Abstract
Secondo la concezione formalista del diritto, l’ordinamento giuridico si compone di diverse branche: le regole che riguardano i rapporti tra i privati compongono il diritto privato – che a sua volta comprende il diritto civile; le regole che riguardano i rapporti tra il privato e lo Stato o gli altri enti pubblici compongono il diritto pubblico. Definire il ‘diritto’, ammesso che sia possibile, è impresa assai difficile; le definizioni sono sempre riduttive e semplicistiche, e quindi pericolose, in quanto la sintesi rischia di appiattire e falsificare la realtà. Pertanto, la nozione deve essere ‘decodificata’, esaminata cioè nei diversi contesti e nelle diverse accezioni in cui essa è impiegata. Diritto è al tempo stesso una scienza (sociale), un sinonimo di legge, una prerogativa del singolo, un settore dell’ordinamento, ma anche il complesso dei modi per studiare ed applicare la legge e il complesso di tutte le regole che non si esauriscono in essa; il diritto comprende anche i valori sui quali esso si basa.
Per definire il diritto civile (v. anche Diritto civile 2. Storia) occorre muovere dalla accezione di diritto che si prende in considerazione. Diritto è un termine evocativo: gli antropologi spiegano come, nelle cd. società primitive, diritto e magia siano un tutt’uno, difficilmente separabili. Solo con le prime raccolte di regole di comportamento, fissate su supporti duraturi, scolpite nella pietra o incise nel bronzo, il diritto acquista una fisionomia propria: gli esempi più eclatanti alludono al codice di Hammurabi, alla legge delle XII Tavole, e così via.
Nel linguaggio colloquiale si fa un uso frequente dell’espressione ‘diritto’; l’espressione deve essere decodificata, esaminata cioè nei diversi contesti e nelle diverse accezioni in cui essa è impiegata: ad es., (i) si usa questo termine con riguardo al complesso delle regole che vigono in un determinato Paese in un determinato momento storico (‘il diritto degli Irochesi è fondato sulla possibilità di sopravvivenza attraverso la caccia’) e cioè nell’accezione di diritto oggettivo; oppure (ii) si usa con riguardo alla qualificazione di un sistema di potere (‘lo Stato di diritto, contrapposto allo Stato assoluto e allo Stato di polizia’), oppure (iii) come complesso delle forme di protezione del singolo di fronte allo Stato o di fronte alla collettività, alla comunità, alla maggioranza, e cioè nell’accezione di sistema di garanzie; (iv) oppure si usa con riguardo alla titolarità di poteri in capo ad un singolo soggetto (‘è mio diritto attraversare il campo’), e cioè nell’accezione di diritto soggettivo; (v) oppure si usa con riguardo alle regole che si è data una aggregazione (‘dell’associazione per il miglioramento della qualità della vita urbana è membro di diritto il sindaco della città’), e cioè nell’accezione di conformità ad uno statuto, ovvero di automaticità nella scelta; ma le accezioni sono molte, e non è qui il caso di riprodurle compiutamente (Guastini, R., Abrogazione, in Tratt. Iudica-Zatti, Glossario, Milano, 1994, 99 ss.; Lipari, N., Per un tentativo di definizione del “diritto”, in Soc. dir., 1994, 7 ss; Alpa, G., Storia, fonti, interpretazione, in Trattato di diritto civile, t. I, Milano, 2000).
Poiché i corsi di Istituzioni di diritto privato conservano ancora la finalità di introdurre allo studio del diritto tout court, occorre svolgere qualche considerazione sulla definizione di diritto, sulla sua produzione, sulla sua interpretazione e sulla sua elaborazione da parte degli scienziati del diritto (Pacchioni, G. – Grassetti, C., Diritto civile, in Nss.D.I., Torino, 1960, 800; Irti, N., Diritto civile, in Dig. priv., Torino, 1990, 128; Id., Codice civile, in Enc. dir., VII, Milano, 1961, 240) (i giurisperiti o giuristi, essendo la scienza giuridica denominata “giurisprudenza” in senso aulico), con l’intesa che un discorso più articolato su questi temi è svolto nell’ambito dei corsi di Istituzioni di diritto pubblico, di Diritto costituzionale, di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto.
Definire il diritto (inteso nell’accezione sub i ), come diritto oggettivo) ammesso che sia possibile, è impresa assai difficile, non solo perché le definizioni sono sempre riduttive e semplicistiche, e quindi pericolose, e non solo perché la sintesi rischia di appiattire e falsificare la realtà; ma soprattutto perché i giuristi sono continuamente alle prese con questo problema ed ogni tentativo di risolverlo in modo definitivo appare illusorio; osservazione che faceva dire nel Settecento a Emanuele Kant che, «i giuristi sono sempre intenti a definire il proprio concetto di diritto», e a Geremia Bentham che i «giuristi parlano del nulla» (Calabresi, G., Una introduzione al pensiero giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 199, 661).
Secondo la concezione formalista – la concezione ancor oggi più diffusa nella cultura giuridica del nostro Paese – il diritto è un complesso di regole di condotta ordinate in forma piramidale, a seconda della loro forza, che traggono la loro validità dalla regola fondamentale (‘norma fondamentale’) che assume la denominazione di norma costituzionale (e, là dove esista una costituzione scritta, per l’appunto ‘Costituzione’). La regola giuridica si differenzia dalle altre regole che si osservano nell’ambito di una comunità perché ha caratteri propri: è generale, astratta, coercibile, nel senso che la sua osservanza è obbligatoria per tutti gli appartenenti alla comunità e in caso di violazione, è prevista una sanzione per il trasgressore.
Secondo la concezione funzionalista, il diritto è un complesso di regole che serve a risolvere problemi, in cui la tecnica è unita agli scopi metagiuridici che si vogliono realizzare.
Secondo la concezione realista – ancor poco diffusa nella cultura giuridica del nostro Paese, ma molto apprezzata in Scandinavia e negli Stati Uniti - il diritto è un complesso di regole immaginarie, che la comunità ritiene di dover osservare perché convinta che siano indispensabili alla conservazione e alla prosperità di una comunità; non è un sistema di regole avulse dalla realtà, ma un sistema di soluzioni dei conflitti di interessi radicati nella realtà.
Secondo la concezione economica del diritto, anch’essa di provenienza nord-americana – a cui talvolta si farà cenno – il diritto è un complesso di regole che traduce in formule comportamentali le esigenze economiche, è in altri termini un sistema di allocazione, cioè di distribuzione dei beni, nel modo ottimale, cioè nel modo più efficiente secondo la concezione di Pareto.
Si conoscono molte altre importanti concezioni del diritto: da quella antropologica a quella ermeneutica, da quella assiomatica a quella tassonomica, a quella giusnaturalista. Ciascuna di esse si avrà modo di rivelare i suoi contenuti interessanti nel corso di questa esposizione (Ferrajoli, L., La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari, 1999).
Nel sentire comune il diritto si confonde con la legge, anzi, il linguaggio più povero costruisce l’immagine della legge come l’unica fonte del diritto, autoritativa, associata alla sanzione, tendenzialmente oppressiva. Tecnicamente parlando, legge è espressione polisensa: vuol dire regola giuridica, vuol dire comando, precetto, costrizione; diritto è al tempo stesso una scienza (sociale) , un sinonimo di legge (ad es. il diritto italiano, il diritto francese), una prerogativa del singolo (il diritto di proprietà di Tizio), un settore dell’ordinamento (il diritto di proprietà) ma anche il complesso dei modi per studiare e applicare la legge e il complesso di tutte le regole che non si esauriscono nella legge. Il diritto comprende anche i valori sui quali esso si basa.
Secondo la teoria formalista, le regole giuridiche, nel loro complesso, formano un ordinamento giuridico. Si tende cioè a considerare le regole giuridiche, emanate dai diversi organi competenti a produrle, o create dai privati, cioè dai singoli che non rivestono alcun ruolo pubblico, per spontanea osservanza (usi o consuetudini), come facenti arte di un ‘tutto’ che ha una natura organica, una struttura e una compattezza, una sua propria completezza.
La nozione di ‘ordinamento giuridico’ è stata studiata approfonditamente da un giurista che svolse un ruolo importante nel corso del primo Novecento, ricoprì rilevanti ruoli istituzionali, fu anche Presidente del Consiglio di Stato, oltre che docente di diritto pubblico e diritto costituzionale, Santi Romano (1875-1947). Così rappresentato, l’ordinamento giuridico è frutto di una ideologia, che vede nello Stato il suo principale artefice. Ma si deve alla intuizione di Santi Romano l’idea che uno stesso soggetto possa essere assoggettato a diversi ordinamenti giuridici, purché essi abbiano una natura diversa e siano governati da istituzioni diverse. E’ la teoria della “pluralità” degli ordinamenti giuridici.
L’ordinamento giuridico è dunque collegato ad un Paese, allo Stato. Ma nell’ambito di uno stesso territorio possono convivere più ordinamenti. Così, in Italia convivono: l’ordinamento dello Stato; l’ordinamento delle Regioni (nei limiti di autonomia stabiliti dalla Costituzione, ex art. 117); l’ordinamento delle autonomia locali; l’ordinamento dei privati, dato dalle regole che i privati nei limiti stabiliti sempre dall’ordinamento statuale possono liberamente scegliere; l’ordinamento sportivo, costituito dal complesso delle regole che disciplinano i diversi sport (l’autonomia dell’ordinamento sportivo è più nominale che reale. L’orientamento della giurisprudenza fa salve le regole che appartengono alle associazioni sportive alle loro aggregazioni e agli organi disciplinari, ma con limiti assai netti: v. Tar Lazio, 11.4.2004, n. 2987; v. Cons. St., ord., 14.7.2003, n. 2694.; lo stesso legislatore statuale è intervenuto per delimitare i confini tra l’ordinamento giuridico - dello Stato e delle Regioni - e le regole che appartengono all’ ordinamento sportivo : v. il d.l. 19.8.2003, n. 220, convertito con modifiche in l. 17.10.2003, n. 280), e anche ordinamenti ‘stranieri’, come l’ordinamento della Chiesa cattolica (costituito dal complesso delle regole del diritto canonico), l’ordinamento internazionale, costituito dalle regole composte dai trattati, dalle convenzioni, dalle consuetudini, dalle prassi, dai principi del diritto internazionale.
Da quando, nel 1957, con il Trattato di Roma, il nostro Paese ha aderito alla CEE (Comunità economica europea) poi CE (Comunità europea), ed ora UE (Unione europea) in Italia vige anche l’ordinamento comunitario, che non si sovrappone all’ordinamento interno, ma ad esso si affianca, in quanto, per le materie di competenza dell’Unione europea, il nostro Paese ha rinunciato alla propria sovranità (v. anche Diritto civile 3. Ordinamento comunitario)
Secondo la concezione tradizionale e formalista del diritto, l’ordinamento giuridico si compone di diverse branche: le regole che riguardano i rapporti tra i privati (come, ad es., le regole sulla proprietà, sui contratti, sulla responsabilità) compongono il diritto privato; e questo a sua volta comprende il diritto civile, il diritto commerciale, il diritto industriale, il diritto marittimo, etc.; le regole che riguardano i rapporti tra il privato e lo Stato o gli altri enti pubblici (ad es., le Regioni, le Province, i Comuni) compongono il diritto pubblico; e questo a sua volta comprende il diritto costituzionale, il diritto amministrativo, il diritto penale, il diritto processuale civile e penale, il diritto internazionale, etc.
Il diritto non riguarda solo i rapporti economici e non ha solo contenuti patrimoniali. Ma nella maggior parte dei casi le regole giuridiche hanno ad oggetto rapporti a contenuto patrimoniale e situazioni create dagli scambi di mercato. Che rapporto si istituisce tra regole giuridiche e regole economiche? Può esistere un mercato spontaneo senza diritto?
Uno degli esempi che qualche autore offre per dimostrare che può esistere un mercato anteriormente all'intervento del legislatore, e quindi che esistano regole economiche che anticipano l'intervento - ove necessario - delle regole giuridiche, riguarda i grey markets «indicati dagli stessi giuristi anglosassoni come il luogo dove c'è il mercato ma non c'è ancora il diritto» (Rossi, G., Diritto e mercato, in Riv. soc., 1998, 1446); una sorta di autoregolamentazione dei mercati finanziari che dà luogo ad un ordinamento, scevro da interventi legislativi.
Mi sembra difficile poter sostenere che il mercato, indipendentemente dalla circostanza che possa essere considerato locus naturalis, piuttosto che locus artificialis, possa sussistere senza regole giuridiche. Per poter rendere certi e immodificabili gli scambi, è necessario che essi siano fondati su regole giuridiche. Ciò che può variare è il come regolare il mercato, e da parte di chi introdurre le regole.
Di qui, per chi crede nel mercato come entità autonoma, squisitamente economica, la registrazione del suo fallimento: in ogni Paese dell'Unione, e l'Unione stessa con le sue regole, ha preso atto di questo suo fallimento ed ha ritenuto di intervenire in via legislativa, perché gli operatori, lasciati a se stessi, possono alterare le condizioni ottimali per un mercato efficiente. È necessaria una regolazione del mercato (Irti, N., L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998; Ferrarese, M.R., Diritto e mercato, Torino, 1992).
Regolazione del mercato non significa però regolazione con leggi dello Stato e neppure intervento dello Stato nell’economia. Siamo tutti ormai convinti che il diritto – inteso nella sua accezione più ampia – sia costituito da una molteplicità di fonti, da quelle legislative, scritte, a quelle non scritte, di cui fanno parte l'interpretazione, i principi generali, le prassi, etc. Ma tutte queste fonti, anche quelle non scritte, in tanto possono esprimere la loro efficacia vincolante in quanto lo Stato le riconosca e le legittimi. E lo Stato assume molteplici forme e vesti: si presenta sotto le spoglie del legislatore parlamentare, del legislatore governativo, delle autorità amministrative indipendenti, del giudice che sindaca i rapporti tra privati, del vincolo riconosciuto agli accordi collettivi, alle negoziazioni tra privati, e così via.
Lo Stato si presenta anche sotto le spoglie dell'imprenditore, sotto le spoglie dell'apparato che offre sovvenzioni e soccorso alle fasce socialmente deboli, e così via. Lo Stato si presenta anche come regolatore, sia dall'alto, sia dal basso. La riduzione dell'intervento dello Stato, tanto conclamata dai liberisti puri, riguarda sia l'intervento dello Stato come imprenditore, sia l'intervento dello Stato come impositore di lacci e lacciuoli, sia l'intervento dello Stato diretto ad alterare le regole della libera concorrenza.
La definizione giuridica di mercato implica che gli interessi espressi dal mercato possano raggiungere un equilibrio ottimale solo se essi sono posti in grado di combattere ad armi pari. Per poterlo fare, occorre l'intervento dello Stato, altrimenti gli interessi forti soffocherebbero gli interessi deboli, prevaricandoli e quindi violando i valori fondamentali di ogni Paese occidentale, che sono, riassuntivamente, i valori della persona.
Sulla base di queste premesse metodologiche, sinteticamente richiamate, possiamo isolare gli indirizzi che si occupano dei seguenti temi: (i) l'allocazione delle risorse, la concorrenza e la redistribuzione del reddito (Guesnerie, R., L’economia di mercato, Milano, 1998); (ii) l'efficienza economica e la libertà (Friedman, M., Efficienza economica e libertà, trad. it., Firenze, 1967; von Hayek, F.A., Legge, legislazione e libertà, trad. it., a cura di Monateri, Milano, 1986); (iii) l'intervento dello Stato e la «rivincita del mercato» (Bosanquet, N., La rivincita del mercato, trad. it., Bologna, 1985; la critica a Bosanquet è ferocemente formulata da Kuttner, R., Everything For Sale. The Virtues and Limits of Markets, N.Y., 1997); (iv) la globalizzazione dei mercati (Arcelli, M., a cura di, Globalizzazione dei mercati e capitalismo, Bari-Roma, 1997; Lafay, G., Capire la globalizzazione, trad.it., Bologna, 1996; Hirst, P. – Thompson, G., La globalizzazione dell’economia, trad. it., Roma, 1997; Fantozzi, A. – Narduzzi, E., Il mercato globale, Milano, 1997; Thurow, L.C., Il futuro del capitalismo, trad., it., Milano, 1997; Greider, W., One World, Ready or Not, Londra, 1998); (v) la nuova costituzione economica Cassese, S., La nuova costituzione economica, Roma-Bari, 1995; Della Cananea, G. – Napolitano, G., a cura di, Per una nuova costituzione economica, Bologna, 1998); (vi) la costruzione del mercato europeo (Santaniello, R., Il mercato unico europeo, Bologna, 1998; Marè, M. – Sarcinelli, M., Europa: cosa ci attende?, Bari-Roma, 1998; Papadia, F. – Santini, C., La Banca centrale europea, Bologna, 1998; Secchi, C., Verso l’euro, Venezia, 1998; Bini Smaghi, L., L’euro, Bologna, 1998).
La scomposizione di questi profili è puramente didascalica, perché essi si intrecciano vicendevolmente; la loro trattazione analitica (se mai se ne avessero le forze, oltre che la competenza) porterebbe molto lontano. Una linea del percorso descrittivo potrebbe tuttavia svolgersi attorno ad alcuni nuclei di riflessione, a tre interrogativi di base: a) chi sono gli attori del mercato? b) quali interessi operano e sono tutelati (o si autotutelano) nel mercato? c) chi fissa le regole del mercato?
La scomposizione di ‘attori’ e di ‘interessi’ è necessaria, perché non vi è sempre coincidenza tra i primi e i secondi; lo Stato che opera come imprenditore persegue l'interesse pubblico, operando come privato; il privato che opera come imprenditore persegue un interesse privato che non può essere ‘funzionalizzato’; lo Stato che regola gli interessi tutela un interesse pubblico, ma può anche tutelare interessi privati; i privati che autoregolano i propri interessi, li tutelano talvolta a scapito dell'interesse pubblico; lo spettro dell'interesse pubblico non sempre abbraccia tutti gli interessi privati, cioè gli interessi di tutti i consociati, e lo spettro degli interessi privati può spingersi a tutelare interessi ‘terzi’, come accade per il cd. terzo settore; nel mercato non si radica e germoglia solo la competizione, la lotta, la sopraffazione, ma può avere spazio la solidarietà; tra gli estremi di collettivismo e dirigismo puro, da un lato, e capitalismo individualista ed egoistico dall'altro lato, si collocano posizioni intermedie, ora vestite dalle teorie di Keynes, ora vestite dalle teorie di Pareto, ora vestite dalle teorie marginaliste, ora vestite dalle teorie contemporanee della ‘giustizia sociale’ propugnate da Rawls, Dworkin, Ackerman, o dall' indirizzo del welfare temperato. L'idea che nel mercato possano sussistere solo privati con la qualifica di imprenditori e che il mercato sia costituito solo da homines oeconomici da tempo è stata superata e non ha più cittadinanza in una società moderna e democratica.
Pertanto: a) tra gli attori del mercato si debbono annoverare anche coloro a mezzo dei quali produzione e distribuzione di beni e servizi sono rese possibili, cioè la forza lavoro, e coloro che risultano destinatari di prodotti e servizi, i consumatori e i risparmiatori; b) gli interessi tutelati nel mercato sono gli interessi della collettività, gli interessi degli imprenditori, gli interessi dei lavoratori, gli interessi dei consumatori e dei risparmiatori; c) le regole sono fissate dalla collettività attraverso i propri rappresentanti politici, a mezzo della legislazione, dalle autorità amministrative indipendenti, dalle forme di autodisciplina, dalla negoziazione tra le categorie interessate (le associazioni di imprenditori e le associazioni di consumatori , risparmiatori, ambientalisti, solidaristi, etc.); la soluzione dei conflitti di volta in volta è offerta dal legislatore, dalle autorità amministrative indipendenti, dal giudice togato, da arbitri, mediatori, conciliatori privati.
In questo quadro, ‘libertà di mercato’ non significa più – e soltanto – libertà dalle imposizioni, libertà di competizione, libertà di accesso, ma significa regulation, cioè creazione di regole rivolte alla composizione degli interessi in gioco secondo una logica democratica.
Ma oggi il quadro è ancora più complesso: il mercato interno deve convivere con il mercato europeo e con la globalizzazione dei mercati; il mercato deve fare i conti con la dematerializzazione della moneta e con le tecnologie informatiche e telematiche; deve fare i conti con le sempre più scarse risorse pubbliche, che hanno portato al ridimensionamento dello Stato sociale, e con la graduale scomparsa dell'assistenzialismo; di qui il fenomeno delle ‘privatizzazioni’, con la graduale riduzione dei settori in cui lo Stato opera come imprenditore e come sostegno delle attività private; di qui la ‘rivincita del mercato’ e il sopravvento del diritto privato sul diritto pubblico, o, meglio, l'espansione del cd. diritto comune (Galgano, F., La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2005)
Altro problema capitale è quello che investe i rapporti tra diritto e giustizia. Le regole giuridiche sono di per sé giuste? Assicurano l’eguaglianza dei soggetti ad esse subordinati? Le risposte sono molteplici, perché dipendono dal punto di partenza del ragionamento e dall’orientamento ideologico di chi deve dare la risposta.
L’eguaglianza implica, nella sua accezione sostanziale, la trattazione dei profili di giustizia (cd. giustizia sociale) e di redistribuzione. Si tratta di una questione vitale delle società occidentali, attorno alla quale è sempre rimasto vivo il dibattito tra giuristi, filosofi, economisti, politologi; un rinnovato interesse per la questione si è manifestato nell’ultimo quarto di secolo, a seguito della pubblicazione di un libro profondo, meditato e provocatorio ad opera di John Rawls (Una teoria della giustizia, Cambridge, Mass. 1971, trad. it., Milano, 1982). Rawls muove dalla teoria del contratto sociale e illustra un modello di società governato dall’equità. L’equità è data dai criteri di giustizia che persone razionali sceglierebbero se fossero in una situazione iniziale di eguaglianza; ignorando la propria situazione personale, sopprimendo le differenziazioni portate dal caso, gli individui razionali distribuirebbero costi e benefici della coesistenza sociale con criteri equi. Ne nasce l’immagine di una società tollerante, che premia le aspettative ragionevoli, che elimina le distribuzioni di risorse fortemente diseguali.
Alla posizione liberal-radicale di Rawls fa da contraltare la risposta del conservatore Robert Nozick (Anarchia, Stato e utopia. I fondamenti filosofici dello “Stato minimo”. N.Y., 1974, trad. it., Firenze, 1981) il quale muove dalla giustificazione dello stato di natura, lascia al libero sprigionarsi delle forze la predisposizione delle regole della convivenza e quindi della dinamica sociale, è contrario ad ogni forma di redistribuzione, ma propende per la tutela massima delle libertà individuali, per l’eguaglianza delle opportunità, e propone la creazione di uno ‘Stato minimo’, che assolva le funzioni elementari di protezione dai nemici esterni, di ordine interno, di sanzione degli inadempimenti, ecc.
Rawls e Nozick continuano a incarnare due modelli antitetici di eguaglianza e di giustizia. Gli interventi che si sono susseguiti li hanno presi a confronto, a critica, a modello. Vicino a Rawls pur con differenziazioni di prospettive culturali si colloca Ronald Dworkin (I diritti presi sul serio, Cambridge, Mass. 1977, trad. it., Bologna, 1982), che critica l’utilitarismo e il positivismo giuridico, e fa una analisi delle libertà, dei diritti così come proposti nei testi costituzionali e nelle interpretazioni dei giudici; Bruce Ackerman (La giustizia sociale nello stato liberale, New Haven, 1980, trad. it., Bologna, 1984) critica Rawls, Nozick e propone la tesi di uno stato liberale in cui la giustizia sociale si realizza per interventi successivi, con distribuzione del potere secondo principi di razionalità, congruenza, neutralità.
Proposta ancora diversa è quella elaborata da Michael Walzer (Sfere di giustizia, N.Y., 1983, trad. it., Milano, 1987) per il quale occorre frantumare l’idea di eguaglianza, che da semplice diviene complessa: ogni bene, ogni risorsa, ha i suoi propri criteri di appartenenza e di redistribuzione; pluralisticamente considerati, ciascuno di essi è al centro di sfere diverse di giustizia; abbattere il monopolio per ciascun bene porta a realizzare una redistribuzione articolata.
Infine, il problema è stato interamente riesaminato da Amartya Sen (La diseguaglianza. Un riesame critico, Oxford, 1992, trad. it., Bologna, 1994) con approccio pragmatico e concreto. Sen muove dalla considerazione che gli individui differiscono tra loro (cioè sono diseguali) per caratteristiche personali, per circostanze esterne che hanno influito sulla distribuzione dei beni, sulla collocazione sociale, sulla collocazione ambientale; parlare di eguaglianza senza considerare da dove provenga lo status in cui si trovano gli individui, o di eguali opportunità senza chiedersi se ciascuno di essi abbia goduto della libertà e della possibilità di migliorare lo status, appare a Sen discorso astratto e quindi fuorviante, imponendosi una analisi diversificata dell’eguaglianza a seconda dei criteri distributivi dati e proponendosi allora una giustizia sociale redistributiva che tenga conto delle esigenze basilari della sopravvivenza e delle scelte individuali in ordine all’impiego delle risorse.
Le definizioni di diritto privato variano in funzione dello scopo che si vuol perseguire nel fissarne la definizione.
i) Se lo scopo concerne la ripartizione didattica delle materie oggetto dei corsi, il diritto privato comprende: l’introduzione allo studio del diritto, il diritto civile, il diritto commerciale (diritto dell’impresa e dei contratti commerciali, diritto delle società, diritto industriale, diritto bancario, assicurativo e dell’intermediazione mobiliare, diritto fallimentare, diritto commerciale europeo), il diritto agrario, il diritto del lavoro, il diritto matrimoniale, e si contrappone al diritto pubblico (che comprende il diritto costituzionale, il diritto penale, le procedure, il diritto ecclesiastico, il diritto internazionale, il diritto tributario).
ii) Se lo scopo concerne la distinzione tra sfere di interessi, tendenzialmente il diritto privato si identifica con il diritto ‘dei privati’, anche denominato diritto della ‘società civile’.
iii) Se lo scopo riguarda la definizione delle tecniche e dei modelli, il diritto privato si identifica con il diritto ‘comune’.
iv) Se lo scopo concerne le tecniche del controllo, il diritto privato si identifica con le tecniche di ‘controllo sociale’, e così via. In altri termini, la distinzione è oggetto di molte perplessità (Galgano, F., Il diritto privato tra codice e costituzione, II ed., Bologna, 1998, 37 ss.; Perlingieri, P., Profili istituzionali di diritto civile, Napoli, 1986, 54 ss.) , anche perché i confini del diritto privato sono mutevoli, variando a seconda delle situazioni storiche, politiche, economiche, culturali che si prendono in considerazione.
Giuridificazione, secolarizzazione, innovazione tecnologica, ingegneria economica, mutamento sociale, adeguamento al diritto comunitario, ingegneria fiscale sembrano, allo stato, i fattori più rilevanti della evoluzione del diritto privato; a questi si può aggiungere la circolazione dei modelli giuridici, che però, più che un fattore del mutamento, sembra essere una tecnica, una modalità di adeguamento dell’ordinamento alle nuove esigenze Grossi, P., La scienza giuridica italiana. Un profilo storico, Milano, 2000; Alpa, G., Storia, fonti, interpretazione, Trattato di diritto civile. I. cit.; Id., La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, 2000).
La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico e quindi le rispettive nozioni per risalente tradizione nascono dalla contrapposizione di queste due branche. Osservava Pietro Bonfante, in un fortunato manuale, che «il diritto, ius civile si distingue in pubblico e privato. Questa distinzione ha presso i Romani un duplice significato, che si ricollega al senso ambiguo delle parole pubblico e privato: pubblico (da populus) è un concetto che oscilla tra lo Stato e la società, e può anche nella nostra lingua aver tratto così dall’uno (per esempio, pubblico erario), come dall’altra (per esempio, la pubblica economia, la pubblica stima), o anche esserne quasi ambiguo il senso (per esempio, la pubblica ricchezza) …. La definizione accolta nelle Istituzioni [di Giustiniano] ricavata … dal giureconsulto Ulpiano, rispecchia l’opposizione tra lo Stato e i singoli. Il ius publicum regola i rapporti politici, i fini che lo Stato deve raggiungere: ad statum rei romanae spectat; il ius privatum regola i rapporti tra i privati cittadini, fissa condizioni e limiti nell’interesse dei singoli: ad singulorum utilitatem pertinet [D.1.1.1.2]» (Bonfante, P., Istituzioni di diritto romano, VI ed., Milano, 1919, 12).
Questa concezione permane anche nel corso del diritto intermedio; si verifica però, con i Glossatori e i Commentatori, un fatto nuovo: il diritto romano, ‘italianizzato”, adattato alle nuove esigenze, si espande sotto forma di diritto nuovo, scientifico, in tutta Europa, e diviene jus commune. Il diritto pubblico riflette quindi le regole imposte alle comunità dapprima dai dominatori stranieri e poi dalle organizzazioni libere (i Comuni) e quindi dalle Signorie e dai Principati, mentre il diritto privato trova le sue radici nel diritto romano ‘aggiornato’ (Salvioli, G., Manuale di storia del diritto italiano. Dalle invasioni germaniche ai nostri giorni, II ed., Torino, 1892, 3 ss).
La distinzione entra in crisi all’inizio del Novecento e la partizione è travolta subito dopo la I Guerra mondiale. Già Lodovico Barassi nel 1914 (Istituzioni di diritto civile, Milano, 1914, 27 ss.) osservava che nel diritto privato vi sono norme di diritto pubblico in quanto inderogabili (ad es., la disciplina degli incapaci, lo stato delle persone, etc.); che le regole del diritto privato non perseguono solo interessi privati o solo interessi patrimoniali, e le regole che lo Stato per ragioni sociali introduce (ad es., per tutelare i lavoratori nel rapporto di lavoro), sono regole che hanno natura pubblicistica ancorché incidano su di un rapporto di natura privatistica quale quello che si instaura tra il datore e il prestatore di lavoro (v. Tar Campania, 14.9.2004, n. 11999; Tar Veneto, 10.9.2004, n. 3255).
Alle soglie del nuovo millennio si avverte l’effetto delle grandi innovazioni registrate nelle tecniche di comunicazione, l’effetto della diffusione della ‘ideologia del mercato’, l’effetto della globalizzazione delle operazioni economiche, sicché lo spazio per le regole del diritto privato – inteso in senso più restrittivo di come sopra si è detto, cioè come complesso delle regole che riguardano i rapporti patrimoniali tra i singoli – tende ad espandersi in misura sempre crescente, rispetto alla perdita di terreno segnata dagli ordinamenti statuali (Galgano, F., La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2005; Ferrarese, M.R. Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, 2002).
La definizione complessiva di diritto privato può quindi essere il risultato della sua intera (sintetica) descrizione, che si dipana nelle pagine di questo volume. E quindi la si potrà intendere nella sua compiutezza proprio all’esito del discorso.
Già fin d’ora val la pena di mettere in evidenza che l’aggettivo qualificativo ‘privato’ si associa non solo al diritto, ma a tutto ciò che attiene alla sfera dei ‘privati’, cioè dei soggetti (persone fisiche, come i cittadini, o gli stranieri; enti, come le associazioni, le fondazioni, le società) che operano sulla base delle regole del diritto privato. La distinzione tra ciò che è privato e ciò che è pubblico (nonostante la convergenza dei due settori) è ancora molto netta: si pensi alla proprietà privata e alla proprietà pubblica, agli enti privati (es. un’associazione culturale) e agli enti pubblici (ad es., il comune, la provincia, la regione, che pure svolgono attività culturali).
La Comunità europea dapprima, e l’Unione europea di poi hanno notevolmente inciso sul diritto privato, sia regolando materie a livello comunitario che appartengono all’area tradizionalmente ascritta al diritto privato, sia penetrando direttamente nell’ordinamento degli Stati membri, e non solo attraverso le fonti normative, ma anche attraverso le sentenze rese dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (Tizzano, A., Presentazione, in Tratt. Bessone, Torino, 2000, xiii). Basta pensare alle materie dei contratti dei consumatori, della responsabilità del produttore di beni e di servizi, della concorrenza per avvedersi che oggi ormai gran parte, spesso interi settori, del diritto privato sono assoggettati a regole derivanti dall’ordinamento comunitario (Perlingieri, P., Diritto comunitario e legalità costituzionale, Napoli, 1992; Lipari N., a cura di, Diritto privato europeo, I- II, Padova, 1997).
«L’Europa e il diritto romano» è il titolo di un poderoso volume di uno studioso Paul Koschacker, in cui si illustra l’influenza del diritto romano giustinianeo – il diritto sul quale poggia gran parte della nostra tradizione giuridica – sulla cultura, sulla politica e sulla struttura stessa dei Paesi europei, non solo continentali, ma anche insulari (trad. it., Firenze, 1962. Per la ricostruzione dell’idea di Europa nella storiografia del Novecento v. Alpa, G. – Andenas, M., Fondamenti del diritto privato europeo, Milano, 2005).
Attraverso il diritto romano e la sua trasmissione, il suo studio, il suo adattamento, nel corso del Medioevo si conserva una tradizione pressoché unitaria, in cui si innestano le tradizioni, gli usi e i costumi dei popoli che provengono dalle regioni estranee all’influenza romana. Si forma uno ius commune che, superando le frontiere degli Stati nazionali che si vengono formando, dei Principati e delle Signorie, dei piccoli Dominii, costituirà per secoli l’ossatura del diritto studiato e praticato. È un diritto che oggi diremmo dedicato al diritto civile e al diritto commerciale, cioè al diritto privato nel suo complesso.
A distanza di un millennio si rinnova questo fenomeno, di un diritto che supera le frontiere: ma la prospettiva è ben diversa. Il nuovo ius commune è il frutto spontaneo di comunità che trovano nel diritto romano e nel diritto consuetudinario, poi nel diritto giurisprudenziale delle Rote, le regole loro necessarie; è il prodotto di autorità sovranazionali che per determinati settori uniforma la disciplina dei rapporti privati, in attesa della realizzazione di uno unico Stato federale, con una unica costituzione, un unico codice e così via.
Nella descrizione delle fonti del diritto privato si deve annoverare anche il diritto comunitario (ora diritto dell’Unione europea: sul punto vedi anche Diritto civile 4. il progetto di un codice civile europeo).
Art. 117 Cost.; d.l. 19.8.2003, n. 220, conv. con modifiche in l. 17.10.2003, n. 280; Trattato di Roma, 25.3.1957.
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