Minoranze, diritti delle
La nozione di minoranza evoca, con immediatezza logica e semantica, la situazione in cui, all'interno di un contesto unitario, si realizza una relazione fra diverse entità collettive, le quali vengono identificate secondo un criterio d'ordine quantitativo (una maggioranza e una o più minoranze). La nozione stessa - che, definita nella sua generalità e astrattezza, non esprime di per sé che una mera condizione esistenziale, suscettibile di una semplice ricognizione descrittiva - acquista tuttavia rilievo giuridico nel momento in cui quella relazione si presenta come la premessa, ovvero come il risultato, di una prescrizione dell'ordinamento normativo il quale delimita altresì il contesto unitario di riferimento.I modi e i contenuti della disciplina normativa della relazione maggioranza-minoranza costituiscono dunque il fondamento di diritto (in senso oggettivo) in base al quale, eventualmente, le minoranze stesse divengono giuridicamente riconoscibili e risultano altresì individuabili i rispettivi diritti (in senso soggettivo), nonché, come la storia ha insegnato e insegna, le situazioni di svantaggio. Norme di diritto oggettivo delle minoranze - inteso come l'insieme delle prescrizioni che le riguardano - e diritti delle minoranze - comprensivi delle situazioni giuridiche di vantaggio - si rinvengono sia nel diritto internazionale che nel diritto interno, i quali, peraltro, interagiscono tra loro secondo una dinamica in cui il primo determina taluni parametri minimi di trattamento che il secondo è obbligato a garantire; al diritto interno rimane comunque la facoltà di determinare propri parametri più elevati i quali a loro volta potranno eventualmente innalzare quelli prescritti dal diritto internazionale.
Come è noto, la questione dei diritti delle minoranze può essere affrontata in termini giusnaturalistici, ossia sostenendo che tali diritti hanno un fondamento metagiuridico. In questa voce, tuttavia, si adotterà un approccio di tipo diverso, basato prevalentemente sulla comparazione dei dati normativi esistenti in materia. Tale approccio presenta infatti un duplice vantaggio: da un lato agevola l'individuazione dei modelli giuridici già realizzati, dall'altro consente di delineare un quadro realistico e attendibile, grazie al quale si può distinguere rigorosamente tra il profilo della rivendicazione politico-ideologica pura e quello del riferimento a tipologie normative esistenti (distinzione tanto più opportuna se si considera che, nell'attuale fase storica, la tematica dei diritti delle minoranze contribuisce in misura apprezzabile alle dinamiche politiche potenzialmente eversive del tradizionale e vigente ordine pubblico interno e internazionale, imperniato sulla sovranità esclusiva dello Stato nazionale; modello, quest'ultimo, la cui perdurante vitalità, nonostante le critiche radicali, viene paradossalmente ribadita, ancorché su base micronazionale, e riproposta sino ad avviarne un processo di proliferazione).
In una prospettiva del tutto aperta e astratta la tipologia delle minoranze è indeterminabile e infinita, non potendosi stabilire una volta per tutte quei caratteri in base ai quali, nello spazio e nel tempo, un gruppo umano assuma consapevolezza di una propria identità distintiva minoritaria, la quale lo induca poi a rivendicare a proprio vantaggio un riconoscimento e una tutela di tipo giuridico. Da ciò deriva che il concetto di minoranza, dal punto di vista giuridico, può emergere (e di fatto emerge) in una pluralità di accezioni e di corrispondenti contesti; e tuttavia, in base all'esperienza storica e alla comparazione dei dati del diritto positivo, esso è suscettibile di un qualche tentativo di ricostruzione essenziale.
In prima approssimazione il diritto conosce una serie di differenti minoranze: anzitutto, le minoranze nazionali, etniche e linguistiche, le quali possono essere ulteriormente distinte in base a criteri quali il carattere autoctono o meno (come si verifica attraverso il fenomeno dell'immigrazione), la delimitazione circoscritta o dispersa dell'insediamento territoriale, la presenza o meno di uno Stato nazionale di riferimento; in secondo luogo, le minoranze religiose, che suscitano un distinto ordine di problemi concernente la qualificazione dell'atteggiamento dello Stato rispetto al fenomeno religioso; in terzo luogo, le minoranze politiche e ideologiche, le quali presentano evidenti collegamenti storici e sistematici con l'intera tematica della qualificazione della forma di Stato e di governo; infine, le minoranze assembleari con riguardo alla struttura e al funzionamento di organi collegiali elettivi, di natura sia pubblica che privata. È evidente, inoltre, che nella realtà possono essere rintracciate anche situazioni nelle quali si combinano più identità minoritarie (ad esempio l'esigua rappresentanza parlamentare di un partito politico espressivo di una minoranza etnica e a un tempo religiosa).Va da sé che l'uso convenzionale del termine 'minoranza', per quanto tale qualificazione del gruppo sociale rechi con sé un segno inconfondibile di inferiorità numerica, non implica alcun giudizio di valore di tipo dispregiativo. Occorre nondimeno precisare che la definizione generale e generica che ne abbiamo dato (e che comunque manterremo per la presente analisi), incentrata sullo schema della relazione maggioranza-minoranza, risente in modo palese dei limiti della prospettiva normativa unitaria tipica dello Stato legislatore, il quale opera, normalmente, secondo un'ottica maggioritaria. Ma se si adotta una diversa prospettiva, lato sensu culturale, e si capovolge l'ottica precedente, in modo da guardare al fenomeno dal punto di vista della posizione minoritaria, l'enfasi sull'aspetto relazionale viene meno (può anzi costituire l'oggetto primario di contestazione allorquando la maggioranza sia di tipo dominante) ed emerge piuttosto la vocazione di una minoranza (una confessione religiosa, un gruppo etnico, una comunità indigena, ecc.) a costituire di per sé un'unità sociale o culturale, con propri connotati in positivo, anziché rassegnarsi a essere, in senso riduttivo, una parte minoritaria.In tutti i casi - e a maggior ragione sulla scorta della precisazione da ultimo offerta - il tema delle minoranze è materia in primo luogo di accertamento quale fenomeno della realtà sociale, e, successivamente, di qualificazione giuridica.
A quest'ultimo fine, non è evidentemente indifferente la caratterizzazione ideologica dell'ordinamento dello Stato e pertanto la sua predisposizione a riflettere la pluralità degli interessi presenti nella società (fra i quali, appunto, quelli minoritari), a riconoscerne in ampia misura la legittimità e a disciplinare altresì i conflitti che ne conseguono.In via preliminare, può osservarsi che tale caratterizzazione ideologica ha trovato la sua realizzazione giuridicamente e istituzionalmente più stabile nella forma di Stato ispirata al modello del costituzionalismo liberaldemocratico classico: dunque, in tanto può trattarsi propriamente di diritti delle minoranze (almeno nei termini di diritti soggettivi degli individui che vi appartengano), in quanto ci si collochi all'interno di quel modello.
Occorre tuttavia avvertire che in più Stati, appartenenti, peraltro, a quella matrice culturale (soprattutto l'Europa occidentale e gli Stati Uniti d'America), può essere colta una comune tendenza a privilegiare la tutela delle minoranze religiose rispetto a quella delle minoranze politiche, e quest'ultima rispetto a quella delle minoranze nazionali, etniche e linguistiche, secondo un evidente rapporto di funzionalità alle prospettive di costruzione e di difesa dello Stato nazionale. Questa successione di intensità garantista corrisponde del resto alla successione storica con la quale il diritto costituzionale ha via via disciplinato, se non risolto, i conflitti che le contingenti vicende politiche gli ponevano.
Ciascun ordinamento positivo ha dunque maturato soluzioni diversificate al problema generale delle minoranze, in rapporto alla realtà del fenomeno quale gli si è via via storicamente imposta: si tratta perciò di soluzioni animate dalla necessità di governare la complessità della realtà sociopolitica più che ispirate allo sviluppo coerente e lineare di postulati ideologici. Questi ultimi, al contrario, hanno piuttosto operato, in concreto e per lungo tempo, contro il riconoscimento e la tutela delle distinte identità e posizioni minoritarie: si pensi, ad esempio, al principio dell'unità della nazione e dell'unicità della lingua nazionale, o al regime della 'religione di Stato', oppure alle esigenze della sicurezza nazionale rispetto all'azione delle opposizioni politiche. Di conseguenza, l'individuazione di un modello liberaldemocratico tipico di tutela delle minoranze, che si presenta fortemente e intimamente intrecciata con la storia politica e costituzionale dei singoli Stati, richiede un'opera di comparazione giuridica estremamente attenta e selettiva.
Un'ulteriore avvertenza è tuttavia necessaria, al fine di correggere parzialmente quanto sostenuto sinora, ossia la maggiore idoneità dello Stato liberale a predisporre un'adeguata e uniforme protezione delle proprie minoranze. È bene osservare, infatti, che allorquando la tutela delle minoranze venga estesa sino a ricomprendere la realizzazione di un regime di eguaglianza sostanziale, la disciplina normativa si articola anche mutuando taluni strumenti di intervento promozionale tipici dello Stato sociale, che sono finalizzati, ad esempio, a introdurre specifiche norme di favore, derogatorie della disciplina generale (retta invece dal principio di eguaglianza formale) e ispirate allo schema dell'azione positiva.
L'azione positiva viene adottata allorché si riscontra, in taluni settori della società, una situazione di debolezza strutturale in virtù della quale anche gruppi sociali numericamente maggioritari, come è il caso delle donne, subiscono atteggiamenti sociali o culturali di discriminazione negativa. In tal caso le misure di discriminazione favorevole, analoghe a quelle talora introdotte a beneficio delle minoranze in senso proprio, svolgono una funzione promozionale, volta a compensare la precedente situazione normativa, la cui apparente 'indifferenza' rischiava di assecondare le discriminazioni esistenti sul piano sociale e culturale.
Esistono altre situazioni analoghe che evidenziano la capacità del diritto di incidere con la propria volontà prescrittiva sino a modificare i dati della realtà naturale. Ci riferiamo a quei contesti unitari nei quali si realizza una coesistenza di più gruppi che, pur essendo numericamente differenziati, assurgono a posizione giuridica del tutto equiordinata: è il caso degli Stati bi(multi)nazionali e bi(multi)linguistici - come il Belgio, ma soprattutto come la Svizzera e il Canada, dove più marcata è la diversità dei rapporti numerici di fatto - nei quali l'articolazione della società in una pluralità di gruppi (ipotizzabili come tutti minoritari) e l'assenza di una maggioranza omogenea e di tipo dominante trovano una formalizzazione nell'assetto istituzionale dello Stato (federale anche su base etnico-nazionale e linguistica). Sulla medesima linea di pluralismo equiordinato, almeno sotto il profilo linguistico - e pur tenendo conto delle peculiarità della sua configurazione istituzionale -, si pone anche l'Unione Europea.
I rilievi introduttivi sin qui svolti consentono di mettere in evidenza come il tema della tutela dei diritti delle minoranze corrisponda fondamentalmente alla manifestazione di una concezione pluralistica della società e dell'ordinamento che ne costituisce la struttura normativa. Ogni concezione pluralistica - sia di tipo teorico esplicativo sia di tipo normativo - si presenta come antagonista di due diverse rappresentazioni della società e dell'ordine politico e giuridico: da un lato dell'individualismo, al quale viene imputata un'eccessiva atomizzazione del singolo e un'esaltazione dei diritti individuali non bilanciata da profili di solidarietà; dall'altro lato del collettivismo, del quale si critica la subordinazione strutturale e totalizzante del singolo a un indifferenziato interesse generale, che conduce soprattutto a una condizione di soggezione a doveri.
Il pluralismo propone invece una visione intermedia, nella quale l'individuo ha rilevanza anche e soprattutto in quanto partecipe di formazioni sociali "ove si svolge la sua personalità" (art. 2 della Costituzione italiana), quali la famiglia, la comunità religiosa, le associazioni di ogni genere (professionali, sindacali, partitiche, culturali, ecc.) e, nella fattispecie, le minoranze dei tipi sopra indicati. La direzione politica dello Stato pluralista richiede dunque essenzialmente un sostanziale equilibrio e un metodo negoziale e transattivo fra la pluralità di segmenti in cui si articola la società. L'ordinamento giuridico deve riflettere e garantire (in taluni casi addirittura prescrivere, ad esempio in tema di divieto di conversione religiosa cui consegue la perdita dei diritti civili e politici) tale ordine sociale fondamentale, incentrato sull'appartenenza stabile e permanente degli individui a comunità diverse da quella, inesistente in quanto unitaria, dello Stato.
All'interno di una visione pluralistica - a seconda dei periodi storici, delle condizioni sociali e culturali, dell'estrazione filosofica e ideologica - si possono in realtà porre accenti diversi sulle singole formazioni intermedie nelle quali si articola la vita sociale, nonché sulla loro capacità di determinare i processi di aggregazione e identificazione degli individui, istituendo un ordine di priorità che può spingersi sino a elevarne alcune a microsistemi strutturali destinati a connotare l'intero ordinamento: così può avvenire per le confessioni religiose (è il caso, storicamente combinato ad altri fattori ma divenuto emblematico, del fenomeno della cosiddetta 'libanizzazione'), per un sistema sociale rigido (come l'ordine cetuale dell'Europa medievale e d'ancien régime, ovvero la divisione in caste del diritto indù tradizionale), per i partiti politici (il moderno Parteienstaat legato allo sviluppo della democrazia di massa).
In una simile situazione il corpo sociale si presenta come una 'società di società', all'interno della quale le articolazioni sociali hanno un ruolo diretto di mediazione politica (realizzando ben noti assetti di tipo neocorporativo estesi a settori anche non economici) e in cui l'istituto della rappresentanza tende ad acquisire la forma giuridica del mandato imperativo piuttosto che quella della rappresentanza di interessi generali liberamente individuati. In tale prospettiva si affievolisce, evidentemente, anche dal punto di vista giuridico, la forza aggregante di alcuni concetti unificanti: fra questi è bene ricordare, anche in riferimento ai fini di questo articolo, quello di cittadinanza, concepita come condizione generale ed egualitaria, che assorbe ogni altro elemento di identificazione degli individui all'interno dello Stato (ad esempio la nazionalità, la religione, la lingua, il genere, la classe), e strutturata in modo da realizzare, attraverso il principio di eguaglianza formale e il conseguente divieto di discriminazione, la tutela dei diritti di libertà dei singoli in quanto tali, a prescindere da appartenenze diverse da quella allo Stato-comunità.
Fra le due concezioni qui prese in esame emerge dunque una irriducibile contraddizione: nella visione pluralista lo Stato è considerato come garante dell'esperienza delle comunità intermedie e dell'appartenenza a esse del singolo; nella visione individualista, invece, lo Stato è visto come garante dei diritti di libertà dei singoli anche nella ed eventualmente contro la formazione sociale di appartenenza. Dal punto di vista storico, come sempre succede, la realizzazione di tali modelli astratti, che qui sono stati presentati in una versione semplificata ed esasperata, è sempre parziale e variamente equilibrata. In linea di massima, si può comunque affermare che negli ordinamenti di derivazione liberale il modello generale e prevalente è quello riconducibile alla visione individualista - ad esempio con rigorosa coerenza in Francia e, in prevalenza, negli Stati Uniti - anche se significative e crescenti immissioni di istituti propri della visione pluralista si sono verificati in Austria, in Italia, in Spagna e, più in generale, nell'Europa centrale e orientale dopo il 1989 (nonché negli stessi Stati Uniti, in cui il concetto di color-blindness, ossia di neutralità razziale, della costituzione subisce un'applicazione giurisprudenziale discontinua).
Risulta chiaro come l'individuazione dei diritti dei gruppi minoritari e la ricostruzione dei rispettivi modelli normativi richiedano, in primo luogo, una più accurata specificazione della tipologia delle minoranze e, in secondo luogo, un riferimento ai lineamenti storici e ideologici posti a fondamento di quegli stessi modelli.Una prima, fondamentale distinzione va fatta dunque fra minoranze (meramente) esistenziali, rilevanti sul piano sociale, culturale, statistico, ecc. ma rispetto alle quali il diritto è indifferente, e minoranze riconosciute, ossia esistenti anche giuridicamente e per le quali il diritto fa discendere effetti che possono essere tanto di garanzia e protezione, quanto di discriminazione e repressione.
Non sempre, tuttavia, alla distinzione concettuale corrisponde, sul piano storico, una coincidente formalizzazione normativa: ad esempio, una politica di repressione di una minoranza religiosa o ideologica non ne implica necessariamente un previo riconoscimento giuridico (leggi razziali del tipo della legislazione antisemita nazifascista sono anzi un'aberrante eccezione, mentre relativamente più frequente è l'identificazione di singoli partiti 'antisistema' espressamente posti al di fuori della legittimità costituzionale); così come una politica di assimilazione culturale e linguistica di una minoranza nazionale normalmente si accompagna proprio all'assenza di qualsivoglia ammissione formale circa l'esistenza stessa della minoranza. Analogamente, al riconoscimento formale non sempre consegue un'adeguata e compiuta attuazione. Il profilo del riconoscimento rappresenta la base preliminare perché una minoranza esistenziale possa acquisire esistenza giuridicamente rilevante. È proprio in funzione dell'acquisizione del riconoscimento che può configurarsi una rivendicazione politica primaria elaborata in base ad argomenti di diritto naturale delle minoranze.
Le tecniche normative attraverso le quali il diritto riconosce l'esistenza di una minoranza sono varie. È quindi possibile delineare una tipologia di tali tecniche in base ai diversi criteri che le hanno guidate: abbiamo così il riconoscimento di tipo esplicito, che si produce quando la norma parla palesemente della minoranza, e il riconoscimento di tipo implicito (si tratta evidentemente di una scelta 'minimalista' che condiziona il regime di tutela) quando la norma si limita a prevedere un generale divieto di discriminazione per gli individui in ragione di parametri che rinviano alla loro appartenenza a formazioni sociali potenzialmente minoritarie (emblematico, al riguardo, l'art. 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: "Ciascuno è titolare di tutti i diritti e le libertà previsti in questa dichiarazione senza alcuna distinzione di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o d'altra natura, origine nazionale o sociale, proprietà, nascita o altra condizione personale").
Di tipo implicito è anche il riconoscimento delle minoranze politiche all'interno di istituzioni assembleari, che risulta ad esempio dall'attribuzione a minoranze parlamentari qualificate di determinate potestà che sarebbero altrimenti sottoposte alla regola della maggioranza (ad esempio, l'art. 138 della Costituzione italiana consente a un quinto dei membri di una Camera di attivare un referendum confermativo di una legge di revisione costituzionale che non abbia ottenuto il voto favorevole della maggioranza dei due terzi del Parlamento; l'art. 93 del Grundgesetz tedesco consente a un terzo dei membri del Bundestag di ricorrere in via diretta al Tribunale costituzionale federale per il controllo di una legge approvata dalla maggioranza parlamentare). Di tipo implicito è anche l'esclusione dalla legittimità costituzionale di quelle minoranze politiche organizzate in partiti "che tentano di pregiudicare o eliminare l'ordinamento fondamentale democratico e liberale o di minacciare l'esistenza della Repubblica Federale di Germania" (art. 21 GG), mentre esplicita è la dichiarazione italiana di illegalità della riorganizzazione del disciolto Partito fascista (XII disposizione transitoria e finale).In base al criterio dell'identificazione, si può anche distinguere tra riconoscimento generale, che avviene quando la norma prevede genericamente l'esistenza di minoranze (così la Costituzione spagnola del 1978, che all'art. 2 parla delle "nazionalità" che compongono la nazione spagnola, e la Costituzione italiana, che in riferimento alle minoranze religiose menziona, all'art. 8, le "confessioni religiose diverse dalla cattolica" e che prevede, all'art. 6, apposite norme di tutela per le proprie minoranze linguistiche), e riconoscimento specifico, che avviene quando la norma menziona esplicitamente la minoranza (così nei numerosi trattati del primo dopoguerra e nella vigente Costituzione slovena che, all'art. 5, menziona le minoranze autoctone italiana e ungherese). Il riconoscimento specifico ha però l'inconveniente di privare eventuali altre minoranze di un fondamento normativo esplicito per le proprie rivendicazioni di riconoscimento e tutela.
Se invece adottiamo un criterio teleologico, si può distinguere tra minoranza passiva, che resiste soltanto per forza di inerzia all'assimilazione e all'integrazione da parte di una maggioranza dominante, e minoranza militante, ossia quella minoranza che, pur essendo ancora allo stato meramente esistenziale, rivendica tuttavia, in conseguenza della consapevolezza della propria identità, il riconoscimento giuridico e la garanzia di taluni diritti.In proposito, si può prefigurare una dinamica variabile in funzione del tipo di minoranza e di maggioranza (dominante o meno), nonché del contesto specifico, che può avere a oggetto un fine minimo (quale la cessazione dell'eventuale condizione giuridica di svantaggio), un fine massimo (quale, per una minoranza nazionale, la realizzazione dell'autodeterminazione ovvero, per una minoranza politica, il raggiungimento della posizione maggioritaria o, per una minoranza assembleare, l'acquisizione della disponibilità di strumenti procedurali sottratti al controllo maggioritario) e infine una serie varia e articolata di fini intermedi (per una minoranza religiosa, ad esempio, il conseguimento della qualificazione delle proprie festività quale giorno di riposo per i propri aderenti). Il concetto di minoranza militante si applica evidentemente anche a una minoranza già riconosciuta ma determinata a realizzare, ovvero a espandere, gli spazi di tutela giuridicamente previsti.
Altra distinzione è quella fra minoranza coatta o involontaria, che si realizza quando è la maggioranza a imporre un regime formale di discriminazione o anche solo di svantaggio - dalla schiavitù legale a un assetto di separazione (nota è la formula del separate but equal con la quale una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti - Plessy vs. Ferguson, 1896 - avallò la legislazione sulla segregazione razziale; la stessa politica di apartheid dell'Unione Sudafricana era fondata su di una teoria di 'sviluppo separato' dei distinti gruppi etnici) -, e minoranza volontaria, liberamente e prioritariamente determinata all'autoconservazione delle proprie peculiarità distintive e contraria pertanto a una politica della maggioranza (o addirittura a ogni prassi) indirizzata all'integrazione e all'assimilazione del gruppo minoritario.
Secondo un criterio di mobilità di (dis)aggregazione conviene inoltre configurare una nozione di minoranza permanente, lato sensu sociologica (o culturale o ideale), e una di minoranza occasionale (o mobile) ma non per questo disinteressata a godere di riconoscimento e tutela.Per minoranza permanente è da intendersi un gruppo umano caratterizzato, in rapporto a uno o più altri gruppi all'interno di un medesimo spazio di riferimento (territoriale, comunitario, ideale, ecc.), da fattori di identità oggettivi (di ordine sociale, nazionale, religioso, ideologico, linguistico, di età o di genere) e soggettivi (la consapevolezza collettiva di sé, il leale senso di appartenenza dei propri membri e la manifestazione di volontà di autopreservazione) che ne fanno un'entità tendenzialmente permanente, unitaria, omogenea, consapevole e sottoposta a processi di disidentificazione ed evoluzione lenti e comunque in prevalenza naturali e spontanei.
Al contrario, una minoranza del secondo tipo presenta, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, un ben più alto grado di propensione alla trasformazione ideale e alla modifica della propria composizione, il che implica un basso coefficiente di lealtà e identificazione dei propri aderenti: si tratta pertanto di una figura che si rinviene più agevolmente nelle minoranze politiche all'interno di sistemi caratterizzati da consolidati processi di secolarizzazione e modernizzazione, e nelle minoranze assembleari, nel contesto di forme di governo connotate da maggiore flessibilità e mobilità di aggregazione. Occorre osservare che la diversa stabilità e omogeneità dei due tipi corrisponde a fattori causali di varia natura, mentre il maggior radicamento delle identità nazionali, linguistiche e religiose rispetto a quelle ideologiche e partitiche è oggetto di agevole osservazione empirica.
Da quest'ultimo punto di vista, il modello politico e istituzionale della democrazia consociativa - che privilegia la proporzionalità degli strumenti di rappresentanza, la corresponsabilizzazione nella direzione politica dei più significativi, compatti e stabili gruppi sociali riuniti in coalizione e il principio del rispettivo consenso a soluzioni di mediazione come metodo di governo - si presta a radicarsi preferibilmente nel contesto di una pluralità di minoranze permanenti; mentre il modello della democrazia competitiva o conflittuale - fondato sulla rappresentanza maggioritaria e sull'alternanza dei gruppi nei ruoli di governo e opposizione sulla base del giudizio critico e circostanziale degli elettori - richiede maggioranze e minoranze occasionali e mobili.
Un ulteriore ordine di considerazioni concerne la distinzione fra minoranze corporative e minoranze diffuse.
Con la prima definizione ci riferiamo principalmente al riconoscimento in capo alla minoranza organizzata della soggettività giuridica, cui si collegano, tendenzialmente, sia la pretesa di agire in nome e per conto di tutti gli appartenenti alla minoranza - sulla cui adesione, pertanto, ancorché su base volontaria, si rivendica un potere di controllo e disciplina, sì che ne deriva un carattere di preferenza chiuso del tipo in parola - sia la titolarità dei diritti corrispondenti precipuamente a un interesse collettivo. Con la seconda definizione ci riferiamo invece a una minoranza giuridicamente non organizzata in termini unitari, del tutto destrutturata e quindi libera quanto all'appartenenza, i cui aderenti non divengono soggetti ad alcun ordinamento di tipo particolare e sono in grado di esercitare a titolo interamente individuale i diritti che sono ricollegati alla condizione minoritaria, la quale funge pertanto da mero presupposto di fatto per il loro godimento: è all'interno di questo quadro che si manifesta nella sua piena evidenza il meccanismo protettivo imperniato sul principio di non discriminazione, ma anche lo schema dell'azione positiva fondato, ad esempio, sull'introduzione di quote riservate ad appartenenti a talune minoranze, appunto, diffuse.Il tipo delle minoranze corporative è meno frequente negli ordinamenti di derivazione liberale, nei quali vige il diverso regime fondato sulla libertà di associazione e di rappresentanza, anche se una forma di realizzazione può essere individuata nella configurazione giuridica di quelle confessioni religiose che, attraverso concordati (per la Chiesa cattolica) e intese, sono abilitate a esprimere il consenso e quindi a negoziare con lo Stato la legislazione che le riguarda (come previsto dagli artt. 7 e 8 della Costituzione italiana). Può essere individuata, altresì, quanto alle minoranze assembleari, nell'organizzazione dei gruppi parlamentari, nella disponibilità di strumenti procedurali ad attivazione minoritaria e nell'eventuale adozione di metodi di voto ponderato in proporzione alla consistenza del gruppo.
Con riguardo a tali gruppi, ma in congiunzione altresì con la presenza di minoranze nazionali, etniche e linguistiche, un'attuazione parziale e tendenziale del modello si presenta allorquando (in Belgio o negli organi consiliari del Trentino-Alto Adige/Südtirol) si prevedono gruppi parlamentari o consiliari di tipo linguistico e si attribuiscono loro, quali soggetti unitari ancorché operanti al loro interno secondo criteri maggioritari, talune potestà incidenti sul procedimento normativo, ovvero sull'approvazione del bilancio; oppure quando si prevedono rappresentanze istituzionali garantite per determinate minoranze nazionali o linguistiche (i ladini nel contesto regionale e provinciale di Bolzano/Bozen, le principali minoranze linguistiche italiane nelle elezioni per il Parlamento europeo, le minoranze nazionali autoctone in Croazia e Slovenia per le elezioni parlamentari ovvero in Ungheria per le elezioni comunali) in deroga correttiva del risultato spontaneo delle elezioni; o ancora quando i diritti elettorali vengono esercitati all'interno di quote prestabilite in base alla consistenza dei gruppi nazionali e linguistici (come avveniva nell'Impero multinazionale absburgico).
Indirettamente la classificazione delle minoranze corporative funge altresì da modello di potenziale riferimento in quelle situazioni nelle quali l'autonomia politica all'interno di uno Stato federale o regionale viene a coincidere con uno strumento di autogoverno territoriale (come in Catalogna, in Galizia e nel Paese Basco) ispirato anche dalla volontà di riconoscimento e tutela di una minoranza autoctona (solo in misura parziale, tuttavia, in quanto è comunque la dimensione del territorio e non quella personale a prevalere, ciò che comporta che tutti gli abitanti di quello spazio, anche non appartenenti alla minoranza, si trovino a goderne in pari grado).
Occorre peraltro avvertire che, per quanto riguarda la figura delle minoranze corporative, è bene tenere distinto il rilievo giuridico dal rilievo sostanziale - che dipende evidentemente da fattori extragiuridici - nonché dalla vocazione strutturale degli enti rappresentativi delle minoranze sul piano di fatto (si pensi a un partito organizzato su basi religiose o nazionali, etniche e linguistiche) a operare altresì come loro rappresentanti giuridici unitari ed esclusivi.
Non mancano tuttavia attuazioni positive del modello delle minoranze corporative. L'attuazione più recente e significativa, come sintomo di un assetto innovativo potenzialmente destinato a circolare almeno nell'area dell'Europa centrale e orientale (anche attraverso una sua eventuale ricezione in atti di diritto internazionale particolare fra Stati confinanti che presentano in misura notevole un fenomeno di nazionalità incrociata dei rispettivi cittadini), può essere rinvenuta nell'ordinamento ungherese, il quale, recuperando idee già elaborate durante l'esperienza absburgica e in alcuni Stati sorti nel primo dopoguerra (Estonia e Lituania), ha provveduto a istituire nel 1993 un sistema di comunità minoritarie dotate di soggettività di diritto pubblico. Attraverso queste ultime lo Stato, sul presupposto di un diritto all'identità nazionale e linguistica di natura tanto individuale quanto collettiva, conferisce riconoscimento alle proprie minoranze nazionali autoctone (definite dalla Costituzione, all'art. 68, "fattori costitutivi dello Stato").
Un'altra interessante esemplificazione della personificazione giuridica delle minoranze può essere rintracciata in un particolare ordinamento dell'Impero ottomano che riguardava l'ambito religioso, ma all'interno di un contesto in cui il campo d'applicazione del diritto religioso, addirittura in sostituzione di quello dello Stato, era tanto ampio da ricomprendere interi settori del diritto civile europeo. Tale ordinamento, definito millet - il quale, peraltro, può essere rinvenuto, anche se in forma parziale, nel moderno Stato di Israele -, consisteva nella devoluzione a comunità non territoriali della disciplina e della risoluzione giurisdizionale di materie riguardanti lo status personale dei cittadini (matrimonio, divorzio, adozione e filiazione, successione, ecc.), i quali, di conseguenza, risultavano titolari di diritti e di doveri di origine religiosa a base personale, che potevano esercitare e ai quali erano soggetti in ogni parte del territorio dello Stato.
Soluzioni analoghe si rinvengono all'interno di sistemi extraeuropei (ma di cultura giuspubblicistica europea, come gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia), ad esempio per quanto riguarda la condizione giuridica delle nazioni indiane e degli Aborigeni, rispetto ai quali l'elaborazione della dottrina e gli interventi giurisprudenziali innovativi (quali la decisione del caso Mabo resa dalla High Court australiana nel 1992) tendono ad applicare modelli forti di protezione delle minoranze, fondati essenzialmente sulla titolarità collettiva di una pluralità di diritti di natura spesso consuetudinaria, che vengono riconosciuti e garantiti anche dai vigenti ordinamenti giuridici.Vale la pena di sottolineare che spesso proprio le esperienze scaturite dalle occupazioni coloniali hanno dato origine a fenomeni di pluralismo giuridico, ossia alla coesistenza, sul medesimo territorio ma con destinatari personali differenziati, di sistemi normativi eterogenei anche nei loro formanti principali, sistemi che hanno dato luogo, benché indirettamente, a forme di riconoscimento e tutela di comunità minoritarie.
L'uso giuridico dello specifico termine 'minoranze', e ancor più la formazione del corrispondente concetto (quale ormai è di impiego corrente anche nel linguaggio scientifico pluridisciplinare), sono relativamente recenti nella storia del diritto. In estrema sintesi, nell'antichità la distinzione fondamentale era infatti quella che s'incentrava sui concetti di uomo libero, cittadino e straniero, con i rispettivi regimi di status giuridico.
Quanto all'età medievale, la stessa idea di 'minoranze', che è inversamente proporzionale al tasso di uniformità presupposto (prima ancora che imposto) dall'ordine giuridico, appariva o del tutto estranea alla logica di fondo del sistema sociale - il quale era dotato di una propria lingua franca e strutturato come comunità di credenti al cui interno si realizzava integralmente, insieme alla salvezza spirituale, anche la vita giuridica (da cui anche lo status di incapacità giuridica degli estranei a quella comunità, come gli Ebrei) - oppure del tutto superflua rispetto allo stabile inserimento degli individui in micrordinamenti a base civile e territoriale che già esprimevano il marcato pluralismo giuridico tipico di quell'epoca.È soltanto nella seconda metà del XVI secolo che si manifestano, sotto forma di misure volte a tutelare la libertà religiosa, i primi atti normativi (fra i quali l'editto di Nantes del 1598) che individuano segmenti diversificati della popolazione quali destinatari di norme di garanzia che consentono pratiche di fede minoritaria (cattolica o protestante) in territori caratterizzati dalla prevalenza di una sola religione. Atti interni e soprattutto trattati internazionali in materia sono molto numerosi in tutta Europa - nonché, a garanzia dei cristiani, nell'Impero ottomano - anche dopo il trattato di Westfalia, che pure aveva invano tentato di consolidare il contrapposto principio del cuius regio eius religio, di per sé radicalmente incompatibile con qualsivoglia riconoscimento di una sfera di libertà religiosa collettiva.
L'ordine medievale soccombe poi definitivamente sia a causa dell'influenza filosofica del giusnaturalismo - che, ricondotto idealmente l'individuo a uno stato di natura, lo fa divenire astratto e uniforme soggetto di diritto, sottraendolo in tal modo, almeno nominalmente, al primato delle microrealtà comunitarie espressive della frantumazione giuridica (che pure le monarchie centralizzatrici avevano inteso superare) - sia, e in modo radicale, a causa della Rivoluzione francese e dei suoi imperativi ideologici: dal principio dell'eguaglianza di diritto al primato del legislatore politico e della legge generale e astratta sulle norme consuetudinarie e sul potere regio di dispensa, sino al concetto di sovranità nazionale, con tutto quel che ne consegue sul piano dell'uniformizzazione (ancora una volta, a questo proposito, lo status giuridico degli Ebrei diviene emblematico, giacché essi acquisiscono l'emancipazione civile, ma vengono contestualmente esposti al rischio dell'assimilazione culturale, connaturata all'eguaglianza formale).
Con la liberalizzazione dello status civile, sociale e politico dei cittadini, con la limitazione delle potestà pubbliche sottoposte a controllo giurisdizionale, con la separazione dei poteri e infine con la legittimazione del dissenso prima e dell'opposizione poi, il nuovo ordine rivoluzionario crea dunque le premesse che condurranno, pur attraverso percorsi storici, tradizioni giuridiche e modelli istituzionali differenziati (negli Stati Uniti d'America, nel Regno Unito e nell'Europa continentale), a un assetto comune omogeneo. Tale assetto non solo mantiene e anzi rafforza la tutela delle minoranze religiose (attraverso l'avvio dei processi di modernizzazione e l'acquisizione del carattere laico dello Stato, almeno sotto il profilo dell'indifferenza dell'appartenenza religiosa ai fini della pienezza della cittadinanza civile e politica), ma sviluppa altresì la garanzia delle minoranze politiche (con l'eccezione, almeno implicitamente prevista in ogni costituzione, di quelle volte a un sovvertimento dei fondamenti della forma di Stato).
Occorre peraltro osservare come nei continenti extraeuropei le popolazioni autoctone sottoposte a conquista militare e poi all'assetto di governo coloniale non furono investite dei segni benefici della nuova era, né sotto il profilo religioso né sotto quello politico.È in questa fase, comunque, che si inaugura un nuovo corso ideologico e giuridico anche per quanto attiene alla configurazione delle minoranze nazionali, etniche e linguistiche: com'è noto, la Rivoluzione francese proseguì, in patria e in ogni angolo d'Europa dove si estese la sua influenza, l'opera di costruzione dello Stato unitario portata avanti dalle monarchie centralizzatrici e assolute, anche se ciò avvenne su nuove basi di legittimazione. Tale processo da un lato esigeva l'eliminazione di tutte le formazioni intermedie (a cominciare dall'ordine cetuale e dall'autogoverno territoriale, con la soppressione dei regimi giuridici municipali differenziati) e dall'altro enfatizzava la dimensione nazionale quale centro unico ed esclusivo di riferimento della lealtà dei cittadini (chiamati, attraverso la nuova organizzazione militare della 'nazione in armi', alla coscrizione obbligatoria e quindi anche al supremo sacrificio della vita; ricordiamo, simbolicamente, la formula del giuramento civico della Costituzione francese del 1791: "Giuro fedeltà alla nazione, alla legge e al re").
Lo Stato nazionale si conferma e anzi diviene oggetto di teorizzazione (è la nazione il fondamento della sovranità e pertanto anche della legittimazione del potere del monarca costituzionale) e di prescrizione ("Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione", proclama l'art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789). Il principio di nazionalità - a ogni nazione il suo Stato - e in seguito il principio di autodeterminazione dei popoli assumono un ruolo cruciale (anche in seguito alla realizzazione dell'unificazione nazionale italiana e tedesca, nonché alla formazione dei nuovi Stati sovrani risultanti dal crollo dei grandi Imperi multinazionali austro-ungarico e russo) nel novero dei principali criteri ordinatori che ispirano il nuovo ordine pubblico europeo (e, di riflesso, extraeuropeo).
È durante tutto il secolo XIX che viene a maturazione la centralità del concetto di nazione (sono del 1896 la pubblicazione a Vienna di Der Judenstaat di Theodor Herzl e la nascita del sionismo quale nazionalismo ebraico volto alla ricostituzione di un proprio Stato moderno), concetto il quale, per quanto a tutt'oggi altamente indeterminato dal punto di vista giuridico (e vago altresì in altri contesti scientifici), per un verso porta all'affermazione dell'ideologia del nazionalismo (anche nelle sue versioni più esasperate e intolleranti) e, per l'altro, contribuisce a gettare le premesse per il profilarsi dell'altro concetto a esso specularmente correlato, quello di minoranza nazionale.Sin dal Congresso di Vienna del 1815 (si trattava, in particolare, dei Polacchi che popolavano i territori trasferiti sotto la sovranità austriaca, prussiana e russa) e poi con il Congresso di Berlino del 1878 (con il quale si condizionava alla protezione delle minoranze interne il riconoscimento dei nuovi Stati di Bulgaria, Montenegro, Serbia e Romania) si cominciò, infatti, in alcuni atti di diritto internazionale, a destinare norme specifiche di riconoscimento e di garanzia per settori della popolazione individuati in base a propri caratteri di identità nazionale distinti da quelli della maggioranza.
Non è dunque un caso, qualora il primo conflitto mondiale venga considerato il coronamento del principio di nazionalità, se proprio negli anni immediatamente successivi appare e si consolida rapidamente l'uso giuridico del termine 'minoranze'. Esso compare infatti in oltre una ventina di trattati e dichiarazioni unilaterali concernenti le minoranze nazionali (la cui applicazione fu sottoposta alla Società delle Nazioni con esiti generalmente valutati come inefficaci), tutti circoscritti, occorre precisare, all'area dell'Europa centro-orientale e balcanica (i cui nuovi Stati in fondo non facevano che riprodurre parzialmente al proprio interno quel pluralismo che era stato del precedente assetto multinazionale), con l'esclusione, pertanto, dell'area occidentale in cui il consolidamento nazionale era ritenuto (e comunque si voleva ritenere) acquisito.
Anche nei continenti extraeuropei, benché con ritmi differenziati - nell'America Latina sin dal XIX secolo e in Asia e in Africa in prevalenza dopo il secondo conflitto mondiale -, si segue il medesimo modello di organizzazione istituzionale, fondato sullo Stato espressivo di un corpo sociale reso unitario e uniforme attraverso il concetto di nazione. Se, in origine, sembrava essere la nazione a richiedere lo Stato, si è arrivati allo Stato che esige la propria nazione, anche in quei contesti nei quali il più sicuro fattore di aggregazione nazionale è rappresentato da nient'altro che dalla pregressa comune soggezione a una potenza coloniale (della quale i nuovi Stati adottano addirittura la lingua come idioma ufficiale).
Il riferimento alle vicende extraeuropee è utile per comprendere come nel secondo dopoguerra l'attenzione della comunità internazionale espressa dall'Organizzazione delle Nazioni Unite si sposti incisivamente dai diritti delle minoranze ai diritti dell'uomo, in base all'assunzione che un'effettiva garanzia di questi ultimi determini, per ciò stesso, un'adeguata tutela dei primi.
In realtà, questo atteggiamento risente tanto dell'esigenza di garantire l'esito non traumatico della decolonizzazione - e cioè di assicurare la coincidenza dei confini dei nuovi Stati postcoloniali con quelli precedenti, evitando così che il principio di autodeterminazione dei popoli applicato alle minoranze (le quali infatti, in base all'interpretazione prevalente del diritto internazionale, ne risultano escluse dalla titolarità) potesse generare una pluralità esasperata di micro-Stati - quanto delle difficoltà d'ordine concettuale, risalenti al periodo fra le due guerre mondiali, nel dare una congrua e unanimemente condivisa definizione di minoranza.
Il termine appare invece esplicitamente all'interno di alcuni ordinamenti europei. Ad esempio, nella Costituzione italiana del 1948 (art. 6), che adotta una qualificazione di minoranze linguistiche la quale, benché già indicativa del mutato atteggiamento rispetto al nazionalismo fascista, sembra tuttavia idonea a circoscrivere la tutela accordata ai soli profili culturali (benché nei confronti di alcune specifiche minoranze si agisca contestualmente anche con riguardo alla sfera dell'autonomia territoriale); oppure, nella legislazione ordinaria di alcuni dei Paesi Scandinavi e dell'Europa settentrionale, precipuamente ai fini della disciplina dei diritti culturali e linguistici delle minoranze; infine, e soprattutto, nelle più recenti Costituzioni degli Stati dell'Europa centrale e orientale, alle quali si deve, a partire dal 1989, un'immissione massiccia di norme, concetti e istituti in materia di minoranze, cui non sempre è tuttavia dato trovare riscontro sul piano dell'effettiva e immediata attuazione.
Si tratta di verificare se, nell'ultimo decennio del secolo, l'elaborazione di più sofisticati strumenti di diritto interno per la protezione delle minoranze, negli ordinamenti in cui più acuta è la conflittualità politica, avrà un esito e subirà eventualmente un perfezionamento tecnico e qualitativo anche sul piano del diritto internazionale, almeno in ambito regionale europeo. Probabilmente ciò avverrà, anche per la perdurante riluttanza degli Stati dell'Europa occidentale, solo qualora tali strumenti, e i concetti che implicano, si rivelassero decisivi per la protezione della sicurezza collettiva continentale.
Esiste in realtà una percettibile dinamica in tal senso: testimoniano della sua esistenza documenti quali l'Atto finale di Helsinki (1975), ma soprattutto, a partire dal 1989, una serie di dichiarazioni nell'ambito della OSCE (già Conferenza e dal 1995 Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), quale soprattutto la Carta di Parigi (1991) per una nuova Europa (in cui si fa riferimento alle minoranze nazionali, si riconosce il loro contributo alla ricchezza delle società europee e si manifesta l'intento di promuoverne le condizioni) e in particolare l'istituzione di un Alto commissario per le minoranze nazionali. Nell'ambito del Consiglio d'Europa è stata inoltre conclusa nel 1994 una convenzione-quadro per la protezione delle minoranze che attende peraltro di essere ratificata per entrare in vigore.
Al di là di tali sviluppi - e di ulteriori sviluppi potenziali - nel quadro europeo, predomina ancora, nel diritto internazionale planetario, l'accento sui diritti individuali dell'uomo, fatta eccezione per alcuni profili particolari: così, ad esempio, l'art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 prevede il diritto di persone appartenenti a minoranze etniche, religiose o linguistiche di esercitare "in comunione con gli altri membri del gruppo" i correlativi diritti culturali, religiosi e linguistici, senza peraltro identificare una precisa titolarità soggettiva e senza riuscire in fondo a creare un fondamento normativo per una tutela che vada molto al di là dell'applicazione del principio di non discriminazione, il quale rinvia ancora una volta alla concezione individualista dei diritti dell'uomo; la Convenzione sulla prevenzione e la punizione del reato di genocidio del 1948 è volta a garantire il diritto all'esistenza fisica di gruppi nazionali, etnici, razziali o religiosi (art. 2) ma non è applicabile a quello che è stato definito "genocidio culturale".
Manca, in altre parole, un quadro definitorio e normativo sufficientemente preciso, esaustivo e sanzionabile, che consenta di individuare un regime internazionale uniforme di riconoscimento e di protezione delle minoranze.La stessa conclusione vale altresì per altri atti normativi regionali, come la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli del 1981, nella quale i diritti collettivi, pur largamente menzionati, sono sistematicamente riferiti ai popoli, senza peraltro alcun intento di definizione, sì da far ritenere inesistente anche solo sul piano implicito il concetto di minoranza, con la consueta eccezione del principio di non discriminazione in base a fattori quali la razza, l'etnia, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l'opinione politica o di altra natura, l'origine nazionale o sociale, la proprietà, la nascita o qualsivoglia altra condizione (art. 2).
Oltre che di diritti collettivi - quale il diritto dei popoli all'eguaglianza, all'autodeterminazione esterna (sinonimo di indipendenza dalla dominazione coloniale) e interna (libertà di scelta del sistema politico ed economico) e alla libera disposizione delle ricchezze e risorse naturali -, la Carta africana contiene altresì una formalizzazione dei cosiddetti diritti umani della terza generazione (diritto allo sviluppo, alla pace, all'ambiente, alla sicurezza), i quali avrebbero a fondamento il valore della solidarietà (così come quelli delle due precedenti generazioni avrebbero rispettivamente la libertà e, per i diritti sociali, l'eguaglianza). A parte la natura ancora prevalentemente declaratoria di tali nuovi diritti, frutto più di elaborazione teorica che di un'effettiva giustiziabilità, rimane il fatto che la loro proclamazione rende ancora più vistosa l'assenza di un riconoscimento e di una tutela delle minoranze.
Un importante dato comune della disciplina di diritto interno e internazionale cui abbiamo fatto sin qui riferimento è da ravvisare nel generale presupposto della cittadinanza dello Stato ai fini della capacità giuridica di godimento di quei diritti riconosciuti ad appartenenti a minoranze. Il rilievo è significativo in quanto importa, pur accanto all'insopprimibile titolarità di quei diritti formulati come propri di ogni essere umano - confermando anche per questo verso l'essenzialità di una concezione individualista -, l'esclusione dal novero dei destinatari delle norme del diritto delle minoranze di categorie di individui quali gli stranieri, e pertanto gli immigrati, i rifugiati e gli apolidi, rispetto ai quali non casualmente viene proposta la formula connotativa di 'nuove minoranze'.
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