DIRITTI UMANI
I diritti umani ‘di prima e seconda generazione’. I diritti umani ‘di terza e quarta generazione’. I crimini contro l’umanità. Cenni sulla repressione dei crimini. Bibliografia
I diritti umani ‘di prima e seconda generazione’. – A oltre sei decenni dalla Dichiarazione universale dei diritti del-l’uomo, adottata dall’Assemblea generale (AG) dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) nel 1948, le norme per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali degli individui si sono moltiplicate in tutti gli ordinamenti giuridici. Molto consolidati sono, in particolare, i contenuti dei due Patti dell’ONU del 1966, l’uno sui diritti civili e politici – cd. diritti umani di prima generazione (di originaria matrice occidentale) – quali il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla libertà personale, di pensiero, di religione; l’altro sui diritti economici, sociali e culturali – o di seconda generazione (propugnati, alla data, dai Paesi socialisti) – come il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione.
Tali diritti devono essere riconosciuti dagli Stati a tutti gli individui sottoposti alla loro giurisdizione o al loro controllo, indipendentemente dalla nazionalità e senza discriminazione in base a razza, sesso, lingua, religione o su qualunque altra base (principio già sancito nell’art. 1, par.3, della Carta dell’ONU). È stata così superata l’impostazione tradizionale, secondo la quale il diritto internazionale si limitava a imporre agli Stati alcuni standard di trattamento degli stranieri, quale riflesso del rispetto dovuto alla sovranità degli altri Stati, astenendosi, viceversa, dal disciplinare il rapporto tra autorità statali e cittadini, considerato di competenza esclusiva dello Stato nazionale.
Resta il fatto che, mentre l’attuazione dei diritti civili e politici comporta generalmente soltanto obblighi di astensione, quella dei diritti economici, sociali e culturali richiede che le autorità statali si adoperino per realizzarne il godimento effettivo, mediante leggi e politiche adeguate: per questo, essi sono detti diritti di realizzazione progressiva, commisurata al grado di sviluppo dei singoli Stati, con ovvie differenze tra Paesi in via di sviluppo e Paesi industrializzati. A ciò, tuttavia, non corrisponde una gerarchia o un ordine di priorità, poiché nel diritto internazionale tutti i diritti umani sono considerati indivisibili.
Un ruolo fondamentale in questa materia è svolto da un certo numero di trattati promossi dall’ONU e ratificati da quasi tutti gli Stati. Molti di essi sono finalizzati alla protezione dei diritti di categorie di persone vulnerabili. Sebbene, infatti, queste godano, come tutti gli individui, dei diritti riconosciuti dai Patti del 1966 e da trattati di applicazione regionale (in Europa, anzitutto la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – CEDU – del 1950), lo sviluppo di norme più specifiche è ritenuto utile in ragione delle peculiari condizioni che espongono certe persone a maggior pericolo di discriminazione e di violazioni sistematiche. A detta finalità sono rivolte le Convenzioni ONU sullo status dei rifugiati del 1951 (con il Protocollo del 1967); sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965; sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna del 1979; sui diritti del fanciullo del 1989 (con due Protocolli del 2000, relativi l’uno al coinvolgimento di bambini nei conflitti armati, l’altro alla vendita di bambini e alla prostituzione e pornografia minorili). A esse si è aggiunta la Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, in vigore dal 2008. Caratterizzata dal fatto di considerare la disabilità non alla stregua di un problema sanitario, bensì sotto il profilo dell’obbligo degli Stati di rimuovere gli ostacoli alla piena esplicazione della personalità degli individui disabili, la Convenzione configura l’azione statale in questo campo quale politica da integrare trasversalmente nelle politiche generali di sviluppo (mainstreaming). Lo scopo è di realizzare il diritto delle persone con disabilità alla dignità, alla non discriminazione e al pieno inserimento nella vita economica, sociale e culturale della collettività nazionale.
Altrettanto ricca è la prassi regionale, soprattutto nell’ambito europeo, che beneficia dell’azione propulsiva del Consiglio d’Europa (CdE). A questa organizzazione inter-governativa fondata nel 1949 si deve infatti, oltre alla CEDU e alla Carta sociale europea (conclusa nel 1961 e riveduta nel 1999), un cospicuo numero di altri trattati. Fra i più recenti, sono volti a fronteggiare fenomeni di violenza contro persone vulnerabili la Convenzione di Lanzarote per la protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali, in vigore dal 2010, e la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, in vigore dal 2014. Quanto al diritto dell’Unione Europea (UE), i Trattati istitutivi incorporano i valori della democrazia, dei diritti umani e dello Stato di diritto, comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Più specificamente, la Carta dei diritti fondamentali della UE riprende i principi della CEDU e della Carta sociale europea; adottata a Nizza nel 2000, quale strumento giuridicamente non vincolante, essa ha assunto per gli Stati membri della UE lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009.
L’insieme delle convenzioni richiamate, nonché l’esistenza di due corti regionali – la Corte europea dei diritti umani (Corte EDU) e la Corte di giustizia della UE –, fanno sì che in Europa il livello di tutela dei diritti umani sia molto elevato. Analoghi sistemi convenzionali operano, però, in quasi tutte le regioni del mondo. Al riguardo sono da menzionare: la Convenzione americana dei diritti dell’uomo, conclusa nel 1969 a San José (Costa Rica) dagli Stati membri dell’OAS (Organization of American States) e istitutiva dell’omonima Corte regionale; la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981, promossa dall’Organizzazione per l’unità africana – oggi Unione Africana (UA) – con il Protocollo addizionale che ha istituito l’omonima Corte regionale (in vigore dal 2004); la Carta araba dei diritti umani, la cui prima versione, adottata nel 1994 dal Consiglio della Lega araba e mai ratificata, è stata sostituita da una nuova versione, in vigore dal 2008.
Il sistema africano, in particolare, si è rafforzato a seguito della creazione della UA (2002), estendendo, tra l’altro, la base convenzionale per la protezione di quei diritti umani collettivi e di solidarietà, cd. di terza generazione, inizialmente affermati dagli Stati sorti dalla decolonizzazione.
I diritti umani ‘di terza e quarta generazione’. – I diritti umani cd. di terza generazione comprendono l’autodeterminazione dei popoli, il diritto alla pace, allo sviluppo, a un ambiente sano. Tuttavia, a parte il principio di autodeterminazione – già proclamato nella Carta dell’ONU e nell’art. 1 comune ai Patti del 1966 e le cui gravi violazioni costituiscono un crimine contro l’umanità (v. infra) – tali diritti continuano a configurarsi in modo problematico. Le incertezze riguardano, in particolare, la titolarità dei diritti (si tratta in maggioranza di diritti dei popoli, più che degli individui), l’identificazione dei soggetti cui incombe il corrispettivo obbligo di attuazione e la cd. giustiziabilità, ossia la possibilità di farli valere davanti a un giudice o a istanze non giurisdizionali (quali il Consiglio dei diritti umani dell’ONU, che dal 2006 ha sostituito la preesistente Commissione dei diritti umani, o i comitati di controllo con poteri conciliativi istituiti da quasi tutti i trattati ONU già citati).
Un elemento a favore dell’affermazione di diritti collettivi è la Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni dell’AG dell’ONU (2007). Essa riconosce il diritto dei membri di tali popoli di godere – individualmente e collettivamente – dei diritti umani, senza discriminazione e su base di eguaglianza con gli altri popoli. Tra i diritti proclamati nella Dichiarazione, il diritto a una nazionalità è sicuramente individuale; collettivi sono invece i diritti di vivere in libertà, pace e sicurezza; di non essere oggetto di atti genocidiali (v. infra) o altre forme di violenza; di non essere assimilati ad altre popolazioni e di mantenere la propria cultura tradizionale. Attesa da oltre un ventennio e simbolicamente riparatrice delle brutalità e discriminazioni subite da molti popoli autoctoni di territori già sottoposti a conquista e dominazione coloniale, la Dichiarazione non sembra però rispecchiare una prassi generalizzata, né è in grado, quale mera raccomandazione dell’AG, di creare obblighi giuridici per gli Stati. A diritti collettivi e solidaristici fanno peraltro riferimento varie costituzioni nazionali (tra le più innovative, quelle di Ecuador e Bolivia, in vigore rispettivamente dal 2008 e dal 2009).
Diverso, ma ugualmente incerto per la presente incompletezza dei regimi applicabili, è lo stato di una ‘quarta generazione’ di diritti umani, la cui considerazione si è imposta a seguito di recenti sviluppi scientifici e tecnologici. La Convenzione di Oviedo cd. sulla biomedicina, conclusa per impulso del CdE e in vigore dal 1999, è volta a preservare la dignità umana e le libertà fondamentali contro abusi derivanti da nuove applicazioni della biologia e della medicina. Essa stabilisce, tra l’altro, il principio del previo consenso informato per l’effettuazione di qualsiasi intervento relativo alla salute umana. Al presente, tuttavia, la regolamentazione dei potenziali conflitti tra libertà individuali e interesse pubblico alla tutela di valori etici collettivi (bioetica) resta principalmente affidata alla legislazione e alla prassi giurisprudenziale degli Stati.
Al CdE si deve altresì il primo trattato sugli illeciti penali via Internet, la Convenzione europea sulla criminalità informatica in vigore dal 2004, finalizzata al contrasto di alcune tipologie di illeciti commessi mediante reti telematiche nonché di atti lesivi della sicurezza delle reti stesse (pirateria informatica). A sua volta, la Carta dei diritti fondamentali della UE, in linea con la normativa europea in tema di privacy, proclama il diritto degli individui alla riservatezza dei dati personali (art. 8).
Alcuni diritti umani di terza e quarta generazione sono inoltre oggetto di tutela giurisdizionale mediante un’interpretazione estensiva di diritti più consolidati. Nella giurisprudenza della Corte EDU, per es., atti lesivi della qualità dell’ambiente umano e così pure irragionevoli restrizioni di legge all’accesso a tecniche di procreazione medicalmente assistita sono stati censurati come violazioni del diritto al rispetto della vita privata e familiare (v., tra gli altri, i casi Di Sarno e Costa e Pavan del 2012, riguardanti l’Italia). Analogamente, il principio della ‘parità di genere’ è oggi interpretato in modo da contrastare non solo la discriminazione nei confronti delle donne, ma – più ampiamente – quella fondata sulla differenza di genere e sull’orientamento sessuale.
La giurisprudenza delle corti internazionali si riflette nel diritto interno degli Stati. In Italia, la Corte costituzionale ha precisato, con due importanti sentenze (24 ott. 2007 nrr. 348 e 349), che i giudici nazionali sono tenuti ad applicare le disposizioni della CEDU nell’interpretazione data dalla Corte EDU; in caso di conflitto tra disposizioni della CEDU e una norma interna, essi devono sforzarsi di interpretare quest’ultima in modo compatibile con la CEDU e, se ciò non è possibile, sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l’art. 117, 1° co. della Costituzione, che impone al legislatore il rispetto degli obblighi internazionali. In futuro, inoltre, il Protocollo nr. 16 alla CEDU – concluso nel 2013 e non ancora in vigore – consentirà alle corti degli Stati parti di consultare la Corte EDU circa l’interpretazione di disposizioni della CEDU che rilevino nel procedimento nazionale (cd. rinvio pregiudiziale).
Gli indicati progressi normativi e giurisprudenziali non escludono che i diritti umani siano ovunque a rischio di violazioni. Basti pensare che gli Stati, nell’aderire alle convenzioni ONU, possono formulare riserve che, in certi casi, sono così ampie e numerose da vanificare le finalità del trattato (tale è il caso della Convenzione contro la discriminazione nei confronti delle donne). Inoltre, l’applicazione delle norme è ovunque condizionata da fattori extragiuridici. In Europa, per es., la presente crisi economica, unita all’aumento della disoccupazione e della povertà e alla riduzione delle prestazioni sociali, sta ponendo a rischio il godimento effettivo dei diritti sociali, incidendo anche sulla loro tutela giudiziale (v. la sentenza della Corte di giustizia UE del 2014 nel caso Dano, che ha dichiarato compatibili con il diritto della UE alcune disposizioni della legislazione tedesca che, in date circostanze, escludono i cittadini di altri Stati membri da prestazioni sociali di base).
I crimini contro l’umanità. – Le gravi e massicce violazioni di diritti umani fondamentali sono considerate crimini contro l’umanità. Tale categoria, introdotta dall’Accordo di Londra del 1945 istitutivo del Tribunale di Norimberga, comprende condotte criminose che, a differenza dei crimini di guerra, possono essere tenute anche in tempo di pace. Le norme del diritto internazionale che le vietano sono di sicura natura consuetudinaria e ritenute, anzi, tra le poche norme imperative e inderogabili (ius cogens internazionale).
Ciò riguarda, in particolare: il colonialismo e altre gravi violazioni del principio di autodeterminazione; il genocidio; lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione, il lavoro forzato; la segregazione razziale; la tortura e altri atti disumani. A questi crimini, contemplati da trattati risalenti (Convenzioni ONU contro il crimine di genocidio del 1948, contro il crimine di apartheid del 1973, contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984), si ricollegano una prassi e un convincimento giuridico degli Stati molto consolidati (cd. core crimes).
La stessa circostanza non si dà per altri comportamenti ugualmente lesivi di diritti umani, la cui prevenzione e repressione è affidata prevalentemente a norme convenzionali (treaty crimes). Tra questi è il terrorismo internazionale, del quale non vi è ancora una definizione universalmente accettata (fra i trattati applicabili, v. le Convenzioni ONU sull’eliminazione del finanziamento del terrorismo e sugli atti di terrorismo nucleare). Lo stesso vale per nuovi fenomeni di schiavitù di fatto, causati da massicce violazioni dei diritti dei migranti e da altri traffici illeciti di organizzazioni criminali (Convenzione ONU di Palermo contro la criminalità organizzata transnazionale del 2000, con i Protocolli sulla tratta di persone, sul traffico di migranti e sul traffico di armi; Convenzione del CdE sul contrasto della tratta di esseri umani, in vigore dal 2008).
Analogamente, la Convenzione ONU per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata, in vigore dal 2010, si applica alla pratica disumana dei desaparecidos, utilizzata dai passati regimi dittatoriali di Argentina e Cile e in altri Paesi dell’America Latina. Gravemente lesiva di numerosi diritti umani, essa consiste, secondo la Convenzione, nell’arresto, detenzione, sequestro o qualsiasi altra forma di privazione della libertà da parte di agenti dello Stato, o di persone che agiscono per conto o con l’acquiescenza dello Stato, a cui faccia seguito il rifiuto di riconoscere la privazione della libertà o il silenzio sulla sorte della persona sparita, così da collocare quest’ultima al di fuori della protezione del diritto. Gli Stati parti sono tenuti a qualificare la sparizione forzata come illecito penale nel diritto interno e a sanzionarla con pene adeguate. Alle vittime e ai familiari deve essere garantito il diritto di conoscere la verità, nonché un equo indennizzo e la riabilitazione dell’onorabilità o della memoria delle vittime. Inoltre, i figli dei desaparecidos non possono essere separati dalle famiglie e mantengono il diritto alla loro identità. In base alla Convenzione, se diffusa o sistematica, la pratica delle sparizioni forzate è un crimine contro l’umanità (nello stesso senso, già l’art. 7 dello Statuto della Corte penale internazionale, in vigore dal 2002).
Cenni sulla repressione dei crimini. – I crimini contro l’umanità si configurano come un illecito internazionale dello Stato di particolare gravità, da cui discende una responsabilità aggravata rispetto a quella per illecito ordinario. Quanto alle contromisure, è invalsa la pratica del Consiglio di sicurezza (CdS) dell’ONU di qualificare atti genocidiali e altri crimini contro l’umanità sul territorio di Stati membri come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali, con la conseguente applicazione di sanzioni coercitive, anche militari, ex cap. VII della Carta. Incerta è invece l’esistenza di una regola di diritto internazionale generale che, in caso di inerzia del CdS e se non vi è altro mezzo per porre fine a crimini, consentirebbe agli Stati di adottare unilateralmente misure militari, in deroga al divieto assoluto e generale dell’uso della forza posto dalla Carta dell’ONU e dal diritto consuetudinario. Questa tesi, prospettata a partire dall’intervento della NATO in Kosovo nel 1999, sembra ora cedere il passo alla dottrina della responsibility to protect, di cui casi di applicazione si sono avuti in relazione a crimini commessi nella Costa d’Avorio (2010) e in Libia (2011). Secondo tale dottrina, la responsabilità di proteggere la popolazione civile incombe anzitutto sullo Stato territoriale; a certe condizioni e con date modalità, essa si estende agli altri Stati e alle competenti organizzazioni universali e regionali.
I crimini contro l’umanità comportano, inoltre, la responsabilità penale personale degli individui che li commettono; ciò, in deroga alla cd. immunità funzionale, anche quando essi siano organi statali (v. corte penale internazionale). È dubbio, al presente, se analoga deroga debba o possa operare rispetto all’immunità degli Stati dalla giurisdizione interna degli altri Stati. Una recente giurisprudenza – di cui è stata capofila la sentenza dell’11 marzo 2004 nr. 5044 della Cassazione italiana nel caso Ferrini – ha affermato la giurisdizione dei tribunali nazionali nei confronti della Germania nei procedimenti per il risarcimento di danni causati a cittadini o ai loro eredi da crimini di guerra e contro l’umanità, durante la Seconda guerra mondiale. Tale orientamento è fondato principalmente sull’assunto che il divieto di crimini, in quanto imperativo, debba prevalere sulla norma consuetudinaria relativa all’immunità degli Stati, che non è provvista della stessa efficacia rafforzata. La tesi non è stata accolta dalla Corte internazionale di giustizia (CIG) nella sentenza del 2012, con la qua le – su richiesta della Germania – essa ha invece constatato una violazione della norma sull’immunità degli Stati da parte dell’Italia. In seguito, però, la Corte costituzionale, con decisione in parte innovativa (sentenza 22 ott. 2014 nr. 238), ha dichiarato la sentenza della CIG ineseguibile in Italia, in quanto contraria a valori fondamentali dell’ordinamento nazionale (diritti inviolabili e diritto alla tutela giurisdizionale, ex artt. 2 e 24 della Costituzione).
Bibliografia: A. Cassese, I diritti umani oggi, Roma-Bari 2005, 20133; A. Marchesi, La protezione internazionale dei diritti umani. Nazioni Unite e organizzazioni regionali, Milano 2011; Securing human rights. Achievements and challanges of the UN Security Council, ed. B. Fassbender, New York 2011; La cooperazione fra Corti in Europa nella tutela dei diritti dell’uomo, Atti del Convegno interinale SIDI, Cosenza 12 aprile 2010, a cura di M.Fragola, Napoli 2012; C. Focarelli, La persona umana nel diritto internazionale, Bologna 2013; R. Cadin, “We have an African dream”. Sviluppi istituzionali e giurisprudenziali del sistema africano di protezione dei diritti umani e dei popoli, in Scritti in memoria di Maria Rita Saulle, 2 voll., Napoli 2014, pp. 195-225.