Diritti diffusi
di Giovanni Iudica
Diritti diffusi
sommario: 1. La nozione di interesse diffuso. 2. Gli interessi diffusi dinanzi al giudice amministrativo. 3. Gli interessi diffusi in materia ambientale dopo l'istituzione del Ministero dell'Ambiente. 4. Gli interessi diffusi in materia ambientale dinanzi al giudice ordinario. 5. Il diritto dei consumatori: a) osservazioni preliminari; b) protezione del consumatore e disciplina delle clausole vessatorie; c) i diritti dei consumatori e degli utenti. 6. L'affermazione di un tertium genus: i diritti sociali di tipo diffuso. 7. Rilievi conclusivi. □ Bibliografia.
1. La nozione di interesse diffuso
Tradizionalmente le posizioni di vantaggio riconosciute e tutelate dall'ordinamento giuridico italiano si distinguono in 'diritti soggettivi' e 'interessi legittimi'. Il diritto soggettivo si sostanzia nel riconoscimento e nella tutela di un interesse determinato, differenziato e qualificato in capo a un soggetto, sia esso persona fisica o giuridica. Ad esempio, chi compra un quadro acquista la titolarità del relativo diritto di proprietà; ha poi il diritto alla consegna del bene; correlativamente, l'alienante ha diritto al pagamento di una determinata controprestazione. Per tutte queste pretese l'ordinamento appresta una tutela che sul piano processuale si traduce nella possibilità di ottenere l'accertamento del diritto reale, la consegna del bene e il pagamento del prezzo pattuito. L'interesse legittimo esprime invece la tensione del privato verso un'utilità il cui effettivo conseguimento, secondo il nostro ordinamento, dipende dall'esercizio del potere amministrativo. Si pensi al classico caso della licenza edilizia concessa a un privato interessato alla costruzione di un edificio sul proprio terreno: la sua pretesa, in virtù della rilevanza che essa riveste nel quadro dell'attività di cura degli interessi pubblici alla quale è preposta la Pubblica Amministrazione, è soggetta alla mediazione del potere di quest'ultima. Questo caso appartiene a pieno titolo al novero delle situazioni soggettive riconosciute e tutelate dall'ordinamento, sia pure attraverso un sistema peculiare che riflette il diverso atteggiarsi della pretesa del soggetto in rapporto all'utilità perseguita: il giudice adito, accogliendo un eventuale ricorso del proprietario, annulla il provvedimento della Pubblica Amministrazione che, costituendo illegittima manifestazione del potere, frustra contra ius la posizione soggettiva del privato.
Sennonché, già dai primi anni settanta è apparso evidente che una simile rigida bipartizione delle situazioni suscettibili di tutela da parte dell'ordinamento rischiava di lasciare del tutto scoperti i cosiddetti 'interessi diffusi', ossia quegli interessi che, al di qua dell'orizzonte soggettivo della riferibilità a uno specifico centro di imputazione, secondo ormai classiche qualificazioni dottrinali, si caratterizzano per il loro essere "adespoti" (v. Alpa, 1993, p. 610; v. Ferrara, 1993, p. 490) e "senza struttura" (v. Berti, 1986, pp. 435 ss.), propri di una generalità indifferenziata di soggetti. Si pensi, in particolare, alle problematiche poste dalla tutela dell'ambiente, del consumatore e delle comunicazioni di massa: in ciascuno di questi ambiti non vi sono interessi attinenti a un bene suscettibile di apprensione e godimento individuale ed esclusivo (v. Denti, 1983, p. 307), come tipicamente accade nel caso dei diritti soggettivi e, sia pure attraverso la mediazione del potere amministrativo, dell'interesse legittimo. A ben vedere, non si tratta nemmeno di interessi collettivi in senso stretto. Secondo la tesi che appare preferibile, si definiscono interessi collettivi gli interessi degli appartenenti a un'organizzazione di tipo essenzialmente corporativo (ibid.). L'esempio forse più chiaro è dato dalle associazioni dei lavoratori: una pluralità di soggetti affida a un ente collettivo la cura degli interessi che accomunano tutta la categoria e che in sostanza sono generalmente connessi alla titolarità di preesistenti posizioni giuridiche individuali, nella fattispecie i singoli rapporti di lavoro. L'associazione rappresenta allora il punto di coagulo degli interessi degli associati e ne diventa, per così dire, il legittimo centro di imputazione, al punto che al singolo ne è sottratta la disponibilità, la quale diviene a tutti gli effetti propria dell'ente esponenziale (v. Ferrara, 1993, p. 487). La situazione giuridica fatta valere dall'ente è in definitiva di tipo soggettivo, di modo che non vi sono problemi a ricondurne la qualificazione nel solco della tradizionale impronta individualistica del sistema italiano di tutela delle posizioni di vantaggio.
Gli interessi di tipo diffuso, invece, esprimono una tensione super-individuale a un bene a fruizione collettiva (ibid., p. 490) che non presuppone necessariamente un collegamento con una posizione giuridica o con un rapporto preesistente (v. Denti, 1983, pp. 306-307). Si pensi all'ambiente: soltanto l'essere persona basta a rendere partecipe il singolo dell'interesse alla conservazione e al godimento dei beni ambientali. Nel caso del consumatore o dell'utente di servizi pubblici, per contro, il fatto che il singolo sia titolare di rapporti in atto va tenuto distinto dall'interesse super-individuale che appartiene in via originaria alla generalità dei consumatori e degli utenti 'potenziali' (ibid., p. 307). Inoltre, l'interesse diffuso resta generale anche quando le forme della sua tutela si modellano su quelle che storicamente sono nate per l'interesse collettivo: ossia anche quando, come si vedrà, la sua giustiziabilità presuppone la sua emersione e la sua giuridicizzazione a opera di un ente esponenziale. In tal caso, il problema degli iscritti all'associazione non ha rilevanza - come invece accade per gli enti esponenziali di interessi collettivi - al fine di delimitare soggettivamente gli effetti dell'azione dell'ente (operazione impossibile proprio in forza della natura dell'interesse), ma unicamente in funzione dell'apprezzamento dell'effettiva rappresentatività degli interessi protetti.
In sostanza, le collettività di riferimento degli interessi collettivi possono definirsi chiuse e i loro membri sono identificati dall'appartenenza a una categoria che persegue interessi suoi propri; gli interessi diffusi, invece, attengono a collettività per definizione aperte che, non presupponendo il riferimento a una categoria corporativa bensì al modo di essere della persona nel mondo di oggi (v. Alpa, 2002, p. VII, con specifico riguardo ai consumatori), tendono per loro natura a estendersi, al limite sino ad abbracciare la generalità dei cittadini. Va dunque respinta la tesi dottrinale che svaluta la distinzione sistematica tra interessi collettivi e interessi diffusi (v. Trocker, 1989, p. 2), perché essa sembra precludere una ricostruzione della figura compiuta e adeguata alla complessità assunta dal fenomeno negli ultimi anni (in proposito, v. Alpa, 1993, p. 616).
Gli ordinamenti di matrice anglosassone da tempo contemplano efficaci strumenti che permettono di tutelare posizioni comuni a più soggetti: attraverso il meccanismo delle cosiddette class actions chiunque può infatti agire in giudizio ottenendo ampia protezione, sia sul piano inibitorio che su quello risarcitorio; opportuni accorgimenti processuali fanno sì che tutti gli individui appartenenti alla class possano poi beneficiare dell'azione da altri intrapresa. Le cosiddette citizen suits garantiscono invece la protezione di interessi diffusi come quello ambientale, attraverso azioni esercitate direttamente da singoli o da associazioni di protezione ambientale (v. Giracca, 2001, p. 421, e la bibliografia ivi citata).
Per contro, nei sistemi di tradizione giuridica continentale, legati a una concezione fortemente individualistica delle posizioni giuridiche rilevanti, non si sono affermati rimedi di questo tipo. Con specifico riferimento all'ordinamento italiano, va rilevato che i casi in cui il quivis de populo può agire in giudizio a tutela di interessi diffusi sono rari e decisamente desueti (v. Giracca, 2001, p. 421; v. Mastrodonato, 2001, pp. 403 ss.) e quindi può ben dirsi che il modello dell'azione popolare abbia avuto poca fortuna e un rilievo sinora assolutamente modesto (le cose potrebbero forse cambiare in forza di recenti innovazioni legislative; v. sotto, cap. 3).
La necessità di dare una risposta alle crescenti e diverse istanze di tutela di interessi super-individuali - che la dottrina ha messo acutamente in relazione con le esigenze moderne e dinamiche delle società a capitalismo avanzato o maturo (v. Denti, 1983, p. 313; v. Ferrara, 1993, p. 483) - ha fatto emergere gli interessi diffusi sul piano giurisprudenziale, con particolare riferimento alla tematica ambientale. Importanti e diversificati interventi del legislatore succedutisi nel tempo ne hanno poi riconosciuto il pieno diritto di cittadinanza nell'ordinamento, al punto che, sia pure con una certa cautela, appare ormai possibile prospettare la tesi che essi abbiano oggi il rango di veri e propri 'diritti' sociali.
2. Gli interessi diffusi dinanzi al giudice amministrativo
L'ambito nel quale si è dapprima manifestata la problematica degli interessi diffusi è quello ambientale. Già a partire dagli anni settanta, associazioni che si proponevano lo scopo di tutelare l'ambiente cominciarono - in assenza di adeguati spazi di partecipazione all'azione amministrativa - a impugnare quei provvedimenti amministrativi che direttamente o indirettamente erano suscettibili di recare danno all'ambiente. Il giudice amministrativo si trovò così di fronte a domande di tutela giudiziale di posizioni difficilmente inquadrabili nell'ambito della tradizionale bipartizione delle situazioni attive giuridicamente rilevanti. È stato acutamente osservato che la storia dell'interesse diffuso si configura come "la cronistoria dei tentativi di elaborazione di tecniche processuali per apprestare una difesa e garantirne la azionabilità", a fronte dell'impostazione rigidamente individualistica degli schemi processuali (v. Alpa, 1993, p. 611; v. Romano, 1976, p. 289) e della grave e protratta inerzia del legislatore. In sostanza, davanti al giudice amministrativo la tutela degli interessi diffusi non poteva che passare attraverso l'individuazione di una situazione soggettiva assimilabile all'interesse legittimo (v. Scoca, 1976, p. 57), poiché solo a tale figura sostanziale poteva essere accordata una tutela nel processo amministrativo. Il privato cittadino può far valere in giudizio la pretesa all'annullamento di un provvedimento che a suo parere è in contrasto con il bene collettivo 'ambiente' se e solo se l'atto di esercizio del potere amministrativo coinvolga direttamente e in concreto il suo godimento di beni determinati: solo così il predetto interesse di fatto può tradursi in una posizione di vantaggio giuridicamente rilevante e distinta dall'interesse generale. I soggetti collettivi, invece, possono agire in giudizio a tutela di un interesse diffuso soltanto a condizione che essi possano dirsi portatori di una posizione differenziata rispetto alla generalità dei singoli fruitori del bene collettivo. In altre parole, si deve trattare di un ente esponenziale degli interessi in questione, i quali, in sua assenza, sarebbero privi di un legittimo portatore.
Due sono i criteri tradizionalmente utilizzati dalla giurisprudenza e dalla dottrina al fine di giuridicizzare, e dunque riconoscere, la pretesa di formazioni sociali in ordine alla tutela di un interesse diffuso. Vale la pena di sottolineare che entrambi presuppongono che il soggetto collettivo sia dotato di una certa struttura in grado di garantire la stabilità dell'organizzazione e la continuità e serietà dell'attività esercitata nel perseguimento dello scopo: per queste ragioni (oltre che per la sostanziale mancanza di forme di azione popolare nel nostro ordinamento) l'orientamento giurisprudenziale tuttora prevalente non concede legittimazione a semplici comitati di cittadini, costituiti al fine di impugnare l'atto lesivo (cfr., ad esempio, Consiglio di Stato, 31 gennaio 2001, n. 358), e il giudice propende spesso per l'apprezzamento della legittimazione dei ricorrenti uti singuli, sulla base della verifica della sussistenza delle condizioni che, sia pure in estrema sintesi, si sono sopra accennate.
Il primo criterio, seguito dalla celebre giurisprudenza relativa all'associazione Italia Nostra (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 19 ottobre 1979, n. 24), fa leva sulla cosiddetta vicinitas, cioè sulla localizzazione del soggetto, che si assume portatore dell'interesse super-individuale, nel territorio su cui incide il provvedimento amministrativo (v. Ferrara, 1993, p. 492). Secondo questo criterio, ad esempio, l'associazione ambientale radicata in una zona nella quale dovrebbe essere costruito un inceneritore per lo smaltimento dei rifiuti sarebbe legittimata a impugnare la decisione con la quale l'amministrazione competente ha stabilito la collocazione dell'impianto. In dottrina questa soluzione è stata criticata come troppo rigorosa, in quanto una sua puntigliosa applicazione condurrebbe a non dare legittimazione ad associazioni che, pur avendo i requisiti della serietà, stabilità e consistenza organizzativa, non risultino avere precisi collegamenti con l'ambiente tutelato; in particolare, si è osservato che, seguendo questa impostazione, nessun ente potrebbe agire per la protezione ambientale di un'isola deserta (v. Denti, 1983, p. 309). Si può aggiungere che anche tale criterio tradisce chiaramente la necessità dell'interprete di ricostruire l'interesse diffuso, sia pure in chiave di tutela, alla stregua dell'interesse legittimo: la vicinitas, in questa prospettiva, è l'elemento che dimostra l'attualità e la concretezza della pretesa dell'ente, quasi la misura stessa del pregiudizio da esso sofferto.
Il secondo criterio adottato dalla giurisprudenza per schiudere la tutela giudiziale alle associazioni portatrici di interessi diffusi è rappresentato dalla partecipazione al procedimento amministrativo: se l'ente per legge è stato ammesso a parteciparvi, allora andrebbe ammessa anche la sua legittimazione a impugnarne l'epilogo provvedimentale. Appartiene a questo filone la decisione con la quale fu ritenuto ammissibile il ricorso del WWF (World Wildlife Fund) avverso un provvedimento lesivo del bene protetto (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, decisione n. 407/1980). Anche qui è abbastanza chiaro come il tentativo di legittimare la formazione sociale all'azione di impugnazione sfoci, in ultima analisi, nel riconoscimento in capo a quest'ultima di un preciso interesse legittimo derivante dal dato della partecipazione.
In realtà si è rilevato come i due criteri siano stati spesso applicati congiuntamente dalla giurisprudenza, al punto, talora, da non apparire concretamente alternativi: in questi casi la partecipazione ha rilevanza in vista della successiva legittimazione processuale in quanto essa stessa sia attuata da formazioni sociali operanti sul territorio, essendo allora espressione del rapporto di stretta contiguità con il bene tutelato (v. Ferrara, 1993, p. 493; v. Nardelli, 1999, p. 602).
La prima stagione della vicenda giurisprudenziale degli interessi diffusi - le cui articolazioni non è possibile in questa sede considerare analiticamente (in proposito, v. Alpa, 1993; v. Ferrara, 1993) - indica nell'individuazione di un ente esponenziale dotato di adeguata rappresentatività la via da percorrere per giungere all'affermazione della rilevanza giudiziale di istanze costitutivamente super-individuali. Di fatto, ciò ha determinato una tendenziale riproduzione delle forme di tutela proprie degli interessi collettivi. In tal modo, "uno stato psicosociale di tensione tra un bisogno e un bene ripetuto tendenzialmente all'infinito sì da riguardare vaste masse per definizione indifferenziate di soggetti" (v. Nigro, 1987, p. 7) viene ricondotto al modello dell'interesse legittimo, che rappresenta il paradigma di riferimento fondamentale per comprendere l'atteggiarsi dell'interesse collettivo nel processo amministrativo. Questo concorre a spiegare perché la giurisprudenza non sempre abbia operato chiare distinzioni tra interesse collettivo, interesse diffuso e interesse legittimo (v. Alpa, 1993, p. 613).
3. Gli interessi diffusi in materia ambientale dopo l'istituzione del Ministero dell'Ambiente
La sostanziale e grave solitudine della giurisprudenza alle prese con la delicata questione degli interessi diffusi è stata parzialmente lenita dal legislatore con la l. 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell'Ambiente. L'art. 18, comma 1°, dispone che "qualunque fatto doloso o colposo che cagiona danno all'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato". Allo Stato e agli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo compete, anche in sede penale, la relativa azione risarcitoria (comma 3°). Il legislatore del 1986 ha dunque negato il diritto al risarcimento del danno ambientale tanto ai singoli privati - che possono agire, secondo le regole generali, solo ove sia leso un loro diritto soggettivo - quanto alle associazioni ambientaliste, il cui ruolo è delineato dall'art. 18, comma 5°, della legge in questione. Questa disposizione concede alle formazioni sociali che abbiano ottenuto il riconoscimento ministeriale (disciplinato dall'art. 13 della medesima legge) dello status di associazioni di protezione ambientale di intervenire nei giudizi per danno ambientale (v. sotto, cap. 4), di denunziare fatti lesivi dell'ambiente (a ciò peraltro è legittimato qualunque cittadino) e soprattutto di impugnare dinanzi al giudice amministrativo provvedimenti amministrativi illegittimi. Come si vede, la l. 349/1986 recepisce il modello di tutela degli interessi diffusi fondato sull'individuazione dell'ente esponenziale, dettando al contempo rigorose condizioni per il riconoscimento della legittimazione delle associazioni ambientali, all'evidente scopo di circoscrivere in merito il potere del giudice, altrimenti unico arbitro della qualificazione degli interessi e della selezione dei loro portatori (v. Ferrara, 1993, p. 500). Il riconoscimento ministeriale è infatti subordinato al carattere nazionale dell'associazione, alla sua presenza in almeno cinque regioni e alla sussistenza di altri requisiti attinenti allo scopo perseguito, all'ordinamento interno e all'attività svolta. Questa scelta del legislatore, vivacemente criticata da parte della dottrina, appare il frutto della volontà di dare una veste istituzionale alle associazioni esponenziali (v. Nigro, 1987, p. 7) e di evitare che una proliferazione incontrollata delle legittimazioni mini l'impronta individualistica del processo amministrativo. Oggi una tale impostazione, come è stato rilevato, appare anacronistica, a fronte della tendenza alla devoluzione di sempre maggiori attribuzioni alle Regioni: coerente con tale processo di ammodernamento istituzionale sarebbe allora la valorizzazione della dimensione regionale delle formazioni sociali portatrici di interessi diffusi (v. Mastrodonato, 2001, p. 394).
Le vicende giurisprudenziali successive all'adozione della l. 349/1986 riflettono il drammatico contrasto tra la natura dinamica e magmatica degli interessi diffusi - molteplici e di volta in volta fatti propri da formazioni sociali diverse - e le briglie legali che ne condizionano profondamente la tutela, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo.
Sotto il primo profilo, la questione fondamentale che si è posta è se un'associazione non riconosciuta ai sensi del citato art. 13 possa essere ammessa in giudizio per far valere l'illegittimità degli atti amministrativi ritenuti lesivi dell'ambiente, previo apprezzamento da parte del giudice della sua qualità effettivamente esponenziale. Secondo un orientamento giurisprudenziale favorevole ad ampliare i confini della legittimazione delle istanze sociali portatrici di interessi diffusi, la legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente avrebbe in realtà semplicemente creato un ulteriore criterio di legittimazione, che si sarebbe aggiunto - e non già sostituito - a quelli elaborati in precedenza dalla giurisprudenza.
Questa interpretazione apre evidentemente la porta del processo a enti che - pur non essendo in possesso di tutti i requisiti di legge e comunque sprovvisti del riconoscimento ministeriale - abbiano tuttavia la capacità di perseguire i propri obiettivi con continuità e serietà di azione e congruità di mezzi. Al filone in esame si può ricondurre la recente decisione con la quale il giudice amministrativo ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato da Legambiente Umbria avverso una concessione edilizia che autorizzava la costruzione di edifici in un'area agricola compresa in un parco (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 26 luglio 2001, n. 4123). Analogamente, è stata ritenuta sussistente la legittimazione del Codacons (Coordinamento delle Associazioni per la Difesa dell'Ambiente e dei Diritti degli Utenti e dei Consumatori), formazione sociale non riconosciuta dal Ministero al momento del giudizio, a impugnare provvedimenti incidenti sull'ambiente, nel presupposto della sua rilevanza esterna e della continuità nell'attività di protezione ambientale svolta (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 7 febbraio 1996, n. 182).
La tesi tuttora prevalente, però, è di segno restrittivo. La legittimazione del Codacons è stata negata, sulla base dell'assenza del riconoscimento ministeriale, dal TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) Lazio, sez. I, 20 gennaio 1995, n. 62; successivamente si è peraltro giunti alla dichiarazione giudiziale dell'illegittimità del diniego di riconoscimento opposto dal ministro (cfr. TAR Lazio, sez. II, 7 aprile 1995, n. 667). Appartengono a questo secondo orientamento la sentenza con la quale è stata esclusa la legittimazione del Codacons Marche - articolazione regionale dell'omonima associazione nazionale e, in quanto tale, non suscettibile di conseguire il riconoscimento ministeriale difettando de plano del requisito della presenza in almeno cinque regioni (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 11 luglio 2001, n. 3878) - e le decisioni sfavorevoli al Movimento Federativo Democratico (MFD) Regione Umbria (cfr. TAR Umbria, 19 agosto 1996, n. 304, e cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 22 marzo 2001, n. 1683).
Le pronunce da ultimo richiamate si segnalano per aver escluso la rilevanza della partecipazione al procedimento amministrativo come elemento che legittimi l'eventuale impugnazione, in sede processuale, del provvedimento finale adottato dall'Amministrazione stessa. L'idea di fondo di questo orientamento restrittivo, al momento prevalente (v. Nardelli, 1999, p. 604), è che l'introduzione, a opera dell'art. 9 della legge 7 agosto 1990, n. 241, di una generale facoltà di intervento nel procedimento amministrativo in capo "ai portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento" non conduce all'automatico riconoscimento della legittimazione processuale a tutti i soggetti che in concreto abbiano partecipato al procedimento amministrativo medesimo (per una decisione di segno contrario, ascrivibile all'indirizzo giurisprudenziale estensivo di cui si è detto, cfr. TAR Veneto, sez. I, 16 dicembre 1998, n. 1414).
La tendenza a ritenere escluse dal processo le associazioni prive di riconoscimento ministeriale, se, da un lato, appare coerente con lo stato del diritto positivo, dall'altro non sembra rispecchiare adeguatamente le diffuse e articolate attese di tutela degli interessi super-individuali, che oggi sembrano penetrate a fondo nella coscienza collettiva. Del resto, la giurisprudenza ha più volte ammesso lo standing di associazioni di protezione dei consumatori, ricorrenti a tutela di interessi diffusi (diversi da quelli ambientali) contro provvedimenti in materia di tariffe e di servizi: ad esempio, è stata riconosciuta la legittimazione del Codacons a impugnare i provvedimenti di aumento del canone radiotelevisivo, in quanto lesivi degli interessi di consumatori e utenti statutariamente tutelati dall'associazione, che è dotata di una congrua consistenza organizzativa e associativa, oltre che ampiamente diffusa sul territorio nazionale (cfr. TAR Lazio, sez. II, 29 maggio 1997, n. 1053). Lo sforzo teso a superare un'impostazione rigidamente formale appare pregevole, tenendo conto però del fatto che anche un approccio di tipo sostanziale - nell'identificazione dei parametri di individuazione dell'effettiva esponenzialità dei portatori di interessi diffusi - difficilmente potrebbe ignorare il rigore che informa il regime dettato dal legislatore del 1986 (vale forse la pena di segnalare in questa sede che un progetto di riforma volto all'attenuazione del rigore delle condizioni poste da questa ormai risalente disciplina non ha avuto buon esito; in merito, v. Mastrodonato, 2001, p. 396).
Tornando ai problemi posti dalla legge 349/1986, è opportuno dare conto di un profilo particolare della sua applicazione, in relazione, questa volta, all'ambito oggettivo della protezione processuale accordata agli interessi diffusi emergenti. Negli ultimi anni è andato infatti consolidandosi un orientamento giurisprudenziale che tende a disconoscere la legittimazione di associazioni esponenziali - pur riconosciute - allorché si tratti dell'impugnazione di provvedimenti amministrativi non direttamente incidenti sull'ambiente, ma aventi preminente rilievo urbanistico. Ciò perché - si sostiene - le associazioni in questione avrebbero una legittimazione processuale di natura eccezionale e di stretta interpretazione, a tutela di un interesse ambientale rilevante in base a una specifica disciplina normativa: pertanto, esse non potrebbero agire per la protezione giudiziale di un interesse non direttamente riconducibile alla nozione di ambiente in senso normativo, quale sarebbe un interesse di tipo prettamente urbanistico (cfr., ad esempio, TAR Marche, 20 luglio 1999, n. 917; cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 11 luglio 2001, n. 3878).
Questo rigoroso indirizzo interpretativo, contrario all'idea che ogni intervento urbanistico (e quindi ogni concessione edilizia) necessariamente incida sull'ambiente, conferma come non sia pensabile che la l. 349/1986 abbia introdotto una sorta di legittimazione istituzionale in assenza di una specifica attitudine lesiva del provvedimento (v. Nardelli, 1999, p. 599). Tuttavia, esso mostra anche i gravi limiti del vigente sistema positivo di tutela degli interessi diffusi in rapporto all'attuale complessità e molteplicità delle istanze sociali. In proposito - a prescindere dalla questione se davvero interessi prima facie rilevanti solo sul piano urbanistico non possano essere tutelati in via giudiziale dalle associazioni di protezione ambientale - va infatti osservato che spesso la materia urbanistica si intreccia con un ambito in cui è ormai diffusa e consolidata l'aspettativa sociale di tutela di un bene super-individuale di particolare importanza nel nostro paese: il patrimonio storico-artistico.
Lo stesso fermento sociale che aveva portato all'emersione giurisprudenziale dell'interesse diffuso alla protezione dell'ambiente, e quindi all'adozione della l. 349/1986, ha determinato il consolidamento di questa nuova species di interessi giuridici super-individuali. Ora, è evidente che, se si segue la rigorosa concezione dell'ambiente sostenuta dall'indirizzo poco sopra ricordato, non vi è spazio per una legittimazione, ai sensi della normativa del 1986, delle associazioni aventi uno scopo complessivo di tutela dell'ambiente, inteso unitariamente come habitat dell'uomo, composto a un tempo da beni naturalistici e da beni culturali.
Di questo avviso è stata la giurisprudenza che ha escluso l'ammissibilità di un ricorso presentato da Italia Nostra per l'annullamento di un provvedimento amministrativo sicuramente incidente su beni di valore culturale, nella fattispecie il piano di recupero di un'area urbana di riconosciuto valore archeologico, ritenendo preclusa all'ente la legittimazione processuale all'impugnazione di provvedimenti amministrativi quando essi incidano su interessi culturali e urbanistici in generale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28 febbraio 1992, n. 223; cfr. anche TAR Lombardia, sez. Brescia, 15 gennaio 1993, n. 8). Recentemente questo indirizzo è stato confermato in un caso analogo: la medesima associazione aveva infatti agito a tutela di beni assoggettati al vincolo previsto dalla l. 1089/1939 sulla protezione delle opere di interesse storico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 13 marzo 2001, n. 1382).
Ciò nondimeno, a una diversa conclusione si potrebbe forse pervenire sulla base di un'interpretazione estensiva - o per meglio dire evolutiva - del concetto di ambiente rilevante agli effetti della l. 349/1986: possibilità che sembra trovare validi argomenti nel variegato insieme di fonti normative riguardanti forme di tutela dei beni culturali e che riceve autorevoli consensi in dottrina (in merito, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, v. Benini, 1993).
L'alternativa potrebbe allora essere rappresentata dal riconoscimento giudiziale dello standing, mediante la valorizzazione del dato oggettivo del consolidamento dell'interesse diffuso alla conservazione e promozione dei beni culturali in capo agli enti esponenziali. In quest'ottica, congiuntamente alla verifica della loro effettiva rappresentatività, un rilievo decisivo potrebbe tornare ad avere la tesi del collegamento funzionale tra partecipazione procedimentale, ex art. 9, l. 241/1990, e legittimazione processuale (v. Benini, 1993, p. 106). La soluzione in esame, che riconosce la specificità dell'interesse diffuso all'integrità del patrimonio storico-artistico, sarebbe la più coraggiosa e la più rispondente alle sempre più esigenti attese di tutela super-individuale.
Per il momento non si può che prendere atto di una giurisprudenza amministrativa che, nell'ambito in questione, pare aver abdicato a quel ruolo dinamico che in tempi ormai lontani condusse, nell'inerzia del legislatore, alla fondazione stessa della nozione di interesse giuridico super-individuale. Anzi, si potrebbe forse sostenere che, una volta stimolato l'intervento del legislatore affinché questi finalmente dettasse una disciplina di tutela del primogenito degli interessi diffusi, la giurisprudenza amministrativa si sia poi appiattita su quest'ultima, senza prestare adeguata attenzione ad altre istanze emergenti (oltretutto contigue alla tematica ambientale). In quest'ottica, la l. 349/1986 di fatto avrebbe inteso sì schiudere la porta del processo agli interessi diffusi di tipo strettamente ambientale, ma anche, nella logica dell'ubi voluit dixit ubi noluit tacuit, sbarrarla a interessi diffusi di qualunque altro genere, ciò che appare smentito, ad esempio, dalla giurisprudenza sopra citata in tema di legittimazione delle associazioni dei consumatori a impugnare i provvedimenti di determinazione del canone radiotelevisivo.
Peraltro le tendenze restrittive della giurisprudenza amministrativa appaiono in contrasto con talune recenti scelte del legislatore, volte a rafforzare il ruolo delle associazioni ambientaliste e finanche del singolo cittadino, nella prospettiva della rivitalizzazione di forme di azione popolare (v. Mastrodonato, 2001, p. 401). Si allude all'art. 9, d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che, da un lato, conferisce a ciascun elettore la legittimazione a far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al Comune e alla Provincia, mentre, dall'altro, ammette che le associazioni di cui all'art. 13, l. 349/1986 possano far valere le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al Comune e alla Provincia, conseguenti a danno ambientale, prevedendo la liquidazione dell'eventuale risarcimento in favore dell'ente sostituito (sui problemi interpretativi posti da queste novità legislative, v. Giracca, 2001, pp. 394 ss.).
Come si vedrà meglio nel prosieguo della trattazione, l'evoluzione normativa e la rilettura, alla luce della mutata sensibilità sociale, di importanti disposizioni costituzionali inducono a ritenere che i tempi siano maturi per un'interpretazione sistematica in grado di superare il dilemma posto dall'ambiguità che inevitabilmente contraddistingue la singola iniziativa legale di riconoscimento. Intraprendere tale tentativo, si noti, non vuol dire affatto mostrare nostalgia per la celebre stagione dei 'pretori d'assalto': l'interprete del diritto, più che a una vera e propria supplenza che colmi le lacune dell'ordinamento, sembra ormai chiamato a impostare un'opera di spiegazione e di compiuta applicazione delle possibilità che si schiudono tra le pieghe del sistema. Per fare questo, è necessario prendere in considerazione alcune importanti esperienze di tutela degli interessi diffusi nell'ambito della giurisdizione ordinaria.
4. Gli interessi diffusi in materia ambientale dinanzi al giudice ordinario
Anche davanti al giudice ordinario, il problema della giustiziabilità di posizioni giuridiche super-individuali storicamente è emerso per questioni relative alla tutela dell'ambiente, secondo uno schema che, mutatis mutandis, in parte riproduce quello che si è visto all'opera in sede di giurisdizione amministrativa: come il sindacato di legittimità su manifestazioni di potere della Pubblica Amministrazione non poteva che essere subordinato all'individuazione di una posizione 'soggettiva' di interesse legittimo in capo al ricorrente, così la pretesa di far valere posizioni super-individuali in materia ambientale davanti al giudice ordinario dipendeva dal riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo in capo all'attore (v. Scoca, 1985, pp. 637 ss.).
Due celebri pronunce della Corte di Cassazione (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 9 marzo 1979, n. 1463, e 6 ottobre 1979, n. 5172), a fronte della difficoltà di invocare a fini di protezione ambientale gli strumenti civilistici, orientati alla tutela della proprietà (art. 944 del Codice civile), indicavano nell'ormai lontano 1979 la strada da percorrere. Chiamata infatti a pronunciarsi in sede di regolamento preventivo di giurisdizione nell'ambito di procedimenti cautelari intrapresi da privati contro situazioni di temuto degrado ambientale e di pericolo per la salute, la Cassazione sancì che nessun atto della Pubblica Amministrazione può comprimere il diritto alla salute del cittadino e che tale diritto è sempre tutelabile davanti agli organi della giurisdizione ordinaria, anche in sede preventiva e inibitoria.
L'interesse diffuso all'integrità dell'ambiente di per sé, in quanto "assorbito nell'interesse indifferenziato della collettività", resta privo di una rilevanza giuridica; tuttavia, nel momento in cui si intreccia con il diritto alla salute, esso si differenzia e si qualifica giuridicamente quale vero e proprio "diritto all'ambiente salubre", in forza dell'immediata precettività dell'art. 32 della Costituzione. Secondo un indirizzo recentemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità, il potere dell'Amministrazione di incidere su situazioni giuridiche soggettive relative al diritto alla salute deve conformarsi al dettato di questa fondamentale disposizione costituzionale; in mancanza, al giudice civile spetta il potere di assicurare la soddisfazione del diritto alla salute anche nei confronti della Pubblica Amministrazione, attraverso l'esercizio di penetranti poteri inibitori (cfr. Cassazione, 27 luglio 2000, n. 9893). Secondo un'altra ricostruzione, per contro, la giurisdizione del giudice ordinario nei confronti degli atti e delle condotte lesive del diritto alla salute sussisterebbe in forza della carenza di potere in capo all'amministrazione responsabile (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, 20 febbraio 1992, n. 2092).
Tale affermazione della giustiziabilità di interessi super-individuali ha certamente un'importanza storica notevole e un rilievo attuale apprezzabile. Tuttavia, essa rende tutelabile l'interesse diffuso solo nella misura in cui coinvolga diritti fondamentali e inviolabili dell'individuo: pertanto, si tratta sempre di una protezione limitata, per definizione, a casi eccezionali, e mai diretta, ma sempre mediata dal necessario collegamento con le posizioni individuali coinvolte.
A differenza di quanto è accaduto davanti al giudice amministrativo, dove l'interesse diffuso doveva 'camuffarsi' da interesse legittimo attraverso l'individuazione di enti esponenziali (v. Scoca, 1976, p. 57), può dirsi che la giurisprudenza del giudice civile in tema di diritto all'ambiente salubre sia realmente condizionata dalla imprescindibilità di una vera e propria situazione giuridica soggettiva comune alla generalità dei cittadini (in merito, v. Denti, 1983, p. 310), anche se essa stessa suscettibile di venire rappresentata da un ente che se ne assume portatore (cfr., ad esempio, Cassazione, Sezioni Unite, 3 luglio 1991, n. 7318: in questo caso il Comune, ente pubblico territoriale avente competenze generali in materia di protezione degli interessi dei cittadini, agì in via cautelare e d'urgenza contro l'ENEL a tutela della salubrità dell'ambiente).
Sempre per quanto riguarda la materia ambientale, va poi ricordato che al giudice ordinario, eventualmente adito anche in sede penale, spetta la cognizione delle azioni di risarcimento del danno previsto dall'art. 18, comma 1°, l. 349/1986. Merita inoltre di essere ricordato il fondamentale ruolo svolto in passato dalla Corte dei conti nell'elaborazione della figura del danno ambientale, attraverso l'ampliamento dei confini del danno erariale. A questa operazione interpretativa è contraria la giurisprudenza ormai consolidata della Corte di cassazione (cfr., da ultimo, Cassazione, Sezioni Unite, 28 ottobre 1998, n. 10733), che riconosce la giurisdizione del giudice ordinario in tema di danno ambientale e limita la giurisdizione del giudice contabile all'eventuale giudizio di rivalsa della Pubblica Amministrazione nei confronti dell'amministratore responsabile della violazione ambientale e, quindi, degli esborsi conseguentemente sostenuti da essa medesima.
Secondo la tesi che appare preferibile - quella prevista dall'art. 18, comma 1°, l. 349/1986 - è una speciale fattispecie di responsabilità civile, riconducibile al genus aquiliano di cui all'art. 2043 del Codice civile (in merito, v. Giracca, 2001, p. 406). Come già si è detto, il legislatore, con una scelta criticata da autorevole dottrina (v. Scoca, 1989, p. 555), riserva allo Stato il diritto al risarcimento, mentre tanto allo Stato quanto agli enti territoriali è riconosciuta la relativa legittimazione ad agire. L'apparente contraddittorietà di queste disposizioni può essere superata ritenendo che gli enti territoriali agiscano quali meri sostituti processuali dello Stato, o invece, come ritiene la giurisprudenza penale, che essi siano titolari di un autonomo diritto al risarcimento del danno e che pertanto possano costituirsi parte civile e incassare le somme liquidate.
Quanto al ruolo delle associazioni di protezione ambientale, in primo luogo va segnalato che, ai sensi dell'art. 18, comma 5°, l. 349/1986, esse possono "intervenire nei giudizi di danno ambientale": parte della giurisprudenza è dell'avviso che questa norma consentirebbe la costituzione di parte civile delle formazioni sociali in questione (per un esame dei diversi orientamenti, v. Giracca, 2001, p. 422), mentre un altro indirizzo nega tale possibilità. Inoltre, come si è accennato (v. sopra, cap. 3), le associazioni ambientaliste sono state recentemente ammesse all'esercizio dell'azione risarcitoria spettante al Comune e alla Provincia. Tale novità legislativa - pur disponendo, coerentemente con l'impostazione pubblicistica della l. 349/1986, che l'eventuale risarcimento non competa al soggetto attore ma all'ente sostituito - certamente rappresenta una significativa apertura dell'ordinamento verso una moderna concezione dell'ambiente quale bene a fruizione super-individuale, proprio della collettività dei cittadini, e costituisce una conferma ulteriore del modello di tutela fondato sulla legittimazione dell'ente esponenziale.
5. Il diritto dei consumatori
a) Osservazioni preliminari
La tipologia di situazioni sinora considerate riguarda essenzialmente ambiti in cui si verifica una tendenziale convergenza tra interessi diffusi e interessi pubblici, intendendosi per tali quegli interessi che sono fatti propri dalla Pubblica Amministrazione nelle sue varie articolazioni (v. Denti, 1983, p. 307). La cura dell'ambiente e della salute, nonché la tutela dei beni culturali, sono infatti ambiti nei quali forte è la presenza dell'interesse pubblico, che si esprime nel conferimento di una serie di poteri in capo a organismi pubblici e in una complessa normativa di settore, primaria e secondaria. Questo spiega, del resto, come mai proprio il giudice amministrativo sia da sempre apparso come il giudice naturale degli interessi diffusi (v. Alpa, 1993, p. 616) e come, peraltro, la sede più congrua per un'efficace protezione, piuttosto che quella giurisdizionale, sia sovente quella del procedimento amministrativo, che garantisce l'equo contemperamento dei diversi interessi in gioco attraverso la partecipazione procedimentale dei soggetti che ne sono portatori (relativamente alla tutela del diritto alla salute, v. Fracchia, 2001, cap. IV).
Negli ultimi anni, per effetto della diversificazione e dell'affinamento delle attese di tutela super-individuale e per impulso decisivo delle fonti normative di derivazione comunitaria, sono emersi interessi non direttamente riconducibili al novero delle finalità tradizionalmente perseguite in ambito pubblicistico. Tra questi spiccano, anzi, interessi diffusi relativi a rapporti di tipo schiettamente privatistico, come quelli facenti capo alla generalità dei consumatori. Non è possibile ripercorrere in questa sede la storia della normativa di tutela del consumatore; ci limitiamo pertanto ad alcune notazioni essenziali che riguardano i profili collettivi della tutela (per un quadro d'insieme, v. Alpa, 2002).
L'esigenza di proteggere il soggetto per antonomasia debole della contrattazione di massa, dapprima nel quadro del Mercato Comune, quindi nel più complesso contesto istituzionale dell'Unione Europea, ha prodotto un vero e proprio sistema normativo che ha ormai acquistato una dimensione scientifica autonoma: il diritto dei consumatori costituisce oggi una branca del diritto privato che ha straordinarie implicazioni giuridiche e politiche nel mondo dei rapporti economici interprivati, dominio classico di una concezione liberale e individualistica delle relazioni sociali.
b) Protezione del consumatore e disciplina delle clausole vessatorie
Tra i primi e più importanti interventi legislativi a tutela del consumatore, va senz'altro menzionata la normativa in tema di responsabilità del produttore (Dir. CEE 85/375, attuata in Italia con il d. p. r. 224/1988); tuttavia, il legislatore, deludendo gli auspici espressi da parte della dottrina, non riuscì a tradurre adeguatamente sul piano della tutela la dimensione super-individuale del fenomeno disciplinato, rinunziando a prevedere forme di protezione collettiva.
Tale importante obiettivo è stato invece centrato dalla direttiva CEE 93/13, attuata dal legislatore italiano con l'introduzione del capo XIV-bis del Codice civile, che, dopo l'esordio dedicato alla definizione delle nozioni di consumatore e di professionista, detta in favore del primo un'articolata disciplina di protezione. In particolare, per quel che qui interessa, viene definito un elenco di clausole dichiarate vessatorie - e quindi inefficaci - in quanto determinanti a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. In sostanza il legislatore, con la declaratoria di inefficacia delle previsioni contrattuali ritenute inique nei confronti del contraente non professionista, ha conferito al singolo consumatore che già abbia contrattato e che abbia ritenuto di affrontare il costoso iter delle vie giudiziali un'importante posizione soggettiva di vantaggio, un vero e proprio diritto soggettivo da far valere in sede giudiziale avverso la controparte. In tal modo, la singola previsione impugnata sarà espunta dal regolamento negoziale.
Sennonché, se il legislatore si fosse accontentato di ragionare in termini di singoli rapporti, tutti i consumatori che, avendo già concluso un contratto contenente clausole vessatorie, ed avendo bilanciato costi e benefici di un'azione in giudizio, vi avessero rinunziato, sarebbero costretti a soggiacere allo squilibrio sinallagmatico loro imposto. E che dire poi della moltitudine di soggetti che ancora non hanno contrattato? Che dire della collettività aperta dei consumatori potenziali? Ecco dunque emergere con chiarezza la diversità costitutiva dell'interesse diffuso rispetto alla posizione soggettiva di vantaggio che l'ordinamento munisce del sigillo della giustiziabilità individuale, ma che, nel contesto delle relazioni contrattuali di massa, può facilmente rivelarsi un'arma spuntata, uno strumento inefficace nell'ottica dell'effettiva protezione della parte nel cui interesse tale protezione è stabilita dalla legge.
La norma di chiusura del capo XIV-bis del Codice civile consacra l'interesse della collettività aperta dei consumatori a non vedersi imposte clausole che la legge del contratto considera illegittime (v. Giracca, 2001, p. 424), affidandone la tutela alle ben note formazioni sociali che di quell'interesse risultano portatrici - le associazioni rappresentative dei consumatori -, nonché alle stesse associazioni dei professionisti e alle camere di commercio, industria e artigianato. Tali soggetti sono legittimati a "convenire in giudizio il professionista o le associazioni di professionisti che utilizzano condizioni generali di contratto e richiedere al giudice competente che inibisca l'uso delle condizioni di cui sia accertata l'abusività ai sensi del presente capo" (art. 1469-sexies, comma 1° del Codice civile); l'inibitoria può inoltre essere disposta in sede cautelare, ove ricorrano giusti motivi di urgenza ai sensi degli artt. 669 e ss. del Codice di procedura civile (art. 1469-sexies, comma 2° del Codice civile).
In questa sede non è possibile esaminare il complesso delle questioni che dottrina e giurisprudenza hanno dovuto affrontare in sede di interpretazione della normativa in esame; ci si limiterà, dunque, a un paio di considerazioni connesse alla sua natura super-individuale. L'inibitoria collettiva appare uno strumento dotato di grande efficacia nel perseguimento degli obiettivi di tutela ai quali essa è preposta (v. Palmieri e Laghezza, 2000, pp. 2046 ss.). Frequentemente, infatti, le azioni ex art. 1469-sexies del Codice civile hanno esito favorevole alle ragioni dei consumatori, conducendo all'accertamento dell'abusività delle clausole generali impugnate. È però interessante osservare che a tale epilogo di merito si è giunti in diversi casi a seguito di vicende cautelari alterne, a seconda della diversa interpretazione dei giusti motivi di urgenza ai quali il secondo comma della disposizione in esame subordina la concessione del provvedimento d'urgenza. In generale può dirsi che l'accoglimento dell'istanza sia stato agevolato nei casi in cui i giudici, a fronte di un apprezzabile fumus boni iuris della vessatorietà e valorizzando la natura preventiva dell'inibitoria collettiva rispetto a quella individuale, abbiano ritenuto giusto motivo d'urgenza la diffusione attuale o potenziale della clausola contestata. Viceversa, il rigetto si è imposto quando si è preferito un criterio interpretativo legato alla qualità del pregiudizio subito dal consumatore, ad esempio ritenendo necessaria l'incidenza della clausola contrattuale su beni primari ed essenziali o la particolare gravità dello squilibrio negoziale da essa determinato. Va comunque osservato che la dottrina dominante configura il rimedio in esame come una misura cautelare atipica, per la quale i giusti motivi di urgenza rappresenterebbero un minus rispetto ai presupposti richiesti in via generale dall'art. 700 del Codice di procedura civile: non sarebbe dunque necessario un pregiudizio imminente e irreparabile, ma il giudice disporrebbe di un'ampia discrezionalità in ragione della dimensione collettiva degli interessi coinvolti (v. Marchetti e Ubertazzi, 2000, p. 144, e la dottrina ivi richiamata).
Il secondo ordine di rilievi attiene al profilo della legittimazione attiva delle associazioni rappresentative dei consumatori. Poiché l'art. 1469-sexies del Codice civile non detta alcun parametro quantitativo per l'apprezzamento della rappresentatività, in giurisprudenza si è posta la questione se fosse sufficiente l'accertamento dello scopo statutariamente perseguito, o se invece fosse comunque necessario accertare l'effettiva rappresentatività degli interessi dei consumatori. Quest'ultima opinione, condivisa da autorevole dottrina (ibid., p. 141), sembra preferibile; anche nel caso in esame, la tutela di posizioni super-individuali non può che passare attraverso la verifica concreta dell'esponenzialità degli enti che se ne fanno portatori, sulla base dei criteri elaborati in riferimento alla legittimazione ad agire delle formazioni sociali esponenziali di interessi collettivi: numero degli iscritti, diffusione sul territorio, rispondenza dell'azione ai fini statutari ed eventuale partecipazione a organismi pubblici (cfr., ad esempio, Tribunale di Roma, ord. 28 maggio 1998). Non sono mancate però decisioni in senso contrario (cfr., in particolare, Tribunale di Roma, ord. 18 giugno 1998).
c) I diritti dei consumatori e degli utenti
L'art. 1, comma 2°, l. 291/1998, riconosce ai consumatori e agli utenti una serie di diritti fondamentali: tutela della salute; sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi; adeguata informazione e corretta pubblicità; educazione al consumo; correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi; promozione e sviluppo dell'associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.
La tutela collettiva di tali posizioni di vantaggio è affidata alle associazioni dei consumatori e degli utenti che siano state inserite nell'apposito elenco tenuto presso il Ministero dell'Industria, previo accertamento del possesso di una nutrita schiera di requisiti attestanti la consistenza numerica, la diffusione sul territorio, la serietà e la stabilità dell'organizzazione e il suo ordinamento democratico (art. 5, l. 291/1998). Se si considera che tra le condizioni della legittimazione figura anche l'esclusività dello scopo di tutela dei consumatori e degli utenti, ben ci si avvede del rigore osservato dal legislatore nell'avvalersi del modello offerto dall'art. 13, l. 349/1986. Ciò si spiega forse in relazione all'ampiezza delle facoltà attribuite alle associazioni iscritte (incidentalmente va rilevato che, nonostante l'art. 2, l. 291/1998 parli di formazioni sociali, in dottrina si è precisato che deve comunque trattarsi di associazioni in senso proprio, anche non riconosciute: in merito, v. Marchetti e Ubertazzi, 2000, p. 140), le quali, anche in via cautelare ove ricorrano giusti motivi di urgenza, possono richiedere al giudice di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori, di adottare misure idonee a correggere o a eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate, oltre che la pubblicazione del provvedimento (art. 3, comma 1°, lett. a, b e c, l. 291/1998).
Proprio argomentando sulla base dell'ampiezza e della generalità dei rimedi processuali introdotti dalla l. 291/1998 (oltre che, nei casi in questione, di assorbenti considerazioni di diritto intertemporale), in giurisprudenza si è sostenuto che la legittimazione all'azione inibitoria ex art. 1469-sexies del Codice civile prescinderebbe dalla formale iscrizione nel registro previsto dalla nuova lex generalis, nonché dal possesso di tutti i requisiti da essa stabiliti, ben potendo la rappresentatività delle associazioni dei consumatori continuare a essere apprezzata dal giudice alla stregua dei criteri giurisprudenziali preesistenti. In caso contrario, si osserva, sarebbe frustrato lo spirito della riforma che ha introdotto nel codice il rimedio dell'inibitoria collettiva e si contraddirebbe la stessa l. 291/1998, che, all'art. 2, riconosce come fondamentale il diritto dei consumatori alla promozione e allo sviluppo del libero associazionismo (cfr. Tribunale di Roma, 21 gennaio 2000; cfr. Corte d'appello di Roma, 7 maggio 2002). Nonostante la serietà di tali argomenti, non si può sottacere che la coerenza del sistema normativo esigerebbe di considerare i parametri introdotti dalla l. 291/1998 come la disciplina legale generale di riferimento in tutti i casi in cui si richieda il requisito della rappresentatività delle associazioni dei consumatori (v. Marchetti e Ubertazzi, 2000, p. 142). Inoltre va ricordato che il d. lgs. 224/2001 ha incluso la Dir. 93/13/CEE e la relativa normativa italiana di attuazione (dunque, anche l'art. 1469-sexies del Codice civile) nell'allegato alla l. 291/1998: non è improbabile, come si è adombrato in dottrina (v. De Rosas e Palmieri, 2002, p. 2838), che questa novità, estendendo l'applicabilità della l. 291/1998 alle violazioni degli interessi dei consumatori tutelati dalla normativa sulle clausole abusive, possa rendere impraticabile la via della legittimazione giurisprudenziale.
Con la l. 291/1998 il legislatore conferma un modello di tutela di posizioni diffuse che può dirsi ormai consolidato nel nostro ordinamento: la protezione processuale di tali situazioni spetta in linea generale a enti la cui effettiva rappresentatività costituisce il fondamento della legittimazione. La portata davvero innovativa dell'intervento legislativo in esame va invece ravvisata sul piano delle situazioni giuridiche sostanziali di pertinenza dei consumatori, riconosciute come diritti fondamentali, nonché su quello dei rimedi predisposti per il caso di una loro eventuale violazione da parte del contraente professionista. Sotto il primo profilo, vale la pena di richiamare un'efficace valutazione dottrinale secondo la quale finalmente con tale legge si accorda "tutela giurisdizionale non solo ai diritti che riguardano l'uomo come individuo, ma anche a quelli che riguardano l'uomo come membro delle formazioni sociali nelle quali si svolge la sua personalità" (v. Maddalena, 2000, p. 129). Sotto il secondo profilo, è opportuno segnalare alcune applicazioni giurisprudenziali particolarmente significative. Di notevole interesse appare la pronuncia con la quale è stata vietata in sede cautelare - ai sensi dell'art. 3, comma 1°, lett. a, l. 291/1998 - la prosecuzione di un'attività commerciale svolta da un'associazione e da una società che avevano messo in pratica un malizioso meccanismo contrattuale a struttura piramidale, il cosiddetto sistema della 'catena di sant'Antonio', avente come unica finalità reale l'incasso delle quote associative da parte dei nuovi associati, con conseguente nullità del contratto associativo ex art. 1343 del Codice civile (cfr. Tribunale di Torino, ord. 3 ottobre 2000).
È evidente l'assoluta pregnanza del rimedio inibitorio adottato, anche in rapporto alla tutela inibitoria codicistica che, come già si è ricordato, è limitata all'uso di clausole di tipo vessatorio: qui, invece, si è di fronte a un penetrante controllo giudiziale sull'attività esercitata dal professionista, che deve essere messo in relazione al diritto dei consumatori "alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi" (art. 1, comma 2°, lett. e, l. 291/1998). La decisione in questione si segnala anche per aver ineccepibilmente rigettato la richiesta di sequestro conservativo finalizzato alla restituzione delle somme pagate dalle 'vittime' dell'attività inibita: tale istanza, infatti, non poteva essere presentata dal soggetto collettivo, ma unicamente dai singoli creditori, titolari del diritto soggettivo alla restituzione delle somme corrisposte. Ecco dunque stagliarsi con chiarezza, da un lato, i diritti diffusi dei consumatori, che hanno il loro naturale portatore nell'ente legittimato ex lege; dall'altro, i diritti soggettivi dei singoli, non suscettibili di essere tutelati ex art. 3, l. 291/1998.
Un'altra recente pronuncia ha ordinato in sede cautelare a una casa automobilistica di inviare una comunicazione ai proprietari di un certo modello di automobile appartenente a una serie rivelatasi difettosa, nei termini e con le modalità ritenuti congrui dal giudice, recante la spiegazione chiara e inequivoca del difetto e della sua potenziale pericolosità, nonché la dichiarazione dell'impegno a provvedere alla rimozione del problema su richiesta del destinatario. In questo caso, come è agevole intuire, i diritti degli utenti che costituiscono il fondamento sostanziale della decisione sono principalmente quelli relativi alla tutela della salute, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi, nonché a una corretta informazione (art. 1, comma 1°, lett. a, b, e c, l. 291/1998).
Anche questo secondo caso aiuta a chiarire il fondamentale nesso esistente tra i diritti dei consumatori (art. 1, comma 2°, l. 291/1998) e la dimensione super-individuale della protezione loro riconosciuta dall'art. 3, l. 291/1998. Il diritto alla salute costituisce certamente un fondamentale diritto soggettivo della persona e una sua lesione senz'altro legittima l'azione individuale del singolo, così come, ai sensi della disciplina delle clausole vessatorie, il consumatore può agire per la tutela del suo diritto soggettivo all'espunzione dal regolamento contrattuale della clausola abusiva. Il diritto diffuso, come tale appartenente alla generalità dei consumatori, si concreta invece nella possibilità di pretendere l'eliminazione delle condotte che pongono in pericolo il bene a fruizione collettiva che ne costituisce l'oggetto. Nella sostanza, tale bene non suscettibile di appropriazione individuale è l'assenza, nel mondo delle relazioni socio-economiche delle quali sono parte consumatori e utenti, di condotte lesive dei diritti fondamentali loro riconosciuti. In forza della sua dimensione super-individuale, il legislatore conferisce alle associazioni esponenziali la legittimazione a farlo valere in giudizio, anche quando la lesione dei diritti dei singoli non sia attuale, bensì solo potenziale, attraverso i rimedi indicati dall'art. 3, comma 1°, lett. a, b e c, l. 291/1998. Va rilevato che la tutela così accordata alla generalità dei consumatori, a differenza di quanto accade negli ordinamenti di matrice anglosassone attraverso il sistema delle class actions, non prevede la possibilità di chiedere il risarcimento del danno, che resta confinata nella sede dei giudizi individuali.
6. L'affermazione di un tertium genus: i diritti sociali di tipo diffuso
Dei diritti riconosciuti dalla l. 291/1998 alla collettività aperta dei consumatori, alcuni sono di diretta derivazione costituzionale, come il diritto alla salute (art. 32, comma 1° della Costituzione) e il diritto alla promozione e allo sviluppo dell'associazionismo (artt. 2 e 18 della Costituzione). Altri, invece, si devono alla progressiva articolazione della legislazione ordinaria in tema di protezione del consumatore: si allude al diritto "a un'adeguata informazione" (l. 126/1991, che detta norme per l'informazione del consumatore), al diritto "a una corretta pubblicità" (d. lgs. 74/1992, in materia di pubblicità ingannevole), al diritto "alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi" (si pensi, ad esempio, al d. lgs. 185/1999, in tema di contratti a distanza, o alla stessa l. 52/1996, sulle clausole abusive). Va poi ricordato che il d. lgs. 224/2001, in attuazione della Direttiva CE 98/97, ha esteso l'ambito di applicazione della legge a tutte le violazioni degli interessi collettivi dei consumatori, contemplati dal variegato universo normativo creato dalle direttive europee (precisamente il decreto citato ha introdotto nella l. 291/1998 il nuovo art. 1, comma 2°-bis che rinvia a un allegato per l'elencazione delle direttive attratte nell'orbita della l. 291/1998, prevedendone l'aggiornamento a opera di decreti ministeriali). Anche la recente normativa in tema di contratti a distanza, che ha dato attuazione alla Direttiva 97/7/CE, richiama l'art. 3, l. 291/1998, in vista della tutela collettiva dei diritti attribuiti ai consumatori (art. 13, d. lgs. 185/1999).
Quale che sia la valutazione della portata normativa del riconoscimento dell'ampio novero di diritti contemplati dal legislatore nell'art. 1, comma 2°, l. 291/1998 (taluni interpreti ne hanno dubitato, proprio perché in realtà si tratterebbe di una mera ricognizione: v. Marchetti e Ubertazzi, 2000, p. 139, e la dottrina ivi citata), non può disconoscersi la fondamentale importanza della reductio ad unitatem operata dallo stesso legislatore sotto il profilo della tutela: la definizione di un sistema di rimedi processuali comune a tutte le situazioni già previste dalle varie fonti può ragionevolmente ritenersi il segnale di una nuova sensibilità dell'ordinamento nei riguardi delle ormai molteplici posizioni giuridiche a carattere super-individuale. Si può ragionevolmente sostenere che dal limbo indistinto dei cosiddetti interessi diffusi siano emersi veri e propri 'diritti sociali di tipo diffuso': tale qualificazione sembra doversi riservare, anche oltre l'ambito di applicazione della l. 291/1998, a tutte quelle situazioni che, attraverso la mediazione dell'ente esponenziale, sono oggi ammesse alla tutela giudiziale. Non appare francamente più aderente alla realtà normativa continuare a utilizzare l'espressione 'interessi', che ben si adatta a posizioni magmatiche e fluide, al limite del giuridicamente rilevante. La qualificazione di una posizione di vantaggio come diritto sociale di tipo diffuso presuppone una situazione attiva di tensione verso un bene a fruizione collettiva che trova il suo riconoscimento nella legislazione ordinaria - come nel caso della l. 349/1986 - o nella stessa Costituzione. Anche là dove manchi un intervento del legislatore ordinario, ma vi sia il radicamento costituzionale di una tale posizione, appare corretto parlare di diritti sociali e, dunque, ammetterne la tutela processuale a opera di un ente esponenziale. Così, ad esempio, l'art. 9, comma 2° della Costituzione, nel momento in cui sancisce che la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della nazione, riconosce l'esistenza di un bene di primaria importanza, non suscettibile di appropriazione individuale. Alla luce dell'evoluzione dell'ordinamento, tanto oggi potrebbe bastare per ritenere esistente il corrispondente diritto diffuso.
In questa prospettiva è auspicabile il superamento della giurisprudenza amministrativa che, sulla base della sola interpretazione della l. 349/1986, ha escluso la legittimazione di Italia Nostra a impugnare provvedimenti amministrativi incidenti su beni culturali (v. sopra, cap. 3): il menzionato art. 9 della Costituzione - unitamente all'art. 2, che riconosce e garantisce i diritti fondamentali dell'individuo anche nelle formazioni sociali ove si esplica la sua personalità - parrebbe essere sufficiente a fondare de iure condito la legittimazione processuale delle associazioni portatrici del diritto sociale all'integrità del patrimonio culturale della nazione. Quando invece dall'ordinamento non emergano indicazioni inequivoche circa il 'rango' che compete a un interesse, nell'inerzia del legislatore ordinario la cautela della giurisprudenza appare giustificata.
Comunque, qualora sussistano i presupposti previsti dall'art. 9, l. 241/1990, sarà certamente possibile la partecipazione al procedimento amministrativo che coinvolga meri interessi diffusi; in taluni casi, poi, è ammesso un potere di denuncia di situazioni lesive dell'interesse protetto - una sorta di azione popolare 'paraprocessuale' - in funzione di attivazione delle autorità competenti. Così i consumatori uti singuli e le loro associazioni, a tutela dell'interesse diffuso alla libertà della concorrenza, possono portare elementi a conoscenza dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 12, l. 287/1990, Legge anti-trust) affinché questa avvii un'istruttoria. A tali soggetti competono la facoltà di intervenire nell'iter amministrativo (il regolamento delle procedure istruttorie dell'Autorità garante richiama espressamente gli artt. 9 e 10, l. 241/1990) e, al limite, nel giudizio di impugnazione del provvedimento emesso a conclusione del procedimento, ma non la legittimazione a proporre appello avverso la sentenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 30 dicembre 1996, n. 1792).
Infatti, l'interesse alla libertà della concorrenza e del mercato non sembra configurato dalla vigente legislazione come 'diritto diffuso', ma come un semplice interesse indifferenziato la cui cura è affidata dalla legge a organismi amministrativi preposti alla tutela oggettiva del diritto di iniziativa economica nell'ambito del libero mercato; in quest'ottica si spiega l'esclusione della legittimazione della ADUSBEF (Associazione Difesa Utenti Servizi Bancari Finanziari Postali Assicurativi) a impugnare il provvedimento con il quale la Banca d'Italia, nell'esercizio delle sue competenze ex lege 287/1990, aveva autorizzato un'operazione di concentrazione (cfr. TAR Lazio, 13 luglio 1999, n. 1558). Ancora, ai consumatori e alle loro associazioni il d. lgs. 74/1992 in materia di pubblicità ingannevole riconosce un potere di denunzia all'Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 7, comma 2°, d. lgs. 74/1992), ma, secondo la giurisprudenza, non la legittimazione a impugnare la sanzione amministrativa comminata dalla medesima Autorità, né la qualità di controinteressato nel giudizio promosso dal soggetto sanzionato (cfr. TAR Lazio, sez. I, 19 maggio 1998, n. 1725; cfr. TAR Lazio, Sez. I ter, 24 agosto 1999, n. 1818). In proposito sarà interessante apprezzare gli effetti del già citato d. lgs. 224/2001 sulla qualificazione giuridica degli interessi dei consumatori in materia di pubblicità ingannevole, atteso che, come già accennato, tale intervento legislativo estende l'applicazione della l. 291/1998 anche alla violazione di tali interessi: non è escluso che, al di là delle incertezze terminologiche dello stesso legislatore, si sia in presenza del riconoscimento di veri e propri diritti anche in questo settore.
Tornando alle situazioni che de iure condito sembrano ormai qualificabili come diritti, si osserva che la loro emersione rende oggi inadeguata la classica bipartizione delle posizioni giuridiche di vantaggio riconosciute dall'ordinamento e impone il ripensamento della logica individualistica che subordinava il riconoscimento di pretese metaindividuali alla lesione di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo. La definizione della nuova nozione di diritti diffusi quale tertium genus delle situazioni di vantaggio rilevanti in sede processuale (già prospettata in dottrina: v. Romeo, 1986, p. 573; v. Benini, 1993, p. 111) appare del resto confermata sul piano dei criteri di riparto della giurisdizione, tradizionalmente determinata sulla base della situazione soggettiva dedotta in giudizio. A tutela della medesima situazione sostanziale (ad esempio, il diritto dei consumatori alla tutela della salute) le associazioni di cui all'art. 5, l. 291/1998, possono agire tanto innanzi al giudice ordinario, quanto in sede giurisdizionale amministrativa. Ai diritti sociali di tipo diffuso non devono infatti conformarsi soltanto la prassi contrattuale e la condotta dei professionisti, ma la stessa Pubblica Amministrazione nell'esercizio di poteri amministrativi che su di essi incidano direttamente o indirettamente. Ad esempio, accogliendo il ricorso cautelare presentato dal Codacons (oltre che dall'Associazione per la tutela dei diritti del malato) il giudice amministrativo - sulla base, tra l'altro, dell'art. 3, l. 291/1998 - ha sospeso l'esecuzione del provvedimento con il quale il Ministero della Sanità, senza aver adeguatamente considerato i possibili rischi a carico dei consumatori, aveva rigettato la richiesta di inibire la commercializzazione delle lattine provviste del sistema di apertura stay on tab (cfr. TAR Lazio, sez. I, ord. 11 gennaio 1999, n. 20; l'ordinanza cautelare è poi stata annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 9 novembre 1999, n. 2079; nel merito, infine, il TAR Lazio, sez. I, 21 novembre 2000, n. 9866, ha dichiarato l'illegittimità del provvedimento del Ministero, senza, tuttavia, che in tale sede la l. 291/1998 avesse rilevanza, dato che i ricorrenti solo nella fase cautelare ne avevano invocato i rimedi di cui all'art. 3, comma 1°, lett. a e b).
Ora, secondo le regole classiche, l'associazione che agisce davanti al giudice ordinario per l'inibitoria di una prassi lesiva dei diritti dei consumatori dovrebbe dirsi titolare di un diritto soggettivo; analogamente, l'ente esponenziale che adisce il giudice amministrativo dovrebbe dirsi titolare di un interesse legittimo (o di un diritto soggettivo, in caso di giurisdizione esclusiva). In realtà, in entrambi i casi la formazione sociale appare portatrice di una posizione meramente processuale attraverso la quale vengono fatti valere i diritti diffusi di pertinenza della generalità dei consumatori: si tratta, come è stato opportunamente osservato, di un mero interesse a ricorrere (v. Ferrara, 1993, p. 499). Lo stesso vale per la legittimazione delle associazioni di protezione ambientale, ai sensi della l. 349/1986.
L'ente ricorrente che ottenga dal giudice civile l'inibitoria non consegue alcuna utilità per sé medesimo: semplicemente centra l'obiettivo dell'eliminazione della situazione lesiva della "correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali". Allo stesso modo, l'associazione che ottiene in sede giurisdizionale amministrativa l'annullamento di un provvedimento lesivo dell'ambiente o l'adozione giudiziale di una misura idonea a correggere gli effetti dannosi di una violazione del diritto alla tutela della salute non consegue per sé alcun 'bene della vita', ma persegue la legalità dell'azione della Pubblica Amministrazione, che abbia poteri di cura del diritto diffuso medesimo o che su di esso possa comunque incidere esercitando poteri attribuiti ad altri fini. Naturalmente questo non significa sic et simpliciter che l'associazione possa agire a tutela dell'interesse diffuso e indifferenziato alla legalità oggettiva dell'azione amministrativa: il collegamento con la lesione del diritto diffuso tutelato è un presupposto indefettibile della legittimazione dell'ente esponenziale. Significa soltanto che le associazioni esponenziali hanno uno specifico interesse a ricorrere perché l'azione amministrativa si svolga in conformità ai diritti diffusi riconosciuti dall'ordinamento e, cioè, senza incorrere in vizi di illegittimità suscettibili di incidere negativamente su tali situazioni giuridiche (per un'analoga impostazione dottrinale, che ancora però non riconosce la figura del diritto diffuso, v. Ferrara, 1993, pp. 497 ss., secondo il quale, dinanzi al giudice amministrativo, "la tutela di un interesse senza struttura riceve inveramento ed effettività grazie all'obiettiva realizzazione della legalità dell'azione amministrativa"; v. anche Romano, 1989, pp. 539-543).
7. Rilievi conclusivi
In conclusione, l'ordinamento sembra riconoscere oggi come veri e propri diritti di tipo diffuso alcune delle posizioni di vantaggio a struttura super-individuale che dottrina e giurisprudenza ormai ultradecennali ascrivono alla eterogenea categoria degli interessi diffusi. Superate le inevitabili incertezze classificatorie delle prime riflessioni dottrinali (v. Denti, 1983, p. 306), appare ragionevole prospettare l'affermazione di un tertium genus rispetto alle tradizionali nozioni di diritto soggettivo e interesse legittimo. Correlativamente, l'autorevole opinione dottrinale secondo cui gli interessi diffusi, pur costituendo una figura a sé stante, andrebbero "avvicinati" all'interesse legittimo e avrebbero "il loro giudice per così dire naturale" nel giudice amministrativo (v. Alpa, 1993, p. 616) va corretta alla luce dell'attuale assetto ordinamentale. L'accostamento con l'interesse legittimo si giustifica solo nella misura in cui si ritenga tuttora irrinunciabile che le associazioni ricorrenti a tutela dei diritti diffusi in sede giurisdizionale amministrativa vestano il tradizionale abito sostanziale. Il giudice amministrativo, poi, conserva il suo ruolo di giudice naturale delle situazioni super-individuali soltanto nella misura in cui, in considerazione del loro rilievo pubblicistico, esse risultino affidate all'attività di cura degli apparati della Pubblica Amministrazione o possano essere pregiudicate dall'esercizio di poteri amministrativi. Come si è visto, infatti, un ruolo importante spetta oggi al giudice ordinario (v. sopra, cap. 5). Anzi, proprio il mondo delle relazioni interprivate ha avuto, e presumibilmente manterrà negli anni a venire, un rilievo di primissimo piano nel rafforzamento e nell'ampliamento del novero dei diritti sociali di tipo diffuso.
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