Abstract
Il contributo muove da brevi cenni sulla storia dei diritti politici, soffermandosi poi sul riconoscimento di essi nell’ordinamento costituzionale italiano, con particolare attenzione alla giurisprudenza costituzionale e anche al quadro normativo europeo. Inoltre, argomento dibattuto e controverso che è approfondito è quello della estensione della titolarità dei diritti politici anche agli stranieri.
I diritti politici concernono la partecipazione dei cittadini titolari del diritto di voto alla formazione della volontà politica dello Stato e possono essere ritenuti espressione dell'autogoverno del popolo sovrano. (Lavagna, C., Istituzioni di diritto pubblico, VI ed., Torino, 1985, p. 387. Per la dottrina anglosassone si veda Barnett, M., Empire of Humanity, A History of Humanitarianism, Cornell University, Ithaca, 2011, Capitolo III, Parte II). Quest’ultimo, titolare del diritto di voto e di eleggibilità, non comprende tutti gli individui soggetti al diritto, bensì esclusivamente i cittadini maggiorenni, residenti nel territorio del Paese.
In alcuni limitati casi il diritto di voto è concesso anche agli stranieri. Nella storia del pensiero politico, i diritti politici sono stati incentrati sui principi di libertà individuale e di eguaglianza (Biscaretti di Ruffia, P., Diritti politici, in Noviss. Dig. it., V, Torino, 1960, p. 734. V. anche Delanty, R., Citizenship in a Global Age, Buckingham, London, 2000, pp. 68-80).
Per cui la libertà attiene all'autonomia nella sfera privata e all'autodeterminazione politica. Nel diritto pubblico i diritti politici sono qualificabili sia quali prerogative individuali, sia quale esercizio di una funzione connaturata allo Stato. In tal guisa è stata anche ritenuta legittima la disciplina costituzionale della partecipazione obbligatoria a votazioni ed elezioni, come talora previsto (obbligo di voto) dall'ordinamento di alcuni Stati (ci si riferisce in particolare alla Norvegia, Svezia e Paesi Bassi). Precedentemente, è con il giusnaturalismo razionalista settecentesco e, in particolare, dal pensiero di John Locke, che i diritti naturali presuppongono una concezione individualistica della società e dello Stato (Locke, J., Secondo trattato sul governo, in Pareyson, L., a cura di, Due trattati sul governo e altri scritti politici di John Locke, Torino, 1983). Dall’Ottocento, e in particolare con la Rivoluzione americana e con quella francese, i diritti politici si precisano come prerogative del cittadino e sono attuati attraverso l’ordinamento giuridico dello Stato e le sue istituzioni. Si inizia a delineare una nozione di cittadinanza dove i diritti non appartengono più all’essere umano in quanto tale, ma come cittadino (cfr. Jellinek, G., La dottrina generale dello Stato, tr. it. di Petrozziello, M., Milano, 1949, p. 31ss.). Dal punto di vista della formalizzazione costituzionale, la titolarità della cittadinanza dipende dai criteri in base ai quali viene concesso l’esercizio dei diritti politici. Intorno a questo nucleo viene strutturandosi, nel 1789, la distinzione tra due diversi soggetti di diritto: l’homme e il citoyen (Godechot, J., Les Institutions de la France sous la Révolution et l’Empire, Paris, 1968, pp. 74-81). Nel 1789 irrompe il termine citoyen nel linguaggio politico francese con la funzione di circoscrivere e qualificare i membri a pieno titolo della comunità politica. Distinzione che vincola la cittadinanza a requisiti censitari. Tra il 1789 e il 1790, Robespierre («ogni individuo ha il diritto di concorrere alla legge dalla quale è obbligato (…), altrimenti non è vero che tutti gli uomini sono uguali nei diritti, e che ogni uomo è cittadino», Archives Parlamentare de 1787 à 1860. Premiére Série (1787-1799), 90 voll., Paris, 1867, vol. 9., p. 479) e Condorcet anticiparono il suffragio universale («ogni individuo ha il diritto di concorrere alla formazione della legge ed alla uguaglianza al fine della conservazione dei diritti di ciascuno», de Condorcet, N., Essai sur les fonctions et la constitution des assemblées provinciales, in Oeuvres, vol. VIII, Paris, 1788, p. 27).
La Rivoluzione francese inaugura la stagione democratica dei diritti, definisce le condizioni stesse della modernità politica, il fondamento individuale e anti-corporativo della cittadinanza.
Più recente e contemporaneo è il riconoscimento dei diritti in senso proprio (Bobbio, N., L’età dei diritti, Torino, 1992, pp. 45-65), sia di diritto positivo che universale, dalla promulgazione nel 1948 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Infatti, mentre il carattere universale dei diritti comporta la loro titolarità da parte di ciascun uomo a prescindere dalla sua appartenenza ad uno Stato, il loro riconoscimento di diritto positivo implica un'effettiva tutela di essi anche contro eventuali abusi dello Stato.
L’attenzione dei Costituenti nel disciplinare la condizione giuridica dello straniero si è sviluppata in un clima sociale e politico che si poneva in rottura con la tragica esperienza fascista.
L’Assemblea costituente si soffermò anche sui diritti che dovevano essere riconosciuti allo straniero, ma marginalmente, in un contesto in cui la preoccupazione principale era la tutela del diritto di emigrare ed il lavoro italiano all’estero (art. 35, co. 4, Cost., v. Treves, P., Assemblea Costituente, 11 aprile 1947, in La Costituzione della repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1976, vol. I, p. 794).
Infatti, un’analisi attenta dei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, in seno alla I Sottocommissione (seduta del 2 ottobre 1946), e poi nella Commissione dei 75 (del 24 gennaio 1947), con riferimento all’approvazione dell’art.10 Cost., sui rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e sulla condizione giuridica dello straniero, fa emergere l’assenza di dibattiti e di discussioni. Questo non meraviglia per il fatto che i padri costituenti operarono in un contesto storico ancora lontano dal fenomeno della globalizzazione e dell’immigrazione che il mondo odierno conosce e dall’evoluzione dell’Unione europea. Diversi tra loro, inoltre, si erano formati nel quadro delle tradizionali categorie giuridiche della cittadinanza, della sovranità e del popolo.
In questa direttrice si pongono pure l’autorevole dottrina più risalente (v. Mortati, C., Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, 1154 e Quadri, R., Cittadinanza, in N.ssimo dig. it., Torino, 1960, III) e la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 11/1968 e n. 104/1969), basate su una concezione dei diritti politici come diritti dei cittadini, quali diritti di partecipazione politica al cui esercizio sono chiamati i soli cittadini italiani per concorrere alla determinazione dell’indirizzo politico del Paese.
Nella prospettiva evidenziata è la cittadinanza il presupposto giuridico per il riconoscimento dei diritti politici (Barile, P.-Cheli, E.-Grassi, S., Istituzioni di diritto pubblico, VIII ed., Padova, 1998, 175). Il Giudice delle leggi, nella sentenza n. 87 del 1975, evidenziò il legame tra cittadinanza e titolarità dei diritti politici, definendo la prima come «stato giuridico costituzionalmente protetto, che importa una serie di diritti nel campo privatistico e pubblicistico e inoltre, in particolare, i diritti politici».
Quest’orientamento giurisprudenziale è letto come un segnale di chiusura nei confronti dei non cittadini, esclusi dal relativo esercizio dei diritti in considerazione, specie da quella dottrina che ha aperto la strada ad una possibile estensione dei diritti politici ai “non cittadini” (v. D’Orazio, G., Lo straniero nella Costituzione italiana: esilio, condizione giuridica, estradizione, Padova, 1992, 307).
Di conseguenza, occorre innanzitutto chiedersi, a livello, generale, se gli stranieri (Grosso, E., Straniero (status costituzionale dello straniero), in Dig. disc. pubbl., vol. XV, Torino, 1999, par. 1) che si trovano in Italia possano godere dei diritti riconosciuti ai cittadini italiani, in particolare dalla Costituzione.
La questione è tutt’altro che nuova, essendo stata oggetto di dibattito fin dagli anni successivi alla fine dei lavori dell’Assemblea costituente. Da qui è comunque necessario partire, per meglio comprendere i termini del confronto.
Da una lettura del testo costituzionale emerge peraltro – tanto nei Principi fondamentali quanto nella Parte I – che alcune disposizioni costituzionali contengono un espresso riferimento alla categoria dei “cittadini”: si tratta, in particolare, degli artt. 3, 4, 16, 17, 18, 26, 38, 48, 49, 50, 51, 52 e 54, così come è rubricata «Diritti e doveri dei cittadini» l’intera Parte I della Costituzione. Qualora ci si limitasse a interpretare i testi secondo un criterio meramente letterale, si dovrebbe concludere che tutti i diritti e le libertà surriferiti sono costituzionalmente attribuiti soltanto ai cittadini, ferma restando la possibilità del legislatore di ampliare lo spettro dei beneficiari.
In effetti, le osservazioni sono riferibili ad un orientamento dottrinario non secondario, come surriferito, secondo il quale la distinzione operata dal costituente nel riferire certe affermazioni a «tutti» («quel “tutti” riguarda anche gli stranieri», intervento di Ruini, M., in Assemblea costituente, seduta del 23 maggio 1947, in La Costituzione, vol. III, p.1928) o ai soli «cittadini» «rappresenta un dato reale, di cui non è possibile non tener conto» (Stancati, P., Le libertà civili del non cittadino: Attitudine confermativa della legge, assetti irriducibili di garanzia, peculiarità degli apporti del parametro internazionale, in Associazione italiana dei costituzionalisti, in Annuario 2009. Lo statuto costituzionale del non cittadino, Napoli, 2010, pp. 26, 28).
Detto filone dottrinale fa leva soprattutto sul dettato dell’art. 10, co. 2, Cost., in base al quale «La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali»: (v. Esposito, C., Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della costituzione, in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, p. 24, n. 9). In particolare, la lettera di tale ultima disposizione, fa ritenere ad un’autorevole dottrina che in questo ultimo articolo sta «la norma-principio fondamentale ai fini della disciplina di quella che potrebbe definirsi “condizione di libertà del non cittadino”» (Zagrebelsky, G., Questioni di legittimità costituzionale della l. 3 febbraio 1963, n. 69, istitutiva dell’ordine dei giornalisti, in Giur. cost., 1968, p. 349 ss., spec. 350-351).
Ora, se di certo non pongono problemi interpretativi gli articoli della Carta costituzionale che non limitano la garanzia di determinati diritti ai soli cittadini, gli autori da ultimo richiamati ritengono che sia comunque possibile fare riferimento all’art. 2 Cost. (che riconosce il valore alla «persona umana») per estendere anche ai “non cittadini” la titolarità dei «diritti propriamente inviolabili» (Paladin, L., Il principio costituzionale di uguaglianza, Milano, 1965, pp. 208-210).
Diversa è l’impostazione di altra parte consistente della dottrina, per la quale chiave di volta delle questioni in esame è l’art. 3 Cost., a dispetto del suo testo: benché il principio di eguaglianza sia enunciato con riferimento ai (soli) cittadini, si è ritenuto che sarebbe immotivato e irragionevole limitarne l’operatività – soprattutto per ciò che concerne l’aspetto “formale” dell’eguaglianza davanti alla legge e, ancora di più, la «pari dignità sociale» – ai soli soggetti con lo status di cittadino (Lavagna, C., Basi per uno studio delle figure giuridiche soggettive contenute nella Costituzione italiana, in Id., Studi economico- giuridici, Padova, 1953, p. 14; v., per la giurisprudenza, C. cost., sentenza del 26.5.2006, n. 206 ed ordinanza del 31.10.2007, n. 361).
Questa posizione deve essere supportata da un’esegesi storico-genetica dell’art. 3 Cost. (v. tra l’altro, con riguardo al riconoscimento del principio di uguaglianza nell’art. 24 dello Statuto Albertino, Racioppi, F.-Brunelli, I., Commento allo Statuto del Regno, II, Torino, 1909, pp. 39-40), che non consente di riscontrare sia nella norma costituzionale in questione sia nei suoi antecedenti normativi di rango costituzionale - ci si riferisce al summenzionato art. 24 dello Statuto Albertino - una limitazione del principio di eguaglianza ai soli cittadini; né d’altro canto emerge dai lavori preparatori della Costituzione la volontà di restringere il contenuto del principio costituzionale in considerazione (Agrò, A.S., Art. 3, 1° comma, in Branca, G., a cura di, Commentario della Costituzione. Principi fondamentali, Bologna- Roma 1975, spec. p. 127).
Comunque è indubbiamente consona all’attuale contesto storico una lettura estensiva dell’art. 3, co. 1, Cost., nel senso appunto di applicare il principio di uguaglianza anche a tutti i non cittadini, ciò pure alla luce del concetto di cittadinanza che si è affermato nel diritto dell’Unione Europea e, in particolare, nella Carta dei diritti fondamentali di quest’ultimo ordinamento giuridico (artt. 39-46). La Corte costituzionale, non a caso, nelle proprie decisioni vede da tempo consolidata questa lettura estensiva. Si deve prendere comunque atto che, già a partire dagli anni ’60, il giudice delle leggi ha preso con chiarezza posizione, sostenendo che «se è vero che l’art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche vero che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattisi di rispettare [...] diritti fondamentali» (C. cost., 23.11.1967, n.120) e, pur con il trascorrere del tempo, ha nei fatti mantenuto la propria impostazione (C. cost. n. 104/1969, n. 144/1970, n. 109/1974, n. 199/1986, n. 244/ 1974, 215 e 490 del 1998, n. 62/1994, n. 432/2005, n. 249/2010): pur dovendo riconoscere e ammettere «il carattere tralatizio delle asserzioni impiegate» dalla Consulta nelle sue decisioni, il contenuto consolidato della giurisprudenza costituzionale è un dato di cui non si può non tenere conto.
L’interpretazione estensiva del principio di uguaglianza, inoltre, avviene attraverso il collegamento con gli artt. 2 (quando sia in gioco il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla disposizione) e 10, co. 2, Cost. (quando il caso ricada nell’ambito di consuetudini e trattati sui diritti umani). Come è stato correttamente notato, «se da una parte [la Corte] attenua la portata del dato testuale, estendendo anche ai non cittadini garanzie testualmente riferite ai soli “cittadini”, al tempo stesso precisa la portata di tale estensione, limitandola all’ambito dei “diritti inviolabili” garantiti dall’art. 2 Cost.». Ciò significherebbe che ai “non cittadini” sarebbero comunque garantiti «tanto i diritti fondamentali previsti dalle norme di diritto internazionale generale e dai numerosi trattati sui diritti umani ratificati dall’Italia, quanto i diritti fondamentali (non politici) garantiti dalla Costituzione» (v. Luciani, M., Cittadini e stranieri come titolari dei diritti fondamentali. L’esperienza italiana, in Riv. crit. dir. priv., 1992, p. 215, p. 222).
Il problema della concessione di alcuni diritti politici a stranieri non comunitari è divenuto anche in Italia di grande importanza. Tuttavia, la storia dei tentativi di allargamento della comunità politica è ben più lunga. Infatti, è ormai da un quarto di secolo che, legislatura dopo legislatura (con la sola eccezione della X), in Parlamento vengono presentati progetti di legge miranti a concedere, in diversa misura, alcuni diritti politici agli stranieri extracomunitari residenti in Italia.
Tuttavia, i primi progetti, che infatti, risalgono addirittura alle legislature degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta (dall’VIII alla XI), si sono bloccati presso la commissione Affari costituzionali, non approdando mai in Aula. Se è vero che l’esito di queste prime proposte non ha mai sortito risultati concreti, tuttavia un effetto, seppur minimo, sembrano averlo ottenuto: vale a dire, aver, almeno, sollevato il problema ed avergli dato una certa risonanza a livello politico. Ed infatti, lungo l’XI legislatura il progetto già ricordato non è l’unico ad essere presentato in materia, ma ad esso se ne affiancano altri provenienti, oltretutto, da aree politiche differenti.
Dopo un ulteriore tentativo, nel corso della XII legislatura, di modifica dell’art. 48 Cost., nella successiva legislatura, la XIII (1996-2001), sembrava essere maturato un contesto socio-politico indubbiamente più favorevole all’estensione di diritti politici agli immigrati regolari: da un lato, in- fatti, in seguito alla presenza sempre più massiccia e visibile di stranieri nella vita economica e sociale del Paese, si era consolidata la convinzione della necessità di una organica disciplina dell’immigrazione e, connesso ad esso, del problema dell’effettiva e reale integrazione degli immigrati nel tessuto sociale italiano.
Lasciando da parte l’ennesima proposta di modifica dell’art. 48 Cost., il momento più significativo (non solo della legislatura) del dibattito sull’estensione del voto amministrativo agli stranieri si ebbe con il procedimento che porta alla emanazione del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (d.lgs. 25.7.1998, n. 286). In effetti, se pure in questo atto non era prevista direttamente l’estensione del diritto di voto agli stranieri, tuttavia, il d.d.l. di legge delega al Governo, n. C3240, presentato il 19 febbraio 1997 (Bascherini, G., L’immigrazione e i diritti, in I diritti costituzionali, a cura di R. Nania-P. Ridola, V, I, Torino, 2006, p. 443), contemplava anche questa possibilità all’art. 38, a favore degli stranieri titolari di carta di soggiorno per le elezioni amministrative.
Tuttavia, prima del voto, l’art. 38 fu stralciato dalla legge di delega (l. n. 51/1998) e, quindi, il d.lgs. n. 286/1998 ha finito col non disciplinare in nessun modo la materia. Il testo unico riconosce agli stranieri un articolato catalogo di diritti civili e sociali che va ben oltre i diritti stabiliti in Assemblea costituente, da cui sono da ritenersi esclusi i diritti politici (Ciaurro, L., I diritti dello straniero, in Federalismi.it, 2008, pp. 28-29).
D’altro canto, l’estensione soggettiva, comprendente tutti gli stranieri senza distinzione, nonché il richiamo ai trattati e agli accordi internazionali (di per sé, chiaramente, inutile considerato l’art. 10, co. 2, e l’art. 11 Cost.), induce a considerare che, con questa nuova disposizione, i proponenti intendessero sia estendere il diritto di voto agli stranieri comunitari, sia fornire, ex post, una “copertura” costituzionale all’estensione dei medesimi diritti a favore dei cittadini europei, già avvenuta con legge ordinaria.
Per quanto riguarda i primi, i Paesi comunitari, con l’istituzione della cittadinanza europea nel 1992, hanno provveduto ad estendere il diritto di votare e di essere eletti nelle elezioni europee e amministrative ai cittadini degli altri Paesi aderenti. Inoltre, nella proposta di legge di iniziativa popolare n. 5031 del 6 marzo 2012, presentata nella XVI legislatura, si estende ai cittadini di paesi terzi regolarmente residenti il diritto di voto alle elezioni amministrative (artt. 2 e 3).
Il fenomeno migratorio sta assumendo proporzioni sempre più grandi tali da far avvertire questi cambiamenti epocali.
Le principali cause vanno ritrovate nel processo di globalizzazione e nella mobilità dell’economia dei capitali, cui si accompagna la sempre maggiore mobilità delle persone (v. ex multis Alston, P., Diritti umani e globalizzazione. Il ruolo dell’Europa, Torino, 1999 e Allegretti, U., Diritti e Stato nella mondializzazione, Troina (Enna), 2002, p. 243 ss.).
Nell’ordinamento dell’Unione Europea si è progressivamente attuata l’effettiva tutela dei diritti fondamentali.
L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona alla fine del 2009 con gli art. 2 (TUE), art. 6 ed art. 7, riprende ed in un certo modo amplifica non solo il loro riconoscimento, ma anche la loro tutela.
Oltre i testi normativi europei vi è stato il contributo della giurisprudenza della Corte di giustizia che sottolinea l’importanza di rispettare i diritti fondamentali di ogni individuo (v. da ultimo in particolare C. giust., 17.12.1970, Internationale Handelsgesellschaft, C-11/70). Peraltro nella Carta dei diritti fondamentali, proclamata dalla Commissione, dal Consiglio e dal Parlamento europeo il 7 dicembre nel 2007, non compare più la distinzione nei trattati europei e internazionali tra diritti civili, politici, sociali ed economici, e si elencano i diritti fondamentali facendo riferimento a valori generali fondamentali.
Analizzando il quadro normativo europeo e internazionale è facile osservare come non si siano sviluppate discipline in grado di influenzare le politiche nazionali in materie come quella della cittadinanza e dei diritti politici e di partecipazione dei migranti. (v. Benhabib, S., The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens, Cambridge, 2004).
Ciononostante, sono molti i principi espressi a livello sovranazionale che si muovono nel segno di una graduale estensione agli stranieri extracomunitari dei diritti di partecipazione politica (Habermas, J., Citoyenneté et identité nationale. Rèflexions sur l’avenir de l’Europe, in Lenoble, J.-Dewandre, H., (eds), L’’Europe au soir du siècle. Identité et démocratie, Paris, 1992, p. 38).
Si pensi, in primo luogo, all’art. 21 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nel quale si afferma che «ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese …» (Cholewinsky, R., Migrant workers in international human rights law. Their protection in countries of employment, Oxford, 1997).
Per quanto riguarda la titolarità dei diritti elettorali a livello locale, poi, il testo più importante resta ancora oggi la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale del Consiglio d’Europa, siglata a Strasburgo il 5 febbraio 1992 ed entrata in vigore nel maggio del 1997 (Bartole, S., La cittadinanza e l’identità europea, in Quaderni Costituzionali, 2000, p. 39).
Più di recente, il Consiglio d’Europa ha provato a rilanciare la questione della partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale, aprendo alla firma nel novembre del 2009 il Protocollo addizionale alla Carta europea dell’autonomia locale sul diritto di partecipare agli affari delle collettività locali.
Sebbene risulti certamente apprezzabile il tentativo di riportare d’attualità un tema ancora oggi fonte di accesi dibattiti, restano molte le criticità presenti, legate soprattutto all’efficacia del surriferito protocollo addizionale che è una Convenzione entrata in vigore nel giugno 2012.
Peraltro, nel contesto dell’Unione europea, il quadro di riferimento sconta ancora l’iniziale rilievo marginale attribuito alla migrazione delle persone. (v. Bascherini, G., Immigrazione e diritti fondamentali, Napoli, 2007, pp. 386 ss.).
L’azione delle istituzioni europee in tema di integrazione, in particolare politica, si è diretta in tal modo, in un primo momento, a definire i diritti politici dei cittadini comunitari e, solo successivamente, ad affrontare la questione dello status dei cittadini di Paesi terzi residenti in uno Stato dell’Unione e dei loro diritti politici (v. Palombella, G., Il significato costituzionale della cittadinanza Europea, in AA. VV., Europa: il momento costituzionale, Padova, 2005, 43 e ss.). In quest’ultimo ambito, le istituzioni europee non sono state del tutto assenti, ma si sono limitate di fatto alla sollecitazione delle iniziative da adottare, senza creare un coordinamento delle politiche nazionali (Hailbronner, K., Immigration and Asylum Law and Policy of the European Union, London, 2000). Questo ha fatto sì che solo alcuni Paesi abbiano concretamente seguito la direzione tracciata da tempo dal Comitato Economico e Sociale, dal Parlamento europeo e dalla Commissione, in tema di estensione del suffragio per gli stranieri dei Paesi terzi. Un fatto che non ha però dissuaso tali organismi dall’approvare una nutrita serie di atti che, seppure non giuridicamente vincolanti, hanno assunto nel corso del tempo una rilevanza non trascurabile. Si pensi, ad esempio, alla risoluzione n. 136 del 15 gennaio 2003 del Parlamento europeo (approvata nell’ambito della Relazione annuale sui diritti umani nell’Unione), con la quale si raccomanda agli Stati membri di estendere il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e del Parlamento europeo a tutti i cittadini di Paesi terzi che soggiornino legalmente nell’Unione europea da almeno tre anni. Si pensi, ancora, a quanto previsto all’interno dei “Principi fondamentali comuni dell’Unione europea in tema di integrazione”, adottati dal Consiglio Giustizia e Affari Interni nel 2004. Benché lo spazio di azione per politiche europee e di livello internazionale resti quindi tuttora alquanto limitato, non va sottovalutata la funzione “culturale” che simili documenti comunque esprimono, al fine di incentivare cambiamenti, se non nell’immediato, quantomeno in prospettiva futura. A tal scopo, appare necessario sottolineare la presenza a livello internazionale di vari dispositivi di democrazia diretta e (più spesso) partecipativa che sembrano ispirarsi e reggersi al principio di inclusione.
La situazione italiana relativa al riconoscimento ed alla garanzia di diritti di partecipazione politica agli stranieri extracomunitari risulta ancora oggi quantomeno poco soddisfacente. L’esclusione degli stranieri extracomunitari regolarmente soggiornanti sul territorio dal diritto di voto tanto per le elezioni politiche, quanto per quelle amministrative degli enti locali, rappresenta certamente uno dei maggiori elementi di criticità. La tendenza degli interventi in atto deve essere indirizzata non può allora attestarsi su posizioni meramente statiche, ma deve indirizzarsi verso «una progressiva ricongiunzione tra ‘Paese reale’ e ‘Paese legale’» (Zolo, D., Cittadinanza: storia di un concetto teorico-politico, in Filosofia politica, 1/2000).
Prima di esaminare le proposte di legge che riteniamo più rilevanti, tuttavia, è opportuno dare conto preliminarmente del dibattito dottrinale, circa la fonte necessaria per disciplinare il diritto di voto degli stranieri extracomunitari.
È opportuno rilevare come la dottrina prevalente ritenga che le disposizioni della Costituzione riguardanti i diritti fondamentali che non si riferiscono esplicitamente ai soli cittadini italiani, ma garantiscono un diritto in via generale “a tutti”, debbano ritenersi implicitamente applicabili anche agli stranieri.
Una prima tesi, risalente, considera tuttavia, come suscritto, i diritti politici esclusiva prerogativa dei cittadini (v. Barbera, A., Principi fondamentali. Art. 2, in Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, 80 ss. C. cost. sentt. n. 120/1967 e n. 104/1969), con la conseguenza che non sarebbe possibile estenderli agli stranieri neanche attraverso una legge di revisione costituzionale (v. Pace, A., Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, Padova, 2003, p. 317; Id., Dai diritti del cittadino ai diritti fondamentali dell’uomo, in Rivista Aic, 2010, p. 7); solo i diritti fondamentali universali, e non anche quelli politici, perciò, sarebbero riconosciuti a tutti, a prescindere dalla cittadinanza. (Brunelli, G., Minori immigranti, integrazione scolastica, divieto di discriminazione, in Dir. Imm. citt., 2010, p. 64).
Secondo altro autorevole indirizzo dottrinario, viceversa, si può ammettere l’estensione ai “non cittadini” dei diritti politici, in particolare del diritto di voto, anche se con modalità e forme del tutto differenti rispetto alla fonte competente ad estenderli, entro un quadro di riferimento piuttosto articolato (v. Cerri, A., L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Esame analitico ed ipotesi ricostruttive, Milano, 1976, pp. 75-76).
Peraltro, risulta da subito opportuno sottolineare come sia ormai pacifica la tesi che nega spazi di azione a livello decentrato. A seguito delle maggiori competenze assegnate ai comuni dal d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (“Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”, cd. “TUEL”), infatti, si erano susseguite varie iniziative volte ad allargare concretamente le maglie del diritto di elettorato attivo e passivo. Simili azioni, tuttavia, sono state ostacolate dall’intervento del Governo nazionale, il quale, agendo in sede di controllo di legittimità e con l’avallo sostanziale del Consiglio di Stato, ha di fatto impedito autonome deliberazioni sul punto da parte degli enti decentrati.
La situazione, però, non si presenta altrettanto chiara se si ha riguardo alla fonte di disciplina che dovrebbe essere utilizzata. La possibilità di estendere agli stranieri i diritti politici costituzionalmente riconosciuti ai cittadini italiani, nonché i limiti che tale possibilità incontra e la necessità o meno di ricorrere a norme di revisione costituzionale qualora tale estensione concerna il solo voto amministrativo negli enti locali o il voto nelle elezioni regionali, costituiscono temi da tempo dibattuti.
La riflessione costituzionalistica sul punto, ha fatto emergere diversi orientamenti.
L’interpretazione che ad oggi risulta maggioritaria reputa le attuali previsioni costituzionali non in grado di consentire, senza apposita revisione della Costituzione, l’estensione agli stranieri del riconoscimento dei diritti propriamente politici, il cui esercizio dovrebbe pertanto intendersi riservato ai cittadini italiani (v. Schmitt, C., Dottrina della Costituzione, 1928, trad. it., Milano, 1984, p. 221; su questa posizione, v. Mortati, C., Istituzioni di diritto pubblico, II, Padova, 1976, p. 1153-1154. v. Mazziotti di Celso, M., Sulla soggettività e tutela dello straniero nell’ordinamento italiano, in AA. VV, Studi in memoria di Gaetano Serino, Milano, 1966, p. 316).
Questo con particolare riferimento al diritto di elettorato attivo e passivo (articolo 48 della Costituzione), della facoltà di richiedere i referendum previsti dagli articoli 75 e 138 della Costituzione, del diritto di rivolgere petizioni alle Camere (articolo 50), del diritto all’accesso alle cariche elettive ed agli uffici pubblici (articolo 51). Il diritto di voto locale e regionale, perciò, potrebbe essere legittimamente riconosciuto agli stranieri, ma solo attraverso l’approvazione di un’apposita legge costituzionale.
Appare diversamente orientata, invece, la tesi (v. Luciani, M., Il diritto di voto agli immigrati: profili costituzionali, in Partecipazione e rappresentanza politica degli immigrati, Atti del 21 giugno 1999, Dipartimento Affari sociali Roma, p. 30 ss.), che, basandosi sulla distinzione tra “voto politico” e “voto amministrativo”, considera possibile estendere quest’ultimo anche agli stranieri extracomunitari senza che sia necessaria l’approvazione di una riforma costituzionale.
Infatti, lo stesso illustre autore, sostiene (v. Luciani, M., Cittadini e stranieri, op. cit., 203 ss.) che la scelta sull’estensione del diritto di voto (tanto “politico” quanto “amministrativo”) agli stranieri sarebbe essenzialmente rimessa alla discrezionalità politico-parlamentare: sembra infatti «tutto da verificare se, in una Costituzione imperniata sull’affermazione della sovranità popolare e sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, il diritto di voto non debba ritenersi un diritto fondamentale ed inviolabile al pari di alt per quanto costituzionalmente garantito ai (soli) cittadini, non esclude una possibile estensione, per via di legislazione (anche ordinaria) a (particolari categorie di) non cittadini».
Infine, secondo un’interpretazione ancora più “aperta” delle previsioni costituzionali vigenti (v. Algostino, A., Il ritorno dei meticci: migranti e diritto di voto, in Gambino, S.-D’Ignazio, G., a cura di, Immigrazione e diritti fondamentali. Fra Costituzioni nazionali, Unione europea e diritto internazionale, Milano, 2010, pp. 455 e 456), lo straniero stabilmente residente sarebbe già titolare del diritto di voto: quest’ultimo, infatti, dovrebbe essere riconosciuto quale necessaria implicazione della proclamazione, nell’articolo 1 della Costituzione, del principio democratico, imponendo così «di considerare irrilevante (o di superare) la lettera dell’articolo 48 Costituzione, pena la perdita di democraticità dello Stato» (v. Cuniberti, M., La cittadinanza, cit., p. 200). Più precisamente, si è sostenuto che l’intitolazione ai ‘cittadini’ del diritto di voto possa (v. Algostino, A., Il ritorno dei meticci, op. cit. p. 455 e 456), o meglio debba, essere superata, se si ragiona coerentemente rispetto alle norme costituzionali che sanciscono il principio democratico, o riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo.
In primo luogo, per la debolezza della mera interpretazione letterale: come già detto, il termine “cittadini” utilizzato in varie disposizioni costituzionali non sembra poter sancire in modo assoluto l’esclusione degli stranieri, dovendo farsi riferimento anche ad un’interpretazione logica o sistematica.
In secondo luogo, perché secondo una consolidata interpretazione giurisprudenziale, i diritti fondamentali dovrebbero essere garantiti a tutti, senza che si possano fare distinzioni tra cittadini e non cittadini, ex artt. 2 e 3 della Costituzione. Rispetto ai diritti politici, tuttavia, viene messa tradizionalmente in dubbio proprio tale qualità: essi sarebbero di per sé diritti del “cittadino” e non tanto diritti della “persona umana”. (v. Corte costituzionale: C. cost. sentt. n. 11/1968 e n. 104/1969). Ma, oggigiorno, da più parti si rileva come il collegamento tra cittadinanza e diritti (in primo luogo politici) non abbia nulla di ontologico o necessitato, visto che alcuni diritti considerati di cittadinanza in certi ordinamenti in altri sono riconosciuti come diritti della persona o viceversa (Cuniberti M., op. cit., p. 200). Non si capisce allora la ragione per la quale taluni diritti (e doveri) “non politici” e tradizionalmente qualificati come civili e sociali, strettamente connessi alla partecipazione dell’individuo alla vita della comunità, sono riconosciuti dall’ordinamento allo straniero, a differenza di quelli politici.
L’imposizione di un accesso differenziato degli stranieri al godimento di tali diritti, pertanto, non sembra trovare un riscontro certo e convincente all’interno del testo costituzionale, consentendo a nostro avviso scelte di tipo “estensivo” da parte del legislatore ordinario.
In terzo luogo, per la formulazione degli articoli 48 e 51 della Costituzione, i quali, garantendo ai cittadini il diritto di voto e di accesso agli uffici pubblici, sembrano proibire al legislatore ordinario di impedirne l’esercizio al cittadino, ma non vieterebbero che entro i confini della ragionevolezza si possa intervenire con legge ordinaria per estendere tali diritti anche allo straniero. E ciò anche e soprattutto grazie al possibile riferimento all’articolo 10, co. 2, della Costituzione, il quale dispone che «la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali».
In quarto luogo, perché la Corte costituzionale ha più volte riconosciuto (C. cost. 372 e 379 del 2004) che solo il Parlamento nazionale esercita la sovranità (e non i consigli regionali e comunali) di cui è titolare solo il popolo italiano nella sua interezza, non potendo le molteplici comunità territoriali esistenti assurgere a questa qualifica. Se ciò è fondato, soltanto il diritto di voto per le elezioni politiche nazionali risulta direttamente connesso al concetto di sovranità.
In quinto luogo, per la forte connessione che sembra esistere tra residenza e diritto di voto: di recente, ad esempio, la Corte europea dei diritti dell’uomo (con la sentenza Shindler v. the United Kingdom del 7 maggio 2013) ha valutato una normativa britannica che limitava il diritto di voto - dichiarandolo decaduto in caso di mancata presenza nel Paese per più di 15 anni - proporzionata e legittima, visto il collegamento che sussiste tra voto e territorio; ma se è ragionevole (in base alla pronuncia della CEDU) limitare il diritto di voto in caso di assenza di una stretta connessione col territorio, ragionando a contrario appare ancor più ragionevole estendere tale diritto ai soggetti che una simile connessione possono vantarla, come gli stranieri extracomunitari residenti da un periodo minimo di tempo.
Come rilevato in precedenza, sebbene la teoria che nega il possibile intervento per il tramite della legge ordinaria non sia del tutto convincente, resta tuttora questa l’interpretazione maggioritaria. Ciò ha comportato, di conseguenza: l’abbandono (o la riformulazione “restrittiva”) nel corso del tempo di alcuni progetti di legge ordinaria e di vari disegni di legge di revisione costituzionale.
Concentrandoci sui progetti presentati più di recente, giova subito sottolineare come, sebbene il loro scopo di fondo risulti sostanzialmente il medesimo, ossia quello di estendere i diritti politici degli stranieri extracomunitari, le proposte abbiano contenuti in parte differenti. In un caso, ci si limita alla modifica del solo articolo 48 della Costituzione, introducendo direttamente nel testo costituzionale l’estensione del suffragio; in altri casi, invece, le proposte hanno un contenuto più articolato, proponendosi la modifica sia dell’articolo 48 che dell’articolo 51 della Costituzione, salvo poi rimettere al legislatore ordinario la scelta su aspetti fondamentali della disciplina; in un ultimo caso, infine, si interviene oltre che sull’articolo 48 della Costituzione, estendendo l’elettorato attivo e passivo degli stranieri in linea con il concetto di “cittadinanza civile”, anche sull’articolo 75 in tema di referendum abrogativo.
Si tratta chiaramente di proposte che condividono l’intento di estendere l’elettorato attivo e passivo degli stranieri extracomunitari, ma che se approvate produrrebbero effetti differenti: alcune delle proposte esaminate (in particolare l’AC 908 e l’AS 640), vista la loro evidente genericità, demanderebbero alle scelte future del legislatore ordinario la loro reale portata ed efficacia; potrebbero consentire l’approvazione di discipline dal contenuto ampio e “inclusivo” (similmente a quanto prospettato con il progetto AC 889), ma anche, al contrario, venire del tutto depotenziate se la legge di attuazione non fosse approvata o prevedesse una normativa restrittiva.
La terza proposta esaminata, AC 176, risulta, da questo punto di vista, quella più estensiva: questa, infatti, mira ad inserire nella Costituzione italiana il concetto di “cittadinanza civile”.
Ciò che risulta assente, nelle proposte esaminate, è però l’ambizione di riformare l’intera materia dei diritti politici presenti in Costituzione illuminandola in una prospettiva più “inclusiva”.
La Corte costituzionale ha affermato in più occasioni, che a tutti gli individui in quanto tali sono riconosciuti i diritti inviolabili dell’uomo «che appartengono all’uomo in quanto essere libero». (cfr. C. cost., sent. n. 40 del 2011 e n. 432 del 2005). Con la già citata sentenza 120 del 1967, e con la giurisprudenza successiva, la Corte ha, infatti, esteso l’applicabilità del principio d’eguaglianza anche agli stranieri. (v. pure C. cost., sent. n. 46/1977 e n. 54/1979).
E tale garanzia deve operare a prescindere dalla regolarità della posizione dello straniero. Così, nella più recente sent. 252 del 2001 viene riconosciuto che il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è “costituzionalmente condizionato” dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di “un nucleo irriducibile del diritto alla salute” protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana; nucleo irriducibile che «deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato. Analogamente, in materia di libertà personale, la Corte ha precisato che le garanzie di cui all’art. 13 della Costituzione non possono subire attenuazioni rispetto agli stranieri, considerato “il carattere universale della libertà personale”, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica ma in quanto essere umani.
Lo straniero, anche irregolarmente presente sul territorio, ha inoltre diritto di accedere alle misure alternative alla detenzione poiché, alla luce dei principi costituzionali dell’uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena, nessuna discriminazione può essere compiuta di con riguardo all’ordinamento penitenziario. (v. Luciani, M., Il diritto di voto agli Immigrati: profili costituzionali, in Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, Partecipazione e rappresentanza politica, Roma, 1999).
Nell’ambito dei rapporti familiari, la Corte ha poi riconosciuto il diritto dello straniero all’unità familiare. (v. sent. n. 28/1995; 203/1997; 376 e 379/2000; 224/2005; ord. n. 464/2005).
Quindi, la giurisprudenza costituzionale si è trovata nel corso degli anni ad affermare la spettanza in capo agli stranieri di numerosi diritti e libertà fondamentali.
Da tale quadro risultano tuttavia esclusi i diritti politici, per i quali, più di ogni altro diritto, risulta costantemente dirimente il collegamento tra la persona e lo Stato, assicurato appunto dalla cittadinanza. La motivazione che tradizionalmente viene addotta a sostegno di tale limitazione risiede nell’individuazione di un principio costituzionale implicito, secondo il quale l’esercizio dei diritti politici è intrinseco alla cittadinanza, in base all’appartenenza al popolo della sovranità. Come noto, l’ostacolo principale a tale estensione risiede nel riferimento testuale che l’art. 48 Cost., in materia di diritto di voto, fa ai cittadini (v. D’Orazio, G., Lo straniero nella Costituzione italiana, Padova, 1992, pp. 307 ss.).
Ci si è infatti chiesti se da tale disposizione consegua l’esclusione del diritto per chi cittadino non è, o se invece essa abbia portata esclusivamente positiva, lasciando impregiudicata la possibile estensione allo straniero. Al riguardo è significativo notare come in dottrina tale seconda posizione sia stata sostenuta sulla base di una giurisprudenza costituzionale che, sebbene riferita all’area degli obblighi costituzionali, è stata estesa all’ambito dei diritti. Si tratta in particolare della sentenza 172 del 1999 con la quale la Corte dichiarò conforme a Costituzione la previsione dell’obbligo della leva militare anche in capo agli apolidi in quanto «parti di una comunità di diritti e di doveri, più ampia e comprensiva di quella fondata sul criterio della cittadinanza in senso stretto».
In altre occasioni è stata tuttavia la stessa Corte ad aver individuato il proprium della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo in «tutti quei fondamentali diritti democratici che non siano strettamente inerenti allo status civitatis» (C. cost. 11/1968), sottolineando quindi le peculiarità dello status dello straniero rispetto a quello del cittadino. (contra Cuniberti, M., L’illegittimità costituzionale dell’esclusione dello straniero dalle prestazioni sociali previste dalla legislazione regionale, in Le Regioni, 2006, pp. 510-531).
Quindi, alcuni autori sostengono, come surriferito, che il riconoscimento dei diritti politici allo straniero debba passare necessariamente attraverso una modifica costituzionale; altri affermano, invece, che è sufficiente un’estensione della titolarità dei diritti in considerazione ai “non cittadini” attuata in via legislativa (v. Corsi, C., Lo Stato e lo straniero, cit., pp. 292 ss., p. 430), così come avvenuto per i cittadini comunitari nelle elezioni amministrative. Oltre al richiamato dibattito dottrinario, quello che rileva ai fini della nostra indagine è il rinnovato interesse per il tema, che è indicativo delle profonde trasformazioni in corso dello Stato costituzionale pluralista nel quadro della complessa dialettica tra governanti e governati.
Art. 2, 3, 10, 11, 48, 51, 75, 138 Cost.; artt. 2, 6 e 7 Trattato di Lisbona del 2009 (TUE); art. 21 Dichiarazione Universale 10 dicembre 1948; D. lgs n. 267 del 2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, c.d. “TUEL”), d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286; proposte di modifiche normative: AC (Atti Camera) 908 (del 2013 proposta dall’on. Migliore), Ac 176 (del 2013 proposta dall’on. Pisicchio), AC 889 (del 1994, proposta dall’on.Bassanini), AS (Atti Senato) 640 (del 2013, proposta dal Sen.De Petris); D.d.l. di delega al Governo n.C3240, presentato il 19 febbraio 1997 dagli on.li Turco e Napolitano).
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