diritti linguistici
L’espressione diritti linguistici si riferisce al diritto di singole persone o di collettività a usare la propria lingua nativa, anche nel caso di una lingua diversa da quella ufficiale o standard: per es., quella parlata da gruppi minoritari in una comunità politica più ampia. La nozione di diritti linguistici implica sia il diritto all’uso della lingua materna da parte del singolo, sia l’uso della lingua minoritaria nella scuola e in contesti di rilevanza giuridica e pubblica.
L’attenzione a diritti linguistici oggettivi è documentata, pur se in maniera indiretta, fin dall’antichità da testi che, in quanto di pubblico interesse (leggi, editti, istruzioni, ecc.), dovevano avere massima comprensibilità e diffusione. In effetti, l’uso scritto delle lingue parlate (volgari) al posto del latino nel medioevo dipese sia da fattori identitari ed espressivi sia dall’esigenza di un’ampia e sicura comprensibilità, come nel caso di documenti con valore giuridico. Ne sono esempi alcuni dei più antichi testi neolatini, come i cosiddetti Placiti campani, formule testimoniali del X secolo scritte in volgare (➔ origini, lingua delle), e in particolare i giuramenti di Strasburgo, con i quali nell’842 Carlo il Calvo, re dei Franchi occidentali, e Ludovico il Germanico, re di Baviera, rinnovarono la loro alleanza. Affinché il giuramento fosse correttamente interpretato da tutti, Carlo usò una varietà germanica compresa dalle truppe di Ludovico, e Ludovico una varietà di antico francese compresa dalle truppe di Carlo, come riportato dallo storico medievale Nitardo. Nel corso del XVI secolo prescrizioni linguistiche esplicite furono espressione di precoci politiche nazionali: così l’ordinanza di Villers-Cotterêts (1539), con la quale il re di Francia Francesco I impose l’uso della lingua francese per tutti gli atti pubblici; i decreti con cui i re spagnoli proibirono l’uso dell’arabo in Spagna e delle lingue indigene nelle colonie americane; e l’Act for the English order, habite, and language (1536-37) con il quale il governo inglese mirò ad affermare la lingua e la cultura inglesi in Irlanda (Eufe 2005).
L’emergere della moderna questione dei diritti linguistici è legato alla formazione degli stati nazionali nell’Ottocento. La lingua nazionale rappresenta infatti il principale criterio di integrazione simbolica della nazione, alla quale fornisce lo strumento psicologico per l’autoriconoscimento su base territoriale, etnica e culturale, determinando l’emarginazione delle realtà linguistiche e culturali ad esso non riducibili (Anderson 2000). Il nazionalismo è quindi per sua natura ostile ai diritti linguistici delle minoranze, come è ben messo in luce dalla politica linguistica del fascismo (➔ fascismo, lingua del; ➔ politica linguistica). La difesa della purezza e dell’identità della lingua, su cui il governo fascista intervenne istituendo nel 1941 la Commissione per l’italianità della lingua, si integrò in una politica di repressione e assimilazione delle minoranze (Klein 1986).
Nell’accezione corrente, i diritti linguistici sono concepiti come parte dei diritti fondamentali di libertà della persona; si collegano cioè alle tradizioni di pensiero illuminista e liberale che vedono nell’essere umano il depositario di un insieme originario di diritti naturali, individuali e collettivi (Carrozza 1986; Pizzorusso 1993). Questa concezione, fissata nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, adottata nel 1789 dall’Assemblea nazionale francese durante la Rivoluzione, attribuisce a ogni persona uno stato naturale di libertà e di uguaglianza di fronte alla legge e, in particolare, il diritto di libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni.
Tuttavia, per un riconoscimento esplicito dei diritti linguistici occorre aspettare le costituzioni democratiche e i documenti di organismi sovranazionali successivi alla seconda guerra mondiale, fra cui riveste un ruolo centrale la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. La Dichiarazione afferma che tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti (art. 1), che tali diritti e le libertà fondamentali spettano agli individui senza distinzione di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, ecc. (art. 2), e che ogni individuo ha il diritto alla libertà di espressione (art. 19). Il riconoscimento di tali diritti è presente anche nella Costituzione italiana (entrata in vigore il 1° gennaio 1948), per la quale «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3). La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, adottata dal Consiglio d’Europa nel 1950, proibisce ogni forma di discriminazione a qualsiasi titolo, inclusa appunto la lingua. L’Atto finale della conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europa (Helsinki 1975) riconosce ai componenti delle minoranze nazionali l’uguaglianza davanti alla legge e l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà fondamentali. In particolare, questi documenti tengono conto del fatto che la libertà di manifestazione del pensiero implica l’effettiva possibilità di attuare uno specifico patrimonio culturale.
È in questo quadro che si inserisce la questione dei diritti delle ➔ minoranze linguistiche. In Italia, le diverse varietà dialettali o di minoranza hanno costituito le risorse linguistiche della massa della popolazione e fino agli anni Sessanta del Novecento la lingua delle classi non alfabetizzate (De Mauro 1976); oggi rappresentano in molti casi la varietà colloquiale, e si alternano con l’italiano in rapporto al contesto comunicativo. Tra le numerose minoranze linguistiche presenti sul territorio nazionale, fino ad anni recenti solo quella tedesca del Sud Tirolo, quella slovena e quella francese hanno goduto di specifici diritti in virtù di accordi internazionali seguiti alla caduta del fascismo e alla seconda guerra mondiale. L’art. 6 della Costituzione («La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche») è stato attuato, con molto ritardo, dalla legge 482 del 1999 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), che nell’art. 2 detta:
In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princípi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo
Il lungo iter che ha portato alla legge 482, che riprende i contenuti di un precedente disegno di legge (612), ha rispecchiato il lento formarsi, anche in Italia, di una più matura consapevolezza dei diritti delle persone.
La legge 482 ha alcuni limiti, fra cui il fatto di non riportare tra le lingue e le culture tutelate quelle degli zingari (➔ zingare, comunità). Le forme di tutela previste includono l’impiego delle lingue minoritarie nella scuola, negli uffici pubblici e negli organi collegiali (come il consiglio comunale), nell’editoria e nei mezzi di comunicazione di massa (radio e televisione), e il ripristino dei nomi tradizionali di luogo e di persona. In merito alle leggi 612 e 482 si aprì su quotidiani e riviste un dibattito che rivelò la difficoltà dell’opinione pubblica, anche quella più istruita, ad accettare la diversità culturale e a liberarsi dei pregiudizi di stampo idealistico e nazionalistico sull’inferiorità dei dialetti e delle lingue minoritarie (Savoia 2001). In realtà, le leggi di tutela delle lingue minoritarie mirano a rafforzare i diritti fondamentali delle persone e a depotenziare i meccanismi di discriminazione, favorendo l’educazione alla tolleranza e la sensibilizzazione della società nei confronti del valore della diversità linguistica e culturale (De Mauro 1977). Inoltre, ricorrere alla lingua nativa, rendendo possibile manifestare il proprio pensiero nella maniera più compiuta e libera, realizza un importante principio di uguaglianza (Pizzorusso 1993).
Oggi, i processi di globalizzazione economica e socio-culturale tendono a imporre schemi culturali uniformi e lingue veicolari, come l’inglese, indebolendo la salvaguardia delle libertà fondamentali e delle differenze linguistiche. Per contrasto, da un lato le società occidentali sono sempre più multiculturali e multilinguistiche, dall’altro vi è ormai una diffusa coscienza del fatto che le lingue parlate nel mondo costituiscono un patrimonio comune a tutti i popoli. Così, nel 1999 la Conferenza generale dell’UNESCO ha istituito per il 21 febbraio la Giornata internazionale della lingua madre, con «l’auspicio di una politica linguistica mondiale basata sul multilinguismo e garantita dall’accesso universale alle tecnologie informatiche». Nella risoluzione n. 12, Attuazione di una politica linguistica mondiale fondata sul plurilinguismo, la Conferenza generale dell’UNESCO individua nella differenziazione delle lingue un valore da difendere e un principio di tolleranza e di mutuo rispetto tra culture e popoli. Anche il Parlamento europeo ha mostrato particolare attenzione alla questione dei diritti linguistici, già a partire dalla risoluzione Arfè del 1981, volta alla valorizzazione del patrimonio culturale e linguistico delle regioni europee. Recentemente, la Comunicazione della Commissione Europea sul multilinguismo (2005) ha collegato il multilinguismo a una cultura più aperta e tollerante, espressione dei valori fondamentali di libertà della persona:
Oltre alle [23] lingue ufficiali dell’Unione […] esistono più di 60 lingue autoctone e dozzine di lingue non autoctone parlate da comunità di migranti. È proprio questa diversità a fare dell’Unione europea […] non un ‘melting pot’ in cui le differenze si fondono, bensì una casa comune in cui […] le nostre numerose lingue materne rappresentano una fonte di ricchezza e fungono da ponte verso una solidarietà e una comprensione reciproca maggiori. […] Assieme al rispetto per l’individuo, all’apertura alle altre culture, alla tolleranza e all’accettazione dell’altro, il rispetto per le diversità linguistiche costituisce un valore fondamentale dell’Unione europea.
Anderson, Benedict (2000), Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri (1a ed. Imagined communities. Reflections on the origin and spread of nationalism, London, Verso, 1991).
Carrozza, Paolo (1986), Profili giuridico-istituzionali, in L’esilio della parola. La minoranza linguistica albanese in Italia. Profili storico-letterari, antropologici e giuridico-istituzionali, a cura di F. Altimari, M. Bolognari & P. Carrozza, Pisa, ETS, pp. 115-217.
Carrozza, Paolo (1992), Stati nazionali, multiculturalismo, diritti scolastici e culturali. Il punto di vista giuridico-istituzionale, in La scuola e la società multiculturale. Elementi di analisi multidisciplinare, a cura di G. Tassinari, G. Ceccatelli Gurrieri & M. Giusti, Firenze, La Nuova Italia, pp. 151-165.
De Mauro, Tullio (1976), Storia linguistica dell’Italia unita, Roma - Bari, Laterza, 2 voll. (1a ed. 1963).
De Mauro, Tullio (1977), Scuola e linguaggio. Questioni di educazione linguistica, Roma, Editori Riuniti.
Eufe, Rembert (2005), Vicende coloniali e usi linguistici. I veneziani ed il volgare a Creta e a Venezia, in Lingue, istituzioni, territori. Riflessioni teoriche, proposte metodologiche ed esperienze di politica linguistica. Atti del XXXVIII congresso internazionale della Società Linguistica Italiana (Modena, 23-25 settembre 2004), a cura di C. Guardiano et al., Roma, Bulzoni, pp. 193-206.
Klein, Gabriella (1986), La politica linguistica del fascismo, Bologna, il Mulino.
Pizzorusso, Alessandro (1993), Minoranze e maggioranze, Torino, Einaudi.
Savoia, Leonardo M. (2001), La legge 482 sulle minoranze linguistiche storiche. Le lingue di minoranza e le varietà non standard in Italia, «Rivista italiana di dialettologia» 25, pp. 7-50.