Diritto canonico e diritto ecclesiastico
Nella tradizione culturale e nell’ordinamento universitario del nostro Paese, dall’Unità fino a oggi, diritto canonico e diritto ecclesiastico sono due discipline abbinate e difficilmente separabili. In realtà, la loro unione e articolazione sono l’effetto di una duplice opzione politico-legislativa dello Stato liberale: la soppressione delle facoltà statali di teologia (1873), dove il diritto canonico continuava a essere insegnato, e l’istituzione di cattedre di diritto ecclesiastico nelle facoltà giuridiche (dal 1884). A queste ultime cattedre, in analogia parziale con la Germania, il Belgio e la Francia – dove però si usavano le titolazioni più adatte di Staatskirchenrecht, police des cultes, droit civil ecclésiastique –, fu affidato il compito di studiare il complesso delle norme giuridiche relative alle chiese emanate sia dall’autorità ecclesiastica che da quella secolare.
Questa mescolanza di norme e di princìpi del diritto della Chiesa e del diritto dello Stato, dovuta alla necessità della legislazione e della dottrina civile di creare un ponte ideologicamente neutro tra due ordinamenti autonomi, ha dato luogo a un corrispondente intreccio di metodi e di contenuti nonché di scuole e di studiosi, che ha trovato la sua piena realizzazione dopo il Concordato Lateranense e l’inizio del suo declino dopo il Vaticano II. I mutamenti del rapporto della Chiesa con gli Stati e del concetto di diritto canonico, sanciti dal Concilio, hanno provocato un distanziamento tra canonisti e ecclesiasticisti; a tali fattori si è aggiunto il disgregarsi della realtà politica, che li teneva uniti, e dell’unità di impostazione, faticosamente conquistata negli anni Trenta del Novecento attorno al metodo dogmatico-giuridico. L’abbandono della costruzione dogmatica da parte della maggioranza dei canonisti, nel quadro dell’ecclesiologia conciliare, e il progressivo distacco degli ecclesiasticisti, nel quadro della reazione al formalismo, hanno indirizzato le due discipline del diritto ecclesiastico e del diritto canonico, divise dal 1936, su binari paralleli.
Merito comune di alcuni grandi maestri di entrambe le discipline – come Francesco Ruffini (1863-1934), Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), Pietro Agostino d’Avack (1905-1982) – è di avere recato importanti contributi sul piano interdisciplinare e di avere influenzato, con il loro insegnamento e con i loro allievi, l’orientamento legislativo in Italia e le scuole giuridiche della Spagna. Negli ultimi decenni alcuni studiosi, tra i quali spicca Silvio Ferrari, hanno promosso un ampliamento del campo d’indagine del diritto ecclesiastico e iniziative di collegamento scientifico a livello internazionale.
A seguito della cesura istituzionale e politica del Regno d’Italia, l’insegnamento del diritto canonico era stato soppresso e assorbito nella nuova disciplina del diritto ecclesiastico. Uno dei suoi padri fondatori, Ruffini, coltivando studi di storia e di diritto canonico, intende evidenziare, rispetto alla scuola tedesca, i tratti peculiari di concetti e istituti del diritto della Chiesa, come quelli di persona giuridica, buona fede, rappresentanza ecclesiastica. Insieme con altri studiosi laici e ecclesiastici, Ruffini partecipa al dibattito sulla codificazione canonica che, cominciata nel 1904 e conclusasi nel 1917, segna una svolta nella vita della Chiesa romana (C. Fantappiè, Chiesa romana e modernità giuridica, 2008).
Alla definizione del paradigma del diritto canonico nel Novecento italiano contribuiscono alcuni fattori specifici come l’organizzazione degli studi nelle facoltà statali di giurisprudenza e nelle facoltà pontificie di diritto canonico, la compresenza di studiosi appartenenti alle une o alle altre, il confronto scientifico con le concezioni e metodologie del diritto civile. L’evoluzione della disciplina può essere tracciata a grandi linee lungo tre epoche determinate dalla codificazione del diritto canonico (1917), dal rinnovamento dell’ecclesiologia nel Concilio Vaticano II (1963-65), dal processo di revisione del Codice pio-benedettino (1983).
Alla promulgazione del Codex segue, al pari di quanto avviene per tutte le codificazioni, un’età dell’esegesi e del commento, che va dal 1918 al 1936. Si produce una messe di studi di vario genere a opera di studiosi ecclesiastici e laici: dalle introduzioni (la più importante è quella dell’israelita Mario Falco del 1925), ai manuali e commentari, cui si dedicano specialmente le università pontificie (si segnalano le trattazioni di Benedetto Ojetti e Felice Cappello della Gregoriana, di Michele Lega e Francesco Roberti della Lateranense). Nel 1927 il diritto canonico è introdotto come disciplina autonoma nell’Università cattolica di Milano, che avrà tra i suoi maestri Vincenzo Del Giudice (1884-1970) e Orio Giacchi (1909-1982).
Un salto di qualità della disciplina è compiuto da d’Avack, che adatta in modo sistematico il metodo dogmatico-giuridico alle dottrine della Curia romana ed elabora una fondazione scientifica del diritto canonico in grado di competere con le altre discipline giuridiche insegnate nelle università statali. Egli si muove lungo due direttrici che convergono verso la costruzione del diritto canonico come ordinamento giuridico sui generis. La prima intende assimilare la teoria della Chiesa quale societas juridice perfecta, di origine medievale, al concetto moderno di «ordinamento giuridico originario, primario, autonomo». Essa trova articolata applicazione alle tre entità istituzionali definite dai Patti Lateranensi (Chiesa, Santa Sede e Città del Vaticano), che sono reinterpretate nel quadro della teoria degli ordinamenti di Santi Romano. La seconda mira a costruire – in analogia con quanto proposto da Emilio Betti per il diritto romano – una nuova ermeneutica delle dottrine curiali mediante il confronto con le teorie dogmatiche contemporanee e la loro traduzione in concetti del diritto pubblico e privato, per quanto possibile, analoghi e intercambiabili.
Negli anni d’incubazione delle teorie di d’Avack prende inizio una fase alta della riflessione, per il vivace dibattito sulla metodologia e per alcune opere rimaste di riferimento. La questione del metodo, legata alle opzioni didattiche, è sollevata specialmente da Pio Fedele tra il 1936 e il 1938. Il suo singolare pungolo critico avrà l’effetto di protrarre le discussioni fino al 1943 e di coinvolgere su varie riviste, e in specie nell’«Archivio di diritto ecclesiastico», altre figure italiane e straniere destinate a ricoprire un ruolo rilevante nella disciplina.
Fedele (1911-2004) si pone in divergente accordo con d’Avack sul problema dell’ermeneutica del diritto canonico. Se condivide la scelta del metodo giuridico, dissente però sul preteso carattere neutro della tecnica, che ha necessità di essere piegata alle peculiari esigenze e finalità dei singoli ordinamenti. Quello canonico ha una fisionomia inconfondibile, che gli deriva sia dalla natura mista, dove si intrecciano elementi teologici e giuridici, sia dagli istituti tipici (aequitas, dispensa, tolleranza, dissimulazione, buona fede ecc.), sia dallo scopo trascendente. Per questo, nell’accostarsi al diritto canonico, l’interprete deve possedere una precomprensione teologica e giuridica nonché una prospettiva giusnaturalistica ed etica che non possono combaciare con i presupposti del diritto secolare.
L’originale posizione di Fedele – che ha avuto anche il pregio d’inserirsi proficuamente in problematiche di teoria generale, come quella sulla «certezza del diritto» sollevata da Lopez de Oñate nel 1942 –, resta sostanzialmente isolata fino agli anni del Vaticano II, quando beneficerà di un rinnovato interesse. Le sofisticate elucubrazioni di civilisti e canonisti in materia matrimoniale provocano la reazione divertita e sottilmente sdegnata di Filippo Vassalli: Del Ius in corpus, del debitum coniugale e della servitù d’amore, ovverosia La dogmatica ludrica (1944, 1981).
Nella scienza canonistica del decennio postbellico si registra un assestamento di metodo e di posizioni di cui si fa fedele interprete Del Giudice nelle sue fortunate Nozioni, tradotte in lingua castigliana nel 1955. Esse delineano a lungo l’asse portante della manualistica sulla potestà di giurisdizione della Chiesa intesa come ponte che collega la produzione delle norme con la loro effettività nella società dei fedeli.
Mentre in Francia e in Germania Gabriel Le Bras e Stephan Kuttner aprono nuovi itinerari di ricerca, in Italia la canonistica laica si focalizza sulle costruzioni dogmatiche e quella ecclesiastica reagisce negativamente agli stimoli della modernizzazione tecnica. L’impegno maggiore della Scuola italiana è rivolto a rispondere alle obiezioni contro la «giuridicità» del diritto canonico avanzate dall’imperante positivismo giuridico e tendenti a minarne la validità scientifica nelle università statali (d’Avack, Giuseppe Forchielli, Pio Ciprotti). L’indagine condotta su alcuni istituti tipicamente canonistici offre un pregevole apporto alla comparazione dell’ordinamento canonico con quello civile (Giuseppe Olivero, Guido Saraceni, Piero Bellini).
L’incidenza delle deliberazioni del Vaticano II, sebbene sia di ampia portata e coinvolga tanto il diritto canonico quanto il diritto ecclesiastico, non è di facile delineazione nei modi e nel tempo. Mentre si coglie subito la crisi della concezione confessionista del ius publicum ecclesiasticum externum e il problema della sua revisione (Lorenzo Spinelli, Giuseppe Dalla Torre, Giuseppe Caputo), l’invito del concilio e del magistero di Paolo VI a tener conto della nuova ecclesiologia nell’esposizione del diritto canonico apre percorsi di ricerca tortuosi. Prima ancora dell’adeguamento del metodo, gli studiosi si pongono il problema della rilevanza giuridica delle delibere conciliari (Gaetano Lo Castro), della ricezione canonistica della concezione della Chiesa come «popolo di Dio» (La Chiesa dopo il Concilio, Atti del Congresso internazionale di diritto canonico, 14-19 genn. 1970, 1972; Giuseppe Dossetti) e del cambio di visione del matrimonio canonico in senso personalistico (Giovanni Battista De Luca, Giacchi, Ombretta Fumagalli Carulli, Caputo). Si cerca di adattare la manualistica alle idee conciliari, anche se riesce difficile costruire una sistematica corrispondente (Mario Petroncelli, Pietro Gismondi).
Nel primo lustro del post-concilio, venato di antigiuridicismo e turbato dalla contestazione ecclesiale, il diritto canonico è posto sotto processo. Gli studiosi italiani partecipano alle discussioni sulla reimpostazione della sua «natura» e del suo «concetto» aperte dallo svizzero Eugenio Corecco. Mentre la canonistica ecclesiastica si colloca a metà strada rispetto alle posizioni di Corecco – sostenitore della qualifica teologica dell’ordinamento della Chiesa-comunione –, e si orienta verso lo studio dei legami tra diritto e pastorale (Fiorenzo Romita) e tra teologia e diritto canonico (Dario Composta), la canonistica laica, forte della sua tradizione dogmatica nelle università italiane, rivendica la funzione essenziale della dimensione tecnico-giuridica. D’Avack, Giacchi, Bellini, Salvatore Berlingò, Lo Castro, se ammettono l’indissociabilità dell’ottica giuridica da quella teologica, si oppongono però al mutamento di paradigma del diritto canonico e concepiscono il suo oggetto in funzione della Chiesa-società.
Quest’angolazione ha permesso ai canonisti italiani, laici ed ecclesiastici, di concorrere al dibattito e alla revisione del Codice pio-benedettino su questioni dottrinali rilevanti, come la progettata Lex fundamentalis Ecclesia, il matrimonio, i diritti della persona, il diritto amministrativo. La sostanziale coincidenza temporale tra la promulgazione del Codice canonico del 1983 e la revisione del Concordato Lateranense del 1984 ha stimolato, per l’intreccio di alcune materie, l’opera di rinnovo della manualistica e l’apertura di collane editoriali da parte di Francesco Margiotta Broglio e di Rinaldo Bertolino.
Il comune ancoraggio alla metodologia giuridica, anziché uguagliare le posizioni, ha fatto registrare una varietà di orientamenti. Essi si possono riassumere nell’integrazione del dato teologico con gli schemi giuridici (Giorgio Feliciani), nella costruzione di una teoria dell’ordinamento ecclesiale come ordine di salvezza (Rinaldo Bertolino), nella rivistazione del diritto canonico alla luce della combinazione di giustizia e carità (Berlingò), nell’interpretazione dell’ordinamento della Chiesa quale fenomeno pluralistico frutto della dialettica tra la continuità del diritto divino e la discontinuità del diritto umano (Piero Antonio Bonnet).
Relegati sullo sfondo i dibattiti metodologici, l’attenzione si focalizza sulle innovazioni del nuovo Codice. Invece di dedicarsi ai commentari esegetici – come fanno le scuole pontificie –, gli studiosi laici preferiscono affrontare questioni dottrinali e dogmatiche. La crisi della nozione di ordinamento in senso normativista stimola il ripensamento di alcune fonti o istituti tipici: legge canonica, consuetudine, aequitas, dispensa, restitutio in integrum ecc. (Giuseppe Comotti, Bonnet, Berlingò, Andrea Bettetini); al tempo stesso si tenta di ridefinire alcune categorie fondamentali della riforma legislativa del 1983, come le relazioni tra potestà di giurisdizione e potestà sacra (Saraceni, Gianfranco Ghirlanda), tra principio gerarchico, collegialità e principio sinodale (Feliciani, Gian Piero Milano, Ferrari, Carlo Cardia). Suscita attenzione il tema dei diritti e doveri dei fedeli sotto il profilo della preminenza dei doveri (Bellini), del rapporto problematico tra soggetto e persona (Lo Castro), dell’azione amministrativa (Paolo Moneta), della tutela delle situazioni soggettive (Bertolino).
Un contributo specifico, di tipo ricostruttivo e sistematico – che tiene particolare conto della giurisprudenza della Rota romana – è stato dato sulla materia matrimoniale (Bonnet, Moneta, Sandro Gherro). Partendo dai problemi irrisolti della disciplina sul matrimonio canonico, un giovane studioso, prematuramente scomparso, Edoardo Dieni, ha evidenziato le attitudini dissimulatorie dell’autorità ecclesiastica di fronte allo scarto tra realtà effettuale e norme o precetti. Negli ultimi decenni, anche a causa degli scandali commessi da chierici, si è registrato un sensibile cambio di tendenza nel diritto penale canonico rispetto all’ottica postconciliare che tendeva a ridimensionare la nozione di pena (Franco Edoardo Adami, Raffaele Coppola, Velasio De Paolis, Davide Cito).
Nel campo degli studi storico-giuridici, la prestigiosa tradizione inugurata da Ruffini e da Jemolo, continuata da Cesare Magni e da Catalano, è proseguita principalmente con Bellini. Oltre a ricostruire in senso storico-dogmatico istituti peculiari del diritto della Chiesa, egli si è dedicato a una rivisitazione critica delle dottrine teocratiche medievali e del loro adattamento nell’età moderna e contemporanea.
Nel corso del Novecento si è assistito a un lento processo che ha condotto dalla combinazione alla separazione del diritto ecclesiastico e del diritto canonico. Questo fenomeno è certo servito a riscoprire la natura specifica dell’ordinamento della Chiesa cattolica e ad affinarne la metodologia; nondimeno esso non deve comportare la sua separazione dal sapere giuridico, pena una ‘clericalizzazione’ del diritto canonico, che ha sempre mantenuto uno statuto di medietà tra la teologia e il diritto. Il pericolo più grave, a esso collegato, è però quello della fine dell’insegnamento canonistico nelle facoltà statali. Ciò significherebbe la perdita di un capitale culturale di fondamentale importanza per la comparazione storica e giuridica nella prospettiva di un diritto comune europeo e della ricerca di soluzioni alla globalizzazione giuridica.
Il paradigma disciplinare del diritto ecclesiastico è complesso. Sul piano istituzionale e normativo giocano un ruolo fondamentale il modello e la forma di Stato sia nel configurare il rapporto con le istituzioni religiose sia nel concepire e attuare la libertà religiosa così come sono espressi dalla legislazione ecclesiastica civile. Sul piano scientifico, il diritto ecclesiastico risulta dipendere sia dalle relazioni con le altre discipline giuridiche, sia dal concetto di ordinamento e di diritto. L’analisi sarà perciò strutturata sull’asse diacronico modello di Stato/istituzioni religiose/concetto di libertà, e sull’asse sincronico di ordinamento e diritto.
Il primo tratto caratteristico della disciplina in Italia è la iniziale debolezza rispetto alla tradizione della Germania e della Francia: una disciplina nata giovane, a causa del ritardo dell’unità politica, con uno statuto non ben definito e con una limitata portata giuridica, legata alla definizione delle relazioni tra Stato e Chiesa nonché alle controversie sull’applicazione delle leggi eversive del patrimonio sacro e dei controlli giurisdizionali dello Stato sull’organizzazione ecclesiastica.
In questo contesto il diritto ecclesiastico riceve una duplice e, per certi versi, antinomica fondazione da parte di Ruffini e di Francesco Scaduto (1858-1942). Essi divergono sull’impostazione metodologica (storicista o positivista, secondo che il diritto ecclesiastico sia considerato come il risultato di un’evoluzione storica secolare che si afferma entro un determinato territorio e presso un particolare popolo oppure si affermi il principio del monopolio statale sul diritto e la Chiesa rappresenti un’associazione meramente privata), sulle fonti della disciplina (unitaria o dualista, in base alla compresenza o esclusione del diritto canonico rispetto al diritto statuale), sull’orizzonte ideologico (liberale o giurisdizionale).
Da queste premesse derivano due valutazioni differenti della realtà istituzionale italiana («singolarità della Chiesa cattolica» per Ruffini, riduzione di tutte le Chiese a associazioni private per Scaduto) e della polarità Stato-libertà religiosa (per Ruffini la libertà deve costituire l’idea-base del diritto, per Scaduto lo Stato è posto al centro del diritto e la libertà è una concessione ai singoli cittadini). La tematica delle libertà individuali è sviluppata da Ruffini in volumi del 1901 e 1924 divenuti classici e tradotti in varie lingue.
Nel modello dello Stato liberale il filtro ideologico degli studiosi delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa si esercita attorno al significato del separatismo. Questa nozione, costruita su postulati razionali e astratti derivati dal giusnaturalismo del Settecento, viene criticata da Mario Falco (1884-1943), seguace di Ruffini e di Croce, che ritiene possibile studiare concetti e tipologie della disciplina solo rapportandosi alle «condizioni storiche determinate in ciascun ordinamento» e «per via di induzione, partendo dagli ordinamenti giuridici positivi» (M. Falco, Il concetto giuridico di separazione della Chiesa dallo Stato, 1913, p. 22).
Il maggiore stimolo all’impostazione della disciplina viene però dalla teoria pluralista degli ordinamenti giuridici di Romano. Affermando l’esistenza di ordinamenti diversi da quello statuale, la scuola italiana non solo si differenzia dalla dottrina francese e tedesca ma offre un apporto originale e duraturo alla ‘teoria dualista’ delle relazioni Stato/Chiesa. Il problema del valore del diritto canonico nell’ordinamento statuale – che era stato già definito centrale da Ruffini – occupa in modo prevalente la dottrina degli anni Trenta in conseguenza del Concordato Lateranense del 1929.
Dopo la fase storicistica e positivista, gli ecclesiasticisti aderiscono alla dimensione dogmatica e si lasciano influenzare dall’orientamento internazionalista. Per operare i necessari collegamenti tra gli ordinamenti primari dello Stato e della Chiesa adattano i concetti di «rinvio» e di «presupposizione di fatto» mutuati da Ernst Zitelmann, Heinrich Triepel e Romano. Su queste tematiche interviene anche l'internazionalista Giorgio Balladore Pallieri.
Aldo Checchini propone di passare a un’elaborazione sistematica del diritto ecclesiastico che trascenda i «criteri empirici e non scientifici» ed eviti la confusione degli «elementi giuridici con quelli politici». Contro questa posizione si pone Jemolo che, consapevole dell’incompletezza delle impostazioni formalistiche nelle relazioni fra Stato e Chiesa, finisce per farsi coinvolgere nella finissima polemica intorno al valore da attribuire ai concetti giuridici.
Nonostante queste forti riserve, la sfida formalistica viene ripresa da Luigi De Luca (1915-2004), che intende verificare la validità degli schemi concettuali della dottrina internazionalista alla luce del raffronto tra la Reine Rechtlehre di Hans Kelsen e la scuola dogmatica italiana, e in modo pionieristico da Cesare Magni (1901-1982), che elabora una «teoria generale» del «diritto ecclesiastico civile» con il ricorso all’analisi del linguaggio di Rudolf Carnap e di Charles W. Morris, e alla dottrina pura di Kelsen e di Francesco Carnelutti. Successivamente De Luca muterà indirizzo recependo la categoria di «esperienza giuridica» e stabilendo il nuovo baricentro del diritto ecclesiastico nel rapporto del sentimento religioso con le trasformazioni della realtà sociale.
L’impostazione dogmatica del diritto ecclesiastico rispondeva a molteplici necessità. Serviva a legittimare la disciplina rispetto alle altre materie giuridiche, facilitava le relazioni tra lo Stato e la Chiesa aprendo la via alla soluzione di secolari controversie di principio (come il riconoscimento statale degli enti ecclesiastici), forniva una soluzione armonica alla sistematica con lo svolgimento dell’esame parallelo e coordinato dei due complessi di norme della Chiesa e dello Stato.
Al pari delle altre discipline giuspubblicistiche, l’ideologia fascista condiziona l’orientamenti degli studi ecclesiasticisti. Da una parte finisce per polarizzare l’interpretazione della legislazione concordataria o in senso cattolico (Del Giudice) o in senso statualistico (Falco), a seconda che si insista sulla qualificazione confessionista dell’attività dello Stato oppure sulla sua autonomia, e quindi sui limiti di interesse e di ordine pubblico che l’attività della Chiesa incontra nella sua attività. Dall’altra comporta una tendenziale restrizione del campo di studio al diritto della Chiesa cattolica e in specie alla vasta rete dei suoi enti, finendo per trascurare la tutela della libertà religiosa dei non cattolici, che pure avevano visto positivamente la nuova legislazione sui «culti ammessi» (Mario Piacentini). La conclusione è che, dopo il 1929, l’essenza del diritto ecclesiastico non è più la libertà religiosa.
La fase di transizione che succede al crollo del regime fascista, tra il 1945 e il 1947, con l’approvazione della Costituzione repubblicana, prospetta una nuova impostazione dei rapporti tra Stato e Chiesa. Cambia l’idea di Stato in funzione dei valori enunciati nella prima parte della Carta e si introduce con gli artt. 7 e 8 una combinazione giuridica in grado di superare il confessionalismo concordatario e di offrire alle altre confessioni religiose strumenti di garanzia per soddisfare i propri interessi fondamentali. Nell’immediato la dottrina si concentra sul problema della rilevanza costituzionale dei Patti Lateranensi, mentre il problema della compatibilità delle vecchie con le nuove norme resta sullo sfondo, complice l’arroccamento della giurisprudenza della Cassazione su posizioni conservatrici. Esso sarà avviato a soluzione con l’attività della Corte costituzionale.
Nella seconda parte degli anni Sessanta si attua un mutamento di paradigma della disciplina con l’emancipazione di buona parte della dottrina dagli schemi internazionalistici e l’ancoraggio alle norme costituzionali che regolano la posizione dell’individuo nei confronti del fenomeno confessionale e religioso. Il recupero delle posizioni giuridiche soggettive si deve principalmente a un maestro come Jemolo e ai suoi allievi Luigi Scavo Lombardo e De Luca. In un contesto applicativo della legislazione che penalizzava le minoranze religiose, e in particolare quelle evangeliche (Giorgio Peyrot), svolge un ruolo precorritore la tematica della parità di trattamento dei singoli cittadini appartenenti o non appartenenti alle confessioni religiosi (Francesco Finocchiaro).
Sarà sulle tensioni tra i due poli della posizione giuridica attribuita alla Chiesa e dei princìpi di libertà religiosa e di uguaglianza giuridica, presenti entrambi nella Costituzione, che si eserciterà la dottrina ecclesiasticista successiva, anche se non si interrompe il filone degli studi concordatari (Spinelli e Tommaso Mauro). «Interesse religioso» diventa una categoria capace di mediare la funzione di tutela soggettiva dei cittadini e di tutela oggettiva dei gruppi religiosi.
Negli anni Settanta i ritardi del processo di revisione del Concordato Lateranense e delle trattative per le intese con le confessioni diverse dalla cattolica, favoriscono una frantumazione delle posizioni. Si profilano due vie abbastanza diverse, secondo che si mantenga più stretto il riferimento agli strumenti pattizi previsti dalla Costituzione – in questo caso i due concetti di appartenenza e di pluralismo confessionale formano il comune denominatore (Cesare Mirabelli) – oppure si teorizzi un’azione dello Stato diretta a garantire non solamente il principio di equivalenza delle varie opzioni spirituali ma a tutelare i cittadini nella e dalla religione, come il dissenso e l’ateismo (questa la prima fase di Carlo Cardia).
Delle due correnti riformiste, la prima privilegia il carattere complessivo di legislatio libertatis del diritto ecclesiastico (De Luca seguito da Enrico Vitali) e auspica una transizione dall’orientamento confessionalista al pluralismo confessionale (Giuseppe Casuscelli), relegando in secondo piano il tema delle relazioni tra gli ordinamenti, che sono ugualmente affermati dalla Carta costituzionale (Giacchi e Giuseppe Dalla Torre). La seconda corrente teorizza la nozione di una legge comune sul fatto religioso (Bellini e Francesco Onida) e pone al centro della riflessione disciplinare il rapporto tra diritti civili e fattore religioso (Sergio Lariccia e Antonio Vitale).
Questa concezione del diritto ecclesiastico ha l’effetto di spostare l’asse del dibattito dal rapporto Stato e Chiesa, ancora centrale negli anni Sessanta, a quello del rapporto individuo-gruppi-Stato (Individuo, gruppi, confessioni religiose nello Stato democratico, Atti del Convegno nazionale di diritto ecclesiastico, 30 nov.-2 dic. 1972,1973). Lo Stato democratico e le fonti della Costituzione divengono il soggetto politico e lo strumento giuridico su cui fare leva per attuare l’‘autorealizzazione’ dell’uomo (emblematico il volume di autori vari Teoria e prassi delle libertà di religione del 1975).
Entrambe le correnti riformiste auspicano una revisione del metodo e dello statuto del diritto ecclesiastico, in linea con la «rivolta contro il formalismo» che segna la cultura di quegli anni e con la rivalutazione dei profili di giustizia sostanziale. La staticità del metodo positivistico-dogmatico è ritenuta funzionale al disegno di conservazione dell’assetto pattizio dei rapporti Stato-Chiesa. Sulla base delle teorie di Lawrence Friedman si fa strada, anche negli ecclesiasticisti, la commistione tra diritto e politica del diritto. In quest’ottica, da un lato, si formulano proposte legislative che esorbitano dall’analisi dell’ordinamento vigente e che rientrano piuttosto nel campo politico, dall’altro si introducono in dottrina valutazioni extragiuridiche – di natura propriamente religiosa, come nel caso dei «cattolici del dissenso» – che non si confrontano con la struttura dell’ordinamento costituzionale e con gli assetti sociali.
Con il recupero, ancorché tardivo, del tema costituzionalistico delle «società intermedie» si pongono le premesse per valorizzare la dimensione pluralista dello Stato mediante la tutela degli interessi collettivi e particolari, tra cui quelli specificatamente religiosi (Moneta). Le novità legislative del 1984-1985 – revisione del Concordato del 1929 e intese con le confessioni non cattoliche – , se per un verso attestano l’articolazione pluralistica della società, dall’altro esprimono la rilevanza del principio pattizio e l’autonoma valenza contrattuale riconosciuta dallo Stato sociale alle confessioni religiose (queste le posizioni maturate da Cardia). Il nuovo corpus legislativo costringe a ripensare i rapporti concordatari tra Stato e Chiesa in quelli tra ordinamento statale e ordinamenti confessionali; fa riemergere la dimensione istituzionale del fattore religioso; ripropone problemi di definizione delle categorie della disciplina; riapre il problema delle fonti del diritto ecclesiastico e della costruzione armonica della disciplina del fenomeno religioso che, col moltiplicarsi delle Intese, appare esposta ai rischi di una «deformazione corporativa del modello pluralista» (Silvio Ferrari).
La nuova ottica ideologica privilegia una duplice attività dello Stato democratico e sociale: la funzione garantista del diritto nell’apprestare adeguate tutele/guarentigie per la libertà religiosa e l’autodeterminazione dell’individuo, la funzione interventista nell’attribuzione di sostegni finanziari rivolti a favorire attività e comportamenti idonei alla realizzazione del fine di religione. L’individuo, analizzato non isolatamente ma nelle sue interrelazioni con i gruppi sociali, è posto al centro della considerazione giuridica sotto il profilo strutturale e dinamico (Sergio Lariccia, Antonio Vitale, Francesco Finocchiaro, Cardia).
Negli anni Novanta la disciplina è esposta a una contrazione interna e a una serie di sollecitazioni esterne. Per un verso risulta bloccata dallo stallo legislativo dei governi (sul matrimonio concordatario, sulla libertà religiosa, sulla revisione degli articoli della Costituzione relativi alle questioni religiose), che lasciano incompiuto il disegno di riforma della legislazione ecclesiastica; dall’altro verso è obbligata a confrontarsi con tre dimensioni emergenti:
a) la diffusione di nuovi movimenti religiosi perlopiù extraeuropei, che spesso esorbitano dalle tradizionali forme del sacro e pongono spinosi problemi di ricognizione scientifica dentro la categoria di religione nonché di inquadramento normativo;
b) il processo di integrazione e di unificazione europea, che trasforma lo Stato-nazione nell’Europa degli Stati, con una rivoluzione nel sistema delle fonti causata da una pluralità di ordinamenti e di livelli legislativi tra loro comunicanti (internazionale, sopranazionale, statale, infrastatuale) (Francesco Margiotta Broglio, Marco Ventura);
c) la nuova riflessione sulla laicità dello Stato alla luce dei fenomeni della riconquista della sfera pubblica da parte delle religioni, dell’avanzata dell’Islam, del recupero del peso mediatico e politico della Chiesa (Ferrari, Dalla Torre, Mario Tedeschi, Cardia, Casuscelli).
Agli inizi del 21° sec. gli studiosi di diritto ecclesiastico hanno intrapreso un percorso di ridefinizione del proprio oggetto di studio su tre direttrici: l’allargamento delle usuali tematiche d’indagine dei rapporti Stato/Chiesa alla prospettiva europea, l’apertura alla comparazione dei diritti sacri o religiosi (per iniziativa di Silvio Ferrari), l’interesse verso questioni emergenti della società multiculturale (l’obiezione di coscienza, il biodiritto, la cittadinanza, i simboli religiosi, la sicurezza). Questi orientamenti si ricollegano al filone comparatistico presente già in Ruffini e sviluppato, tra gli altri, da Onida, Giovanni Barberini, Giovanni Codevilla, Roberto Mazzola, Alessandro Ferrari, Paolo Cavana. Ma sottendono l’accresciuta sensibilità verso la trasformazione del dualismo religione/diritto da opzione istituzionale in opzione culturale.
Nel quadro dell’«enciclopedia giuridica», quale si è andata configurando nel Novecento, la disciplina diritto ecclesiastico ha rivestito una posizione eccentrica, sia per la dominante prospettiva statualistica del diritto, che non solo legava il diritto alla statualità ma anche la forma della giuridicità alla legge dello Stato, sia per la commistione intrinseca, nel suo statuto disciplinare, di ordinamenti tra loro differenti come quello dello Stato e della Chiesa. Sotto questo profilo il diritto ecclesiastico si è trovato nella condizione implicita di fungere da coscienza critica del dogma statalista e del positivismo giuridico cui si alimentava, in quanto costituiva la spia migliore per illuminare uno scarto imbarazzante tra ordinamento e strutture dell’esperienza sociale (Mario Ricca). La crisi della sovranità statuale e il fenomeno di una società multireligiosa aprono nuovi scenari. La dimensione religiosa, in precedenza neutralizzata con procedure tecnico-formali, può essere incanalata e coordinata, accanto ad altre esperienze vive della società, nel sistema di produzione del diritto. La libertà religiosa, perdendo la rigida classificazione binaria pubblico/privato in cui l’aveva costretta lo Stato moderno, può assumere una valenza pubblica oggetto di regolamentazione normativa. Da luogo deputato a inquadrare la realtà religiosa nelle strutture dello Stato, il diritto ecclesiastico diviene un osservatorio privilegiato delle trasformazioni giuridiche.
Per quanto riguarda il diritto canonico:
M. Falco, Introduzione al Codex iuris canonici, Milano 1925, Bologna 1992.
F. Ruffini, Scritti giuridici minori, 2 voll., Milano 1936.
P. Fedele, Discorso generale sull’ordinamento canonico, Padova 1941.
A.C. Jemolo, Il matrimonio canonico, Milano 1941, Bologna 1993.
P.A. d’Avack, Cause di nullità e di divorzio nel diritto matrimoniale canonico, Firenze 1952.
G. Olivero, Dissimulatio e tolerantia nell’ordinamento canonico, Milano 1953.
P.A. d’Avack, Corso di diritto canonico, Milano 1956 (poi Trattato di diritto canonico, Milano 1959, 1980).
G. Saraceni, Riflessioni sul fòro interno nel quadro generale della legislazione della Chiesa, 1961, 2002.
P. Fedele, Lo spirito del diritto canonico, Padova 1962.
P. Bellini, L’obbligazione da promessa con oggetto temporale nel sistema canonistico classico con particolare riferimento ai secoli XII e XIII, Milano 1964.
La Chiesa dopo il Concilio, Atti del congresso internazionale di diritto canonico, Roma (14-19 gennaio 1970), 3 voll., Milano 1972.
P. Moneta, Il controllo giurisdizionale sugli atti dell’autorità amministrativa nell’ordinamento canonico, Milano 1973.
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