Diritto all’abitare
L’abitare e i diritti sociali
Peripezie dei diritti sociali
Nelle carte costituzionali del secondo dopoguerra, sebbene molte e autorevoli fossero le voci perplesse e pessimistiche, l’apertura di credito a un futuro in cui libertà e giustizia fossero finalmente unite e non contrapposte prevalse sui timori delle contraddizioni e dei compromessi paralizzanti o destabilizzanti.
I ‘diritti sociali’ furono riconosciuti. Un posto eminente fra questi fu attribuito al ‘diritto all’abitare’.
Prese a delinearsi, a quel punto, una storia travagliata: irta di lacune, di antinomie e di sconfitte. E le tante zone d’ombra parvero confermare, nel complesso, la pur sospetta diffidenza dei giuristi, i quali avevano avversato la nuova categoria o ne avevano denunciato la fragilità.
Proprio all’inizio dell’ultimo decennio del 20° sec. (e nella cornice di un’opera subito famosa, che, pure, non aveva esitato a descrivere l’attuale temperie nei termini di una «età dei diritti») fu tracciato un bilancio impietoso: «La maggior parte dei diritti sociali è rimasta sulla carta. L’unica cosa che si può dire è che sono l’espressione di aspirazioni ideali cui dare il nome di ‘diritti’ serve unicamente ad attribuire loro un titolo di nobiltà. Solo genericamente e retoricamente si può affermare che tutti sono eguali rispetto ai tre diritti sociali fondamentali – al lavoro, alla salute e all’istruzione – come invece realisticamente si può dire che sono eguali nel godimento delle libertà negative» (N. Bobbio, L’età dei diritti, 1990, pp. XX).
Alla descrizione realistica si aggiunse la constatazione di un palese paradosso. «I diritti cui lo Stato di diritto (ora anche ‘sociale’) appare funzionalmente collegato vanno ben oltre la libertà e la proprietà della tradizione ottocentesca. […] Lo Stato di diritto, nel momento in cui offre un antidoto all’assolutismo del legislatore, ne stimola (in quanto ‘Stato di diritto sociale’, funzionalmente collegato ai ‘diritti sociali’) l’interventismo, inducendo quel fenomeno di ‘inflazione legislativa’ prontamente denunciato come lesivo della certezza del diritto dai teorici ‘antivolontaristici’ del ‘rule of law’ (come Hayek o Leoni)» (Costa in Lo Stato di diritto, 2002, p. 158).
Interpretazioni costituzionali nel tempo
Un quadro sommario della storicità delle interpretazioni costituzionali segue percorsi in gran parte già tracciati.
Una prima percezione storica ravvisa nel processo di ‘costituzionalizzazione’ dei diritti sociali una necessità immanente all’«attuazione concreta del principio di libertà giuridica»; nelle nuove condizioni sociali si impongono «la materializzazione dei diritti già esistenti e la creazione di nuovi tipi di diritti» (J. Habermas, Faktizität und Geltung: Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, 1994; trad. it. 1996, p. 473). Si possono certo dare restrizioni rispetto allo status quo ante, ma pur sempre quale conseguenza dell’eliminazione di privilegi incompatibili «con l’eguale ripartizione di libertà» (p. 474).
In tempi successivi – di fronte alle pratiche spesso abnormi e agli insuccessi dello Stato sociale – si diffondono domande inquietanti sulla compatibilità del paternalismo pubblico con quella medesima autonomia per favorire la quale sono stati giustificati, e considerati come giuridicamente dovuti su basi costituzionali, gli interventi diretti a «soddisfare i presupposti fattuali di un godimento delle libertà negative ispirato alle pari opportunità» (p. 481).
Più recentemente, è stata individuata una «vittoria planetaria dell’economia di mercato», con tendenza alla trasformazione dello Stato sociale in uno ‘Stato penale’ secondo il modello degli Stati Uniti (Zolo in Lo Stato di diritto, 2002, p. 63). E tuttavia è ormai non meno noto che proprio la gravità della crisi finanziaria, con riflessi mondiali sulle condizioni primarie di vita degli esseri umani, ha indotto alcuni economisti a rivalutare le ‘terze vie’, proprio in nome dell’esperienza e dell’esigenza di pervenire a soluzioni politiche e giuridiche non pregiudicate in senso ideologico (Stiglitz 2001).
In questa linea è possibile procedere a una lettura delle garanzie costituzionali che sia assai più libera (rispetto a quanto è accaduto in passato) dalle contingenti pressioni delle alterne fortune dello Stato sociale. Il nucleo forte dell’art. 3, 2° co. Cost. non soltanto resta attuale, ma si arricchisce di un contenuto adeguato ai nuovi impedimenti che ostacolano i processi di emancipazione (De Giorgis 2007).
Considerazioni conformi possono essere proposte con riguardo alla categoria dei ‘diritti sociali’ (A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enciclopedia giuridica, 11° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, 1989, ad vocem). Il diritto all’abitare è in tal senso, fra tutti, il più denso di significati antropologici originari e il più soggetto a metamorfosi indotte dal cambiamento tecnologico e sociale (Sacco 2007).
Tutela della salute e condizioni degli alloggi
Il diritto all’abitare non rappresenta una monade solitaria: esso matura, nasce e si trasforma (nel corso delle società moderne e nel quadro di una sempre più fitta trama di vincoli giuridici che dall’alto di previsioni delle autorità pubbliche si irradiano fin dentro le situazioni e i rapporti tra privati) in un nesso costante con la tutela della salute degli abitanti.
Nel quadro costituzionale italiano il dato testuale, per quanto concerne la tutela della salute (art. 32), è notoriamente ispirato da un tentativo di sintesi – che qui l’esperienza applicativa ha confermato con risultati di rilievo davvero non confutabili – fra la proclamazione di un diritto dell’individuo e la difesa di un interesse dell’intera collettività. Si può anche dire che, in quest’area, la direzione degli enunciati ha avuto modo di precisarsi, con sufficiente perspicuità e condivisione interpretativa, sia con riguardo al rapporto verticale fra lo Stato e i cittadini, sia con riguardo alla tutela delle persone in caso di lesioni alla salute imputabili ai privati, all’interno o al di fuori di rapporti giuridici di natura contrattuale.
Nel caso degli alloggi – e nel contesto di situazioni che variamente ne legittimano l’uso – due sono i problemi applicativi più rilevanti che si possono individuare sul piano dei possibili conflitti giuridici e delle loro modalità di composizione.
Il primo problema si riferisce alla definizione normativa dei requisiti minimi di idoneità dei beni alla soddisfazione del bisogno di abitazione degli individui e dei nuclei familiari. Fra tali fattori è tradizione, imposta da ovvie valutazioni razionali, che il primato debba essere assegnato ai requisiti di natura igienica e sanitaria, secondo standard variabili nei diversi contesti storici e con proiezioni inevitabili nelle dotazioni degli edifici nonché dei servizi e degli spazi delle aree strumentali. Il secondo problema, che dal primo è strettamente dipendente, concerne le proiezioni sull’interpretazione e sull’applicazione ai rapporti fra privati, siano essi relativi alla costruzione (si pensi all’appalto) ovvero al mercato degli edifici in proprietà oppure in locazione, tanto in linea generale quanto, e qui specialmente, con riguardo a quelli destinati all’uso di abitazione.
Il diritto all’abitazione, su tali piani, resta inevitabilmente sullo sfondo.
Il quadro normativo dà rilievo primario, nel nostro ordinamento, a un diritto di formazione giudiziale, che sembra essersi ormai assestato su basi non del tutto precarie. Il legislatore, anche su questo piano, non ha seguito la via francese diretta a modernizzare la legislazione in base a leggi sul ‘rinnovamento urbano’ secondo istanze di solidarietà (l. n. 2000-1208, 13/12 2000 relativa, per l’appunto, à la solidarité et au renouvellement urbain); e, di conseguenza, neppure ha provveduto a rifondere organicamente la materia in un codice di nuova generazione (quale è in Francia, oltre al Code de la construction et de l’habitation che ora include anche il diritto all’alloggio opposable in base a una domanda e a un procedimento pertinenti, il Code de la santé publique).
Nozione di habitat e tutela dell’ambiente
Se il nesso dell’abitare con la salute umana segna gli esplosivi primordi della ‘questione delle abitazioni’ in età moderna, il riferimento alle nozioni di habitat e alla tutela dell’ambiente dischiude uno scenario che rimase in gran parte ignoto alle Carte dei diritti negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, ma la cui attualità, anche e soprattutto nella cornice sia del diritto internazionale sia del diritto europeo, è ormai di piena evidenza, per riconoscimento unanime.
Si tratta d’individuare le origini normative, e nel nostro ordinamento soprattutto le origini giudiziali, di puntuali soluzioni applicative in relazione ai contesti conflittuali in cui l’abitare, anche nelle proiezioni relative ai rapporti fra i privati, esige valutazioni e scelte inscindibili dalle condizioni complessive dei luoghi in cui una tale primaria attività umana è destinata a doversi svolgere.
Diritto all’abitazione e sull’abitazione
Le aspirazioni che variamente sono connesse alla soddisfazione del bisogno di abitazione reclamano degli strumenti giuridici che siano in grado di convertire le domande le quali si legittimano, quando ne esistano i presupposti, sulla base di un generale ‘diritto ai’ beni, in uno specifico ‘diritto sui’ beni a tal fine necessari.
I provvedimenti e gli atti regolati dal diritto non corrispondono, tanto nella sfera dell’offerta pubblica quanto nella sfera dell’offerta privata, a un modello unico, sebbene gli schemi principali siano largamente conosciuti e diffusi. Nell’area dell’edilizia residenziale pubblica, essi sono costituiti, infatti, dai procedimenti di assegnazione di alloggi sociali sulla base di graduatorie predeterminate, per lo più culminanti nella formazione di rapporti che, in senso lato sono ascrivibili alla sfera locativa.
Nell’area strettamente civilistica, tali figure possono condurre, nei confini dell’autonomia dei privati, all’acquisto della proprietà (con la variante, nella pratica assai marginale, della concessione del diritto reale di abitazione), ovvero – anche e soprattutto in una tale sfera – possono comportare la conclusione di contratti di locazione.
I conflitti d’interesse che si concentrano sull’abitare (nella mobile tensione fra il ‘diritto ai beni’ e il ‘diritto sui beni’) assumono, ovviamente, distinto rilievo nell’area del servizio pubblico e nell’area del mercato privato degli alloggi. In ogni caso, si tratta di conflitti che si atteggiano diversamente a seconda delle fasi in cui si manifestano le modalità giuridiche dell’abitare.
Accesso
Assegnazione di alloggi sociali
In materia di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (nella linea di una pronuncia della Corte costituzionale – n. 204 del 2004 – che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 33 d. legisl. 31 marzo 1998 n. 80, sostituito dall’art. 7, lett.a della l. 21 luglio 2000 n. 205), è stata riaffermata, dai giudici di legittimità a sezioni unite, la giurisdizione del giudice ordinario, per tutte quelle controversie che risultano attinenti alla fase successiva al provvedimento di assegnazione.
In un tale contesto – osservano i giudici – la pubblica amministrazione non esercita, infatti, un potere, ma piuttosto agisce quale parte di un rapporto di locazione, che è soggetto alle regole del diritto privato generale.
Mercato degli alloggi
Il mercato assolve ancora – è quasi superfluo il sottolinearlo – a un ruolo assai rilevante nel soddisfare la domanda di abitazione per tramite di figure contrattuali che sono strutturalmente e funzionalmente distinte.
Una responsabilità non trascurabile, sebbene resti distinta dalla scelta direttamente politica, grava su chi ha il compito di fare chiarezza sul tipo legale della locazione e sui sottotipi, con particolare riguardo a quelli che hanno il loro fulcro nella destinazione dei beni all’uso di abitazione.
Dall’accesso per tramite di una locazione si passa, sempre più spesso, nella pratica, all’accesso per tramite della proprietà, che notoriamente va facendosi ormai egemone. Si assiste quindi a una sorta di rafforzata conferma o di ritorno, sulla spinta della forza dei fatti, alla promozione costituzionale della proprietà della casa (art. 47).
Origine, svolgimento e fine del rapporto
Le locazioni a uso di abitazione
Sono noti alcuni fattori tradizionali e innovativi che inducono a trattare il problema delle locazioni abitative secondo un metodo di analisi strettamente aderente al preciso collegamento che unisce fra di loro, con riscontri applicativi, la fase di formazione del contratto e la fase di vita e di estinzione dei rapporti.
In Italia, l’innovazione più evidente è ravvisabile, secondo una scelta qui conforme alle riforme introdotte in altri ordinamenti europei, nell’imposizione di vincoli di forma nel settore delle locazioni a uso di abitazione.
Potrebbero derivarne esiti applicativi non trascurabili, purché al tempo stesso si chiarissero in maniera più trasparente, così da sopprimere alcune persistenti ambiguità e lacune, anche le direttive sulla derogabilità dei contenuti eteronomi. Esse sono tuttora perduranti nell’intreccio fra codice civile e legislazione di settore; né riducibili alla sola regola aurea della durata minima quadriennale, normalmente prolungabile per altri quattro anni, al termine dei quali anche la fine definitiva e arbitraria parrebbe espressamente consentita (in Francia la forma non è scindibile da un contenuto informativo dettagliato, si veda la loi Mermaz, art. 3, l. n. 89-462, 6/7/1989: J. Lafond, F. Lafond 2003, pp. 148 e sgg.).
Tante sono le anomalie e tali le carenze regolative del formalismo del sottotipo contrattuale della locazione abitativa da costringere gli interpreti a uscire dalla strettoia delle interpretazioni aridamente atomistiche e letterali, artt. 1, 4° co., 13, 5° co., l. 9 dic. 1998 n. 431 (Benedetti 2002). Subito è stato sollecitato l’intervento della Consulta, come già è avvenuto nel caso esemplare della dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 7, l. 9 dic. 1998 n. 431 (Vitucci 2001).
I dubbi più forti si sono manifestati, com’è noto e com’era facilmente prevedibile, in relazione agli effetti dell’omessa registrazione e, in particolare, con riguardo all’interpretazione della formula composita contratto scritto e registrato (art. 13, 1° e 2° co., l. 431/1998; l’esegesi delle disposizioni isolate condurrebbe a disparità costituzionalmente sospette. Una questione in tal senso è stata posta dal Trib. La Spezia, 16 ott. 2003, «Il foro italiano», 2004, 1, c. 279). È stato riscoperto, ai margini di un tale enunciato ibrido, un isolatissimo precedente remoto di nullità del contratto non registrato (l. 27 sett. 1941 n. 1015). Fra il settembre del 1941 e il marzo del 1945 (il provvedimento fu abrogato dal d.l. 20 marzo 1945 n. 212), tale sorte colpì, infatti, gli atti traslativi di beni immobili. Si trattò palesemente di un’anomalia del tutto transitoria, che richiama alla mente tempi e bagliori di guerra e che ormai è ingiustificabile (in tali termini, per di più, tutt’altro che trasparenti) agli occhi dei giudici di legittimità (Cass., 27 ott. 2003 n. 16089, «Il foro italiano», 2004, i, c. 1155 e sgg.).
Una lettura costituzionalmente orientata ha indotto la Corte di cassazione a escludere qualsivoglia sanzione di nullità per l’ipotesi di mancata registrazione di un accordo ulteriore, nel quale sia previsto un canone superiore a quello risultante dal contratto registrato: sono colpiti soltanto i patti informali di aumento del canone, se successivi al contratto concluso con la forma richiesta dalla legge (ordinanza Corte cost., 19 luglio 2004 n. 242, «Il foro italiano», 2004, i, c. 2638).
Ben diversa, e del tutto innovativa, è invece la sanzione specifica dell’abuso unilaterale nell’instaurazione del contratto informale: si tratta della drastica misura che può descriversi nei termini di una conformazione giudiziale del rapporto imposto.
È possibile a questo punto individuare, fra i tanti, almeno tre consueti ordini di problemi di confine: tra pubblico e privato; tra cose e persone, tra diritti e interessi. Il quadro complessivo, inoltre, è fra quelli che meglio consentono di porre a confronto la perenne tensione tra fatto e diritto.
Pubblico e privato
Quanto alle interferenze tra i due sistemi della dicotomia tradizionale ‘pubblico-privato’, coesistono specialità e trasversalità, in un nucleo essenziale, dei rapporti relativi all’abitazione. Si rammenti la decisione a sezioni unite sulla distinzione del procedimento di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica dalla regolamentazione civilistica del rapporto successivo (ordinanza Cass., sezioni unite, 16 genn. 2007 n. 757). Si afferma che la stipulazione del contratto di locazione «apre la fase negoziale e paritetica del rapporto tra assegnante e assegnatario», ma permane il «potere autoritativo della pubblica amministrazione in relazione alla specifica evenienza di una sopravvenuta conoscenza […] di vizi originari dell’assegnazione […] ed all’eventuale esercizio di un potere di annullamento dell’atto di assegnazione che implichi il venir meno del rapporto locativo» (Cass. sezioni unite, 5 ott. 2004 n. 19858, «Archivio delle locazioni e del condominio», 2005, p. 208 [art. 11, d.p.r. 30 dic. 1972 n. 1035; art. 7, l. 21 luglio 2000 n. 205]).
Non è comunque il caso di tornare qui, ancora una volta, sui diversi statuti degli alloggi dell’edilizia pubblica e dell’edilizia finanziata, agevolata, convenzionata (Breccia 2005, pp. 242-43). Può semmai essere interessante notare le peculiarità che i giudici ascrivono al diritto al riscatto dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, lì dove proclamano che si tratta di una «diretta emanazione del diritto all’abitazione» dell’assegnatario o del familiare convivente. Come tale – essi precisano – si tratta di diritto strettamente personale «che si estingue con il decesso del titolare»; e che, dunque, non è trasmissibile agli eredi (Tar Campania Napoli, 8 maggio 2006 n. 3999, «InfoUtet», 5, 2007).
Cose e persone
Profili extrapatrimoniali dei diritti e dei rapporti sulle cose
Il diritto all’abitare include, già intuitivamente, un duplice canone effettuale, in apparenza ovvio, eppure spesso negletto. Si tratta, in primo luogo, del nesso fra la destinazione dei beni alla soddisfazione dei bisogni abitativi e le condizioni corrispondenti di inclusione, di esclusione o comunque di precarietà vitale delle persone e delle convivenze, secondo istanze potenzialmente ultraindividuali, ma intime.
L’interferenza delle categorie modellate sulle immagini tradizionali della proprietà e del contratto con bisogni primari delle persone ha uno svolgimento intuibile nell’analisi della garanzia costituzionale che è relativa, in senso lato, all’‘appartenenza’ e al suo senso normativo quando i beni protetti o conformati si riferiscano, in senso più specifico, alle condizioni di vita e di convivenza in una casa di abitazione.
Nello spazio abitato, inoltre, si ha costante, e talvolta clamorosa, conferma di una possibile efficacia orizzontale delle situazioni giuridiche qualificate come ‘fondamentali’ e di una loro necessaria proiezione sul piano dell’esercizio stesso delle libertà contrattuali, nel senso di escludere la liceità di clausole che possano comprimere in maniera arbitraria i diritti della convivenza nelle case prese in locazione.
I giudici civili ne hanno preso chiara coscienza; e la comparazione rafforza quest’orientamento (sono ancora fondamentali gli scritti di A. De Vita, Diritto alla casa in diritto comparato, in Digesto. Discipline privatistiche. Sezione civile, 19884, pp. 34-69; A. De Vita, Il rapporto di locazione abitativa fra teoria e prassi, 1985).
Le nuove disposizioni – ora anche sovranazionali – che, tanto con riguardo ai soggetti pubblici quanto con riguardo ai privati cittadini, estendono il divieto di discriminazione e della disparità di trattamento all’offerta degli alloggi, sono palesi specificazioni di un orizzonte di scelte già immanenti a un’adeguata comprensione dell’effettività e della pienezza di tutte le autonomie (un rifiuto di contrarre con chi, tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato, aspiri ad accedere a beni e a servizi, incluso l’alloggio, non può essere motivato esclusivamente da finalità discriminatorie: art. 3, 1° co., lett. i, d. legisl. 9 luglio 2003 n. 215. Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Tale disciplina dev’essere coordinata con l’art. 44, 1°-11° co., d. legisl. 25 luglio 1998 n. 286, ove si delineano i tratti essenziali della tutela giurisdizionale di un tale principio di parità di trattamento senza distinzione di razza e di origine etnica).
Danni relativi all’abitare
L’adeguato stato e uso dei beni strumentali è consacrato dalle disposizioni generali del codice civile sia all’atto della conclusione del contratto sia nella fase della sua esecuzione (Breccia 2005, p. 259). I danni si commisurano non soltanto al profilo patrimoniale, che attiene alla sfera della proprietà civilistica, ma anche alla vita stessa delle persone.
Così, «nell’ipotesi di danno a una proprietà immobiliare dovuto a infiltrazioni di acqua provenienti dalle parti comuni del condominio, è risarcibile il danno alla vita di relazione subito dai proprietari del singolo appartamento, sino alla data di effettuazione delle riparazioni, per il disagio di abitare in un appartamento rovinato, essendo leso il diritto della persona umana di vivere usufruendo di ogni utilità della propria abitazione, e di poter godere, nell’abitazione medesima, della desiderata vita di relazione» (Trib. Milano, 30 sett. 2003, «Guida al diritto», 2003, p. 56).
Il riferimento esplicito ha per oggetto – quasi è superfluo il rilevarlo nuovamente – le decisioni dei giudici di legittimità e della Consulta (Cass., sezioni unite, 11 nov. 2008 n. 26972). La risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito – si è proclamato – «va anche oltre il limite della qualificabilità del fatto illecito come reato» (Trib. Milano, 30 sett. 2003, «Guida al diritto», 2003, p. 56).
Tale principio, poi, non può essere limitato alla sola ipotesi in cui il disagio abitativo colpisca il proprietario: difesa non minore spetta a chi abbia un titolo giuridico diverso con lo stesso contenuto.
Gli abitanti conviventi con la parte contraente
Un’altra zona esemplare di confine è non meno intuitiva. Essa verte sugli interessi coesistenti in uno spazio conteso tra fatto e diritto. Le qualifiche di parte e di terzo non si prestano a descrivere in maniera esauriente la peculiare condizione di chi ‘abiti’, senza contratto, insieme con chi sia titolare di un diritto, per contratto, sulle cose destinate all’abitare.
I problemi più gravi si manifestano nel caso di estinzione del rapporto con il titolare del contratto, poiché i conviventi non titolari, e specialmente il nucleo familiare quando vi siano figli minori, verrebbero d’un tratto privati dei luoghi consueti e necessari all’attività dell’abitare. La gravità del problema (e della sua soluzione nel senso di dare un primato alla continuità dell’abitare pur nel difetto di un precedente e perdurante titolo giuridico) è stata espressa con efficace sintesi in questi termini icastici e francamente allibiti: «il diritto ad abitare la casa d’altri riconosciuto a chi non ha diritti!» (A. Trabucchi a Corte cost., 7 apr. 1988, n. 404, «Giurisprudenza italiana», 1988, 1°, 1, c. 1627 e sgg.).
Tale fu la celebre esclamazione d’esordio del commento di uno studioso del diritto civile alla non meno famosa pronuncia della Consulta che proclamò il diritto all’abitazione proprio con riguardo al subingresso, nella conduzione dell’alloggio locato, della convivente more uxorio (oltre che, com’era previsto dall’art. 6 della l. 27 luglio 1978 n. 392, della vedova o della donna separata o divorziata).
Sta di fatto che coabitazione e sua stabilità diventarono, anche nel linguaggio dei giudici costituzionali, presupposti effettivi di una difesa giuridica che si estendeva oltre le parti del contratto in senso stretto, secondo le linee innovative previste in materia di successioni anomale e con forte limitazione, in relazione ai rapporti tra vivi, delle disposizioni generali sull’efficacia relativa dell’atto di autonomia.
I tempi rendono consigliabile – al fine di evitare discriminazioni ingiustificate nei confronti delle convivenze omosessuali – il riferimento generico al partner di vita, quale formula che traduce alla lettera una qualificazione del codice civile tedesco (Lebenspartner), par. 563, 1° co., Bürgerliches Gesetzbuch.
Soprattutto deve restare ferma, anche in un tale comparto, la priorità della soluzione del problema dei figli; e senza discriminazione alcuna in presenza di prole naturale alla fine del rapporto locativo. I giudici hanno sottolineato, non a caso, che l’art. 6 della l. 27 luglio 1978 n. 392 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo anche nella parte in cui non prevede la successione nel contratto al conduttore che abbia cessato la convivenza «quando vi sia prole naturale, in quanto l’esistenza della prole impone che sia conservato il diritto all’abitazione alla residua comunità familiare» (Corte app. Roma, 18 ott. 2006, «InfoUtet», 5, 2007).
La necessità di un’analisi critica non indifferenziata è confermata dalle ricostruzioni che hanno trattato con rigorosa completezza l’intera materia della successione nel contratto di locazione (Padovini in Le locazioni urbane, 1999).
Diritti e interessi
Interessi dei figli e trascrivibilità del diritto di abitazione
Ci sono altri, e non meno noti, conflitti, in cui l’argomentazione imperniata sulla natura dell’interesse ha contribuito a colmare gravi lacune che altrimenti sarebbero rimaste tali. Così, sempre a titolo d’esempio (da considerarsi fra i più persuasivi in considerazione dell’autorità degli interpreti), il «superiore interesse del figlio alla conservazione dell’abitazione familiare» è stato considerato quale primario indice sistematico a favore della trascrivibilità, anche nel silenzio testuale della legge, «del titolo che riconosce il diritto di abitazione al genitore affidatario della prole naturale» (Corte cost., 21 ott. 2005, n. 394, «Famiglia, persone e successioni», 2006, p. 416).
Un tale diritto si conforma strettamente all’abitare. La sua peculiarità si riflette, senza dubbio, in una forza eccezionale di cui gli stessi giudici hanno preso atto, secondo un’interpretazione francamente ‘adeguatrice’ che non si è fermata neppure di fronte al principio della tassatività della disciplina delle figure di pubblicità. Al tempo stesso, tuttavia, la situazione continua a dipendere strettamente dalla sua origine e dalla sua finalità: sta e cade con quelle; non può essere confusa con la titolarità e con l’esercizio di un diritto di proprietà (o di natura strutturalmente e funzionalmente affine) sui beni assegnati dal giudice, sebbene possa fortemente limitare le situazioni conflittuali per tutto il tempo in cui si protrae la preminente esigenza legata all’abitare.
Discipline civilistiche
Abbiamo premesso che l’attività dell’abitare – sono sempre i fatti a proclamarlo – non si riduce alle pareti dell’alloggio.
Ci sono profili comunitari e ambientali che difficilmente possono restare totalmente avulsi, anche in diritto, dalle disposizioni che hanno per oggetto la destinazione degli immobili alla convivenza delle persone nelle case.
Anche in tal caso non mancano i punti di contatto con la disciplina del diritto civile, della proprietà e dei contratti, con particolare riguardo al contratto di locazione (per quel che concerne tale ultimo profilo qui chiaramente si allude in gran parte a un corpo minimo di norme collaudate, che sono sopravvissute, non a caso, alla quasi totale abrogazione del regime delle locazioni abitative della l. 27 luglio 1978 n. 392, artt. 9 e 10).
Provvedimenti di natura eccezionale
Non è stata apposta la parola fine, nel frattempo, all’espediente tragico della sospensione delle procedure esecutive in Italia: sono tristi cronache che si succedono quasi senza interruzioni. Se ne possono trarre, in maniera assai esplicita, indicazioni spiacevoli sull’attualità di alcune perduranti condizioni di ‘disagio abitativo’ delle persone e dei coabitanti. Estremi, e purtroppo tutt’altro che nuovi, sono i fattori rilevanti: condizioni di età e di salute; indigenza economica (Breccia 2005).
Anche gli studiosi del diritto costituzionale hanno posto l’accento sul fallimento applicativo delle politiche sociali, nel crescente disordine delle fonti e in un quadro di perduranti incertezze sulle tutele minime dei cittadini e sul contemperamento degli interessi in conflitto (G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, 1988, pp. 288 e sgg.)
Incertezze e lacune sul ruolo del diritto privato generale
Il vero punto oscuro – tema che ha dalla sua il futuro – si concentra, oltre che sul diritto dei tipi contrattuali e dei rapporti abitativi, sui possibili contrasti o sugli equilibri ponderati che si traggano dal nesso con le disposizioni del diritto privato generale o comune.
Sempre più spesso si parla, e forse perfino troppo, d’ingiustizia normativa e d’ingiustizia economica dei contratti. Sappiamo che sono tanti, e diversificati, gli orientamenti in atto o in progetto e le specialità settoriali. Un riferimento sporadico, ma sintomatico, al ‘giusto prezzo’ affiora singolarmente in relazione alla destinazione del bene a residenza familiare, seppure, come si è accennato, con riguardo all’acquisto in proprietà (art. 10, 1° co., d. legisl. 20 giugno 2005 n. 122).
È stato già messo alla prova, in altri sistemi giuridici a noi vicini, il metodo, da applicarsi proprio al settore locativo, del riferimento ai canoni di mercato accertati nel contesto urbano prossimo con riguardo a case di abitazione dello stesso tipo (Bargelli 2007). Vi è stato perfino un tentativo, non nazionale, di definizione del canone usurario con riguardo a una percentuale (venti) di superamento del livello medio in presenza di un’offerta scarsa. E – ma anche questo è sempre e soltanto un esempio – ogni unilaterale pretesa di aumento è stata ammessa, in Germania, nei limiti comparabili alla situazione locale delle locazioni.
In Italia, la pretesa di un canone che sia di gran lunga superiore a quelli diffusi nel mercato con riguardo ad alloggi di un medesimo tipo parrebbe ancora non dar luogo a rimedio alcuno, almeno in apparenza, sempre che non esistano gli estremi di una rescissione (di cui pure si sospetta l’implicita abrogazione).
Sempre in termini di diritto generale, si pongono le direttive di principio sulla tensione al bene-casa e sul nesso con il bene-casa. «L’interesse al godimento dell’immobile destinato a residenza della persona» si legge in un saggio molto meditato «è oggi avvertito, nella cultura europea, come un diritto fondamentale della persona: donde l’esigenza di garantire la stabilità del godimento stesso, anche quando il titolo ne sia l’altrui concessione anziché la proprietà» (loi Mermaz, art. 1, l. n. 89-462 del 6 luglio 1989; Gabrielli 2006, pp. 340 e sgg.). Questo canone di lettura esclude la difesa di privilegi irragionevoli, ove siano accertati i bisogni di vita dello stesso proprietario-locatore nell’eventuale triste conflitto con il conduttore.
Resta, sullo sfondo, una situazione costante, al limite della scelta tragica: il difficile contemperamento fra valori di scambio e valori d’uso.
L’interesse del locatore a conseguire il pieno corrispettivo del bene sul mercato per tramite della vendita dell’immobile libero si contrappone all’interesse del condurre a non essere escluso dal bene, donde la previsione di una preferenza in sede di possibilità di accesso alla proprietà.
Fatto e diritto
Un motivo conduttore costante, ogni qual volta si parli di diritto all’abitare, è costituito dai limiti di rilevanza da attribuirsi alle condizioni di fatto e dalle cautele quando si passi alle conversioni in altrettante situazioni di diritto. Le ipotesi che ricorrono nella legge non sono infatti uniformi. Non vi è chi non possa rendersi conto delle diversità fra i seguenti ordini di conflitti: l’occupazione di una casa dell’edilizia pubblica vuota, qualora con certezza sia fondata su di uno stato di necessità; l’instaurazione di un rapporto locativo di fatto per imposizione di un locatore ostile al vincolo di forma; la convivenza informale con chi abbia un titolo contrattuale; l’aspirazione a fruire dell’abitazione oltre la fine del contratto (Breccia 2005).
Occorre chiarirsi, infine, le idee su una scelta di fondo. Si tratta di decidersi fra una riduzione ai minimi termini delle regole orientate alla ponderazione degli interessi e il tentativo di un più duttile contemperamento – il migliore sperimentato fin qui e al tempo stesso il migliore prevedibile in futuro – fra l’automatismo di fine rapporto e un controllo della giustificazione a porvi fine (par. 573 Bürgerliches Gesetzbuch).
Non si dilegua, nell’insieme, una dura constatazione diffusa sulle urgenze che provocano paradossali dilazioni senza tempo per tramite di un diritto d’eccezione che incide soltanto nella fase del processo esecutivo; sulle disorganicità persistenti da cui promanano oscurità in sede applicativa; sugli irragionevoli squilibri che più volte sono stati segnalati (Gabrielli 2006, pp. 341-42).
Comparazione con altri sistemi giuridici
Fonti transnazionali
Le fonti del diritto – a cui si è fatto fin qui riferimento in via esemplificativa e assai lata – sono state scelte con speciale riguardo a indici testuali che, in maniera espressa o implicita, secondo varianti lessicali affini e comunque compatibili, danno rilievo al diritto all’abitare nella giurisprudenza italiana.
L’argomento ha, tuttavia, un respiro tale da esigere un rinvio e un confronto con le scelte e con le prospettive che si manifestano in un quadro mondiale.
Si terrà conto, sia pure in termini essenziali ancorché senza dubbio esemplari, delle Carte internazionali, delle tendenze che possono ascriversi in senso lato al diritto europeo, del confronto tra la nostra Costituzione e le altre Carte nazionali (specialmente di quelle introdotte dopo la fine del secondo conflitto mondiale), di alcune scelte e proposte legislative non lontane negli anni a cui può attribuirsi un rilievo molto significativo (si pensi agli orientamenti della Francia).
Carte internazionali
Nell’anno 2008, è stato celebrato il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò il 10 dicembre 1948.
L’enunciato – che qui è riprodotto – ha un’importanza storica universalmente riconosciuta: «Ogni persona ha diritto a un livello di vita sufficiente per garantirgli la salute, il benessere personale e familiare, con particolare riguardo all’alimentazione, all’abbigliamento, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari» (art. 25, 1° co.).
L’uso, di per sé impegnativo, di diritto – in unione con una pretesa garantita ‘all’abitazione’ – non era traducibile, neppure in via mediata, in una norma che comportasse vincoli, di natura attiva ovvero omissiva, giuridicamente imputabili a carico di soggetti, pubblici o privati, i quali fossero variamente coinvolti nella sfera di salvaguardia dell’abitare altrui.
Quest’orientamento del pensiero giuridico non mutò radicalmente neppure quando, sempre sul piano del diritto internazionale, la dichiarazione del 10 dic. 1948 fu trasposta in un enunciato vincolante nel contesto del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dic. 1966 ed entrato in vigore in Italia il 3 genn. 1976.
Questa volta il vincolo giuridico fu testualmente riferito agli Stati che sottoscrissero quel Patto (art. 11: «riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario ed alloggio adeguati»). Nel preambolo si ebbe cura di precisare, inoltre, che «l’individuo, in quanto ha dei doveri verso gli altri e verso la collettività, [...] è tenuto a sforzarsi di promuovere e di rispettare i diritti riconosciuti nel presente Patto», in quanto si tratta di situazioni che sono inseparabili dalla «dignità inerente alla persona umana».
Soltanto in tempi recenti il principio internazionalista, già sicuramente e saldamente radicato nella Carta costituzionale italiana (artt. 10 e 11), ha preso a farsi parte integrante della formazione professionale di base dei giuristi nazionali e ha perso il carattere di un mero ornamento retorico delle argomentazioni usate.
La proiezione del diritto nazionale nei contesti mondiali conferma e rafforza quest’autentica svolta di consapevolezza culturale e professionale, sebbene restino ovviamente aperti, in tutta la loro palese gravità, i problemi che si evocano nel contrapporre l’enunciato normativo all’effettività applicativa: sia con riguardo ai palesi deficit di ‘giustiziabilità’ delle pretese variamente legate all’abitare; sia con riguardo alle opzioni che sono dette di segno ‘orizzontale’, in quanto concernono le applicazioni dirette nei rapporti fra cittadini all’interno degli Stati.
Carte costituzionali a confronto
Alla Costituzione di Weimar, subito dopo la fine del primo conflitto mondiale (la data è di per sé significativa: 11 agosto 1919), è attribuito, per unanime riconoscimento, una sorta di primato nella considerazione della «cura dei poveri e dei senza tetto» (art. 7, n. 5) e nella definizione dei principi generali sul «regime delle abitazioni» (art. 10, n. 4). Ancor più celebrato, nel bene e nel male, è l’art. 154, 2° co., che unisce in maniera lapidaria la proprietà alla figura giuridica dell’obbligo e che immediatamente precede, senza dubbio non a caso, la disposizione nella quale si proclama il controllo del territorio «con lo scopo di impedire gli abusi e di assicurare a ogni tedesco un’abitazione sana ed a tutte le famiglie tedesche, specie a quelle numerose, una casa», non senza l’espressa previsione, nel documento costituzionale, di provvedimenti di esproprio «quando ciò sia necessario per soddisfare il bisogno di abitazione» (art. 155).
Le ambizioni di Weimar, e il loro destino effimero, sono state narrate tante volte da una vasta e nota letteratura. Certo è che, anche con riguardo al tema del diritto all’abitare, quel testo, lungo e sfortunato, inaugura un’epoca difficile, in cui l’urgenza dei problemi cerca spazio perfino nelle carte del diritto, seppure soltanto di quella fragile materia rischi d’essere fatta – anzi quasi sempre sia tale alla prova della realtà – la sostanza dei diritti proclamati.
Nel corso del 20° sec., dopo il secondo conflitto mondiale, si tenterà di riprendere quel cammino tragicamente interrotto. Ne daranno, fra le altre, una testimonianza notevole – e, ormai, siamo agli anni Settanta – la Costituzione portoghese e la Costituzione spagnola, poiché si tratta di documenti, pensati e scritti dopo la fine di due regimi autoritari europei, in cui il riferimento all’abitare è testuale. L’art. 65 della Costituzione portoghese del 1976, intitolato nella rubrica Abitazione e urbanistica, proclama, al primo comma, che tutti hanno diritto, per sé e per la loro famiglia, a un’abitazione di dimensioni adeguate, in condizioni d’igiene e di conforto e secondo modalità tali da preservare l’intimità personale e la vita privata familiare. Segue un elenco dettagliato dei vincoli, che, a tal fine, gravano sullo Stato: esso è tenuto a intervenire (in collaborazione con gli enti pubblici locali, con le associazioni e con i privati cittadini) in modo da programmare e da promuovere tutti i provvedimenti e da utilizzare tutti gli strumenti giuridici che meglio consentano di assicurare o direito à habitaçao, il diritto all’abitazione.
Ancora più nota, nella sua efficace sintesi, è la corrispondente disposizione della Costituzione spagnola del 1978. «Todos los españoles tienen derecho a disfrutar de una vivienda digna y adecuada» (tutti gli spagnoli hanno il diritto a una abitazione degna e adeguata). Sarà compito, anche qui, dei poteri pubblici «promuovere le condizioni necessarie e introdurre le disposizioni pertinenti al fine di rendere effettivo un tale diritto», regolando l’utilizzazione del suolo e rendendo partecipe l’intera comunità dei plusvalori introdotti dalla acción urbanistíca dei poteri pubblici (art. 47, 1° e 2° co.).
Nel confronto con le altre carte costituzionali contemporanee, l’analisi della nostra, e delle interpretazioni dei giudici delle leggi, consente di porre in rilievo i seguenti punti essenziali: una disposizione fondamentale diretta a promuovere l’emancipazione umana da tutte le condizioni che ostacolino in linea di fatto lo sviluppo della persona (art. 3, 2° co.); una disposizione che impone, con previsione più specifica, di favorire l’accesso all’abitazione per tramite del risparmio popolare e della figura giuridica della proprietà (art. 47); una serie di altre disposizioni, reciprocamente connesse (artt. 2, 4, 9, 32 e molte altre ancora), che danno rilievo a una forma di Stato in cui la socialità è costantemente richiamata, insieme con la dignità umana, in ragione di pretesa garantita nel minimo vitale, per sé e per le famiglie (art. 36), nonché in ragione di limite all’arbitrario esercizio della proprietà e dell’impresa (artt. 42 e 41, 2° co.); una menzione espressa, con disposizione introdotta nel 2001, della categoria generale dei diritti sociali e della determinazione, paritaria, in tutto il territorio nazionale dei livelli della garanzia.
L’enunciato diritto all’abitare non figura in maniera testuale, ma è dunque immanente (quale conseguenza, parte integrante o necessario presupposto) all’interno di una trama normativa davvero non equivoca nella sua direzione fondamentale e nelle sue essenziali diramazioni. Non stupisce, pertanto, che il diritto all’abitazione sia stato descritto perfino, nelle motivazioni dei giudici costituzionali, quale figura compresa fra quelle che valgono a caratterizzare il nostro modello di Stato costituzionale (Corte cost., 5 giugno 2000 n. 176; Corte cost., 20 dic. 1989 n. 559; Corte cost., 7 apr. 1988 n. 404; Corte cost., 25 febbr. 1988 n. 217; nella giurisprudenza amministrativa, Tar Toscana Firenze, 12 ott. 2006).
Non a caso i giudici delle leggi hanno considerato, manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55, l. 27 luglio 1978 n. 392, nella parte in cui non è prevista «la possibilità, per il conduttore di un contratto di locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo, di ottenere dal giudice la concessione del termine di sanatoria previsto per i contratti di locazione ad uso abitativo». Non può, infatti, reputarsi «irragionevolmente discriminatoria la disciplina che ha inteso apprestare all’interesse abitativo una tutela […] diversa e più intensa di quella, generale, riconosciuta all’interesse economico del conduttore di immobili ad uso non abitativo». In particolare, non può dirsi «lesiva del diritto di difesa la limitata sfera applicativa della sanatoria della morosità, costituendo essa, al contrario, legittimo esercizio di discrezionalità legislativa a tutela dell’interesse primario della persona all’abitazione» (ordinanza Corte cost., 14 dic. 2001 n. 410).
Problemi nel diritto europeo
Il primato del diritto comunitario europeo sul diritto nazionale (un primato ampiamente riconosciuto e consacrato dall’orientamento consolidato della Corte costituzionale italiana) assegna ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (ora richiamati dall’art. 117, 1° co., Cost., in base all’art. 3 della l. cost. 18 ott. 2001 n. 3) una forza notoriamente superiore alla legge nazionale e alla stessa Costituzione, con la sola eccezione delle disposizioni che non possono essere oggetto di revisione costituzionale (art. 138 Cost.).
Un rilievo non secondario si deve attribuire al provvedimento nazionale che ha ratificato e che ha dato esecuzione alla Carta sociale europea, riveduta con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996 (l. 9 febbr. 1999 n. 30).
Dopo l’affermazione che «tutte le persone hanno diritto all’abitazione» (n. 31 della parte i), l’art. 31 (il quale, nella rubrica, è intitolato diritto all’abitazione) prevede che, al fine di garantirne «l’effettivo esercizio, le Parti si impegnano a prendere misure destinate: 1) a favorire l’accesso ad un’abitazione di livello sufficiente; 2) a precisare e ridurre lo status dei ‘senza tetto’ in vista di eliminarlo gradualmente; 3) a rendere il costo dell’abitazione accessibile a persone che non dispongono di risorse sufficienti».
Con l’approvazione a Lisbona dei nuovi Trattati europei, alla fine del 2007, il «diritto […] all’assistenza abitativa» (volto «a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti») dovrebbe assurgere, con le ratifiche dei singoli Stati, al rango di un enunciato costituzionale, quale effetto della definitiva e vincolante entrata in vigore della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (qui citata con la numerazione approvata a Nizza nel 2000: art. 34, 3° co.). Le incognite sono tante e hanno già trovato conferma, nel 2008, con il voto contrario dell’Irlanda, che ha impedito, al momento, l’entrata in vigore della Carta inizialmente prevista per il 1° gennaio 2009. In ogni caso, la Carta ha già una sua rilevanza, quale risulta comprovata da un forte rilievo di natura interpretativa.
Una delle regolamentazioni, indirette ma specifiche, che si prestano a confermare un tale orientamento generale, si trae dalla decisione della Commissione del 28 nov. 2005 (2005/842/CE). Questo provvedimento, nel fissare le condizioni alle quali gli aiuti di Stato (connessi a determinate imprese incaricate della gestione di servizi d’interesse generale) sono da considerare «compatibili con il mercato comune ed esentati dall’obbligo di notificazione di cui all’art. 88, n. 3, del Trattato», ha espressamente preso in considerazione «gli ospedali e le imprese aventi incarichi di edilizia popolare» (art. 2, lett. b; si tenga presente anche l’art. 8, secondo il quale ogni Stato deve presentare, fin dal 19 dic. 2008, relazioni periodiche triennali con una descrizione dettagliata delle modalità di applicazione in tutti i settori, inclusi – soprattutto questo è un punto da porre qui in pieno risalto – i settori dell’edilizia popolare e degli ospedali).
Il collegamento con i provvedimenti legislativi nazionali si è subito manifestato con un forte consapevolezza. In particolare, la nostra l. 8 febbr. 2007 n. 9 (che aveva sospeso l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio per finita locazione, sospensione poi reiterata e prolungata fino al 15 ott. 2008 dalla l. 28 febbr. 2008 n. 31) ha deciso di ottemperare «a quanto previsto in materia di aiuti di Stato a favore degli alloggi sociali dalla Decisione 2005/842/CE» e, in maniera più specifica, si è impegnata a definire con decreto (che è stato in effetti approvato in data 28 febbr. 2008) «le caratteristiche e i requisiti degli alloggi sociali esentati dall’obbligo di notifica degli aiuti di Stato, ai sensi degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità europea».
Legislazioni nazionali: la Francia
Il quadro costituzionale deve costantemente confrontarsi con le disposizioni legislative.
In primo luogo, assume rilievo, com’è agevolmente intuibile, l’organizzazione del servizio pubblico che in via diretta si proponga di soddisfare le domande dirette a fruire di un abitare compatibile nel minimo con i bisogni delle persone e delle famiglie. Si devono valutare attentamente, altresì, quelle disposizioni che interferiscano con gli strumenti dell’autonomia contrattuale privata, in relazione alle situazioni e ai rapporti da cui dipenda, in varia misura, la soddisfazione di interessi che sono strettamente connessi alla soddisfazione dell’esigenza abitativa.
Si tratta, senza dubbio, di due piani tanto fondamentali quanto chiaramente distinti e pertanto occorre guardarsi dal rischio di un’analisi indifferenziata. Al tempo stesso, si deve precisare con chiarezza quale sia, nei due diversi comparti, il senso di un riferimento alla specificità del nesso che lega i soggetti alla destinazione abitativa dei beni.
L’esempio della Francia ci dà una chiara rappresentazione, fra segnali di grande apertura e contrasti perduranti, della gravità del problema. In quell’esperienza, molto vicina alla nostra, matura (e con il tempo si consolida) un tentativo importante di proiettare, con scelta testuale, il droit au logement nella sfera dei tradizionali e comuni rapporti del diritto civile. Negli ultimi tre decenni, il diritto all’abitazione è affermato, e costantemente riaffermato, dal legislatore francese delle locazioni a uso di abitazione: 1982, loi Quilliot; 1989, loi Mermaz; 1990, loi Besson. Un buon punto di osservazione continua a essere costituito, in particolare, proprio dall’art. 1 loi Mermaz (l. n. 89-462).
A tutti è riconosciuta, in termini di diritto fondamentale, la libertà di scelta del ‘modo di abitare’. Proprio il filo conduttore del diritto fondamentale all’alloggio impone infatti di ricercare il massimo equilibrio possibile dei diritti e delle obbligazioni reciproche tanto nelle relazioni individuali quanto nelle relazioni collettive (art. 1, 3° co.).
Resta pertanto aperto, in termini che inevitabilmente trascendono il comparto del diritto civile e le sue articolazioni nel settore locativo e nel settore dell’accesso alla proprietà, il tema dell’effettività del diritto all’alloggio e della sua conseguente trasposizione sul piano di un droit au logement opposable. Il diritto all’abitazione diventa nondimeno opposable – tale è l’ambizione di una vera svolta, peraltro subito molto discussa, e della quale ancora deve valutarsi la sostanza operativa – con la legge DALO (Droit Au Logement Opposable). DALO, dunque, è l’acronimo in uso dopo un apposito provvedimento legislativo – l. n. 2007-290, 5/3/2007 – che fu sollecitato dal presidente Jacques Chirac sull’onda emotiva di una clamorosa protesta nella capitale francese. Sta di fatto che ora, in un quadro normativo integrato (art. L300-1 e -2 del Code de la construction et de l’habitation), si prevede che il diritto all’abitazione possa farsi valere per tramite di un ricorso amichevole e, in seguito, di un ricorso contenzioso, secondo le modalità definite dagli artt. L441-2-3 (M) e L441-2-3-1 (V) di quel codice.
La sensibilità al problema della cultura politica e giuridica francese è documentato ampiamente, inoltre, dalle 300 décisions pour changer la France proposte dalla Commission pour la libération de la croissance française presieduta da Jacques Attali.
Un bilancio deludente
Le ambizioni del sistema giuridico italiano, alla prova dei fatti, si sono rivelate nel complesso assai più modeste, sebbene non siano mancate iniziative politiche che sono state di volta in volta declamate a viva voce, ma che, in seguito, quasi sempre, si sono dimostrate velleitarie.
Non solamente si continua a sentire la mancanza di un codice della costruzione e dell’abitazione, ma la visione complessiva dei problemi, nei pur distinti settori dell’offerta pubblica e dell’offerta privata delle condizioni giuridiche strumentali all’abitare, si è dimostrata quasi sempre inadeguata.
Le linee essenziali di riferimento sono notoriamente definibili, nell’area dell’edilizia residenziale pubblica e in via preliminare, in base alla distinzione delle funzioni mantenute allo Stato e delle funzioni conferite alle Regioni e agli enti locali. Allo Stato spettano, in particolare, i principi, i livelli minimi del servizio pubblico e degli alloggi, i programmi di rilievo nazionale (qui in concorso con gli enti interessati), l’osservatorio della condizione abitativa e finalmente i criteri per favorire l’accesso al mercato delle locazioni dei nuclei familiari meno abbienti (art. 59, d. legisl. 31 marzo 1998 n. 112).
Alle Regioni e agli enti locali spettano soprattutto la gestione degli interventi e i programmi di recupero e di riqualificazione, nonché, in particolare, la fissazione dei criteri per l’assegnazione di alloggi, ivi compresa la determinazione dei relativi canoni (art. 60).
Quanto all’offerta privata, sia nel settore delle locazioni sia nel settore dell’acquisto in proprietà, due sono state le direzioni dominati, dopo un’applicazione ventennale della l. 27 luglio 1978 n. 392: la liberalizzazione, unita a un’apertura incerta nella direzione dell’autonomia collettiva e dell’autonomia assistita e a un perdurante difetto di univoche indicazioni e di opportuni raccordi d’orientamento generale, specialmente con riguardo alla diversa disciplina vigente nel comparto delle locazioni commerciali; la reiterazione dei provvedimenti di sospensione delle procedure di sfratto e di rilascio degli immobili dati in locazione.
Il confronto con gli altri modelli europei sembra attestare una nostra tendenza a relegare il problema, la cui attuale centralità continua a essere tuttavia difficilmente confutabile, ai margini delle riflessioni intorno al diritto contemporaneo, sebbene non siano mancati, soprattutto quando siano stati provocati da suggestioni singolari, taluni rapsodici spunti innovativi.
Una piena consapevolezza critica avrebbe richiesto una percezione adeguata, ancorché minima, della storicità del fenomeno, così come dell’impossibilità di sottrarsi alla peculiare complessità dell’ordine giuridico contemporaneo.
Il diritto all’abitare, proprio per questo motivo, continua a indicare un nodo di questioni sociali, politiche e giuridiche che sono rimaste in gran parte nell’empireo dei progetti umani, sebbene resti intatta la forza (in tutto, per definizione, terrestre) del bisogno esistenziale che qui si manifesta; e del quale quell’enunciato esalta (in ogni tempo della storia sociale, politica e giuridica) la vulnerabile, ma insopprimibile, universalità antropologica.
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