/2001, è di fatto messa in discussione proprio dai processi di rilegificazione segnalati.
In questo senso, se consideriamo anche le clausole di rafforzamento del principio di inderogabilità e imperatività che oramai costellano molti provvedimenti legislativi, seppur afferenti il rapporto di lavoro, va detto che la funzione delle fonti pubblicistiche oramai travalica sia quella di garantire la riserva di legge per valori costituzionali, sia quella di garanzia dei principi di organizzazione e diventa sempre meno individuabile il confine con la gestione dell’organizzazione e delle risorse umane: un profilo problematico che riguarda l’insieme del lavoro pubblico dei comparti, ma anche dopo le anticipazioni normative di questa l. delega riguarda anche status, funzioni e poteri del dirigente pubblico.
1 Il contributo della dottrina sul tema in oggetto non ha naturalmente ancora assunto la forma della riflessione sistematica. Ciò nonostante è possibile cogliere spunti di riflessione nei testi delle audizioni più recenti svolte nel corso dei lavori sul d.d.l. C. 3098 e consultabili nel sito della Camera dei Deputati alla scheda del suddetto disegno di legge. In particolare si rinvia alle audizioni del 30.5.2015 e del 3.6.2015 che hanno visto la presenza di Gianfranco D’Alessio, ordinario di diritto amministrativo presso l’Università di Roma Tre, Alessandro Hinna, associato di organizzazione aziendale presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, Maria Alessandra Sandulli, ordinaria di diritto amministrativo presso l’Università degli studi di “Roma Tre”, Sandro Amorosino, ordinario di diritto dell’economia presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Agostino Meale, ordinario di diritto amministrativo presso l’Università degli studi di Bari, Pierluigi Portaluri, ordinario di diritto amministrativo presso l’Università del Salento, Antonio Viscomi, ordinario di diritto del lavoro presso l’Università “Magna Græcia” di Catanzaro, Lorenzo Zoppoli, ordinario di diritto del lavoro presso l’Università “Federico II” di Napoli.
2 Russo, C., La dirigenza pubblica, in Il libro dell’anno del diritto 2015, Roma, 2015, 390.