Diritto dei consumi
Il Codice del consumo
Sul finire del primo lustro di questo secolo si è assistito alla consolidazione in un unico corpo normativo di una serie di disposizioni di derivazione comunitaria – già da tempo recepite nell’ordinamento interno, ma fino ad allora disseminate tra codice civile e leggi speciali – volte ad armonizzare i sistemi giuridici degli Stati membri sul fronte della tutela dei consumatori.
Il d. legisl. 6 sett. 2005 n. 206, recante il Codice del consumo (abbreviato in cod. cons.), pur non esaurendo quella che, con inelegante neologismo, viene detta la disciplina consumeristica, costituisce senza dubbio il punto di riferimento primario per chi voglia intraprendere lo studio e l’analisi di quella parte dell’ordinamento che viene qui identificata con l’espressione diritto dei consumi e che racchiude un insieme di regole incentrate sui «processi di acquisto e consumo» (art. 1, cod. cons.), i quali vedono come protagonista un soggetto, detto ‘consumatore’ oppure ‘utente’, che compie atti (giuridicamente rilevanti) per finalità extraprofessionali, ossia «per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta» (art. 3, lett. a, cod. cons.).
Precedentemente all’emanazione del Codice del consumo, lo statuto normativo del consumatore era ricavabile da una pluralità di fonti, tra loro eterogenee: alla produzione normativa extracodicistica – costituita dalle leggi speciali, tra le quali il d. legisl. 15 genn. 1992 n. 74, in materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali; la l. 30 luglio 1998 n. 281, recante la disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti; il d. legisl. 22 maggio 1999 n. 185, contenente norme a tutela dei consumatori in materia di contratti a distanza; il d. legisl. 9 apr. 2003 n. 70, relativo agli aspetti giuridici del commercio elettronico –, si affiancavano le disposizioni introdotte mediante la tecnica endocodicistica della novella – gli artt. 1469 bis-1469 sexies c.c., sui ‘contratti del consumatore’, inseriti nella parte generale relativa ai contratti, e gli artt. 1519 bis-1519 nonies, sulla ‘vendita dei beni di consumo’, collocati tra le norme, i quali disciplinano il contratto di compravendita.
Queste discipline sono confluite (quasi integralmente) nel codice di settore, che – pur presentando note comuni ai cosiddetti testi unici misti – mira in linea di principio ad assecondare l’esigenza, rispondente alla fase storica in atto, di non fermarsi alla semplice consolidazione in un unico testo di una pluralità di disposizioni speciali, ma di procedere alla costruzione di una struttura normativa autonoma che, seppur con riguardo a una specifica materia, abbia in sé la capacità di completarsi e di durare nel tempo, attraverso la formulazione di regole, principi e criteri generali in grado di superare polisemie, lacune, obsolescenze. Significativo al riguardo è quanto viene prescritto dall’art. 144, cod. cons. (che reca il titolo Aggiornamenti), secondo il quale «ogni intervento normativo incidente sul codice, o sulle materie dallo stesso disciplinate, va attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle specifiche disposizioni in esso contenute».
Il termine codice può tuttavia trarre in inganno: si è infatti in presenza non già di una ri-codificazione, intesa come ritorno al codice civile, bensì della ritrovata urgenza di comporre l’originaria frammentarietà di leggi e leggine, attraverso un fascio di corpi legislativi unitari e organici che, ciascuno nel proprio settore, possano aspirare all’autosufficienza e alla stabilità del sistema. Da qui nasce la proliferazione di ‘codici’ – beni culturali, protezione dei dati personali, amministrazione digitale, assicurazioni private, proprietà industriale, consumo – cui si assiste negli ultimi anni, ennesimo svolgimento del fenomeno generatore di una ‘pluralità di microsistemi e di logiche di settore’, magistralmente descritto da Natalino Irti nei suoi scritti sulla decodificazione.
Non è stata inserita nel Codice del consumo la disciplina relativa al commercio elettronico (d. legisl. 9 apr. 2003 n. 70, cui rinvia l’art. 68, cod. cons.), così com’è rimasta a esso esterna la normativa, pressoché coeva, sulle vendite piramidali (d. legisl. 17 ag. 2005 n. 173); mentre il d. legisl. 19 ag. 2005 n. 190 sulla commercializzazione a distanza dei servizi finanziari, originariamente autonomo, è poi stato integralmente trasfuso nel codice di settore agli artt. 67 bis-67 vicies bis. Più recentemente, il d. legisl. 2 ag. 2007 n. 146, in attuazione della direttiva 2005/29/CE, ha introdotto nel Codice del consumo gli artt. 18-27 quater, recanti la disciplina volta a vietare le cosiddette pratiche commerciali scorrette.
L’ultimo intervento legislativo in ordine cronologico è quello che, dopo vani tentativi esperiti con numerosi disegni di legge, ha introdotto nel nostro ordinamento la cosiddetta azione collettiva risarcitoria (art. 140 bis, cod. cons.), attraverso le disposizioni contenute nei commi 445-449 dell’art. 2, nella l. 24 dic. 2007 n. 244 (legge finanziaria 2008). L’attuale formulazione dell’art. 140 bis, probabilmente, subirà non indifferenti modifiche nell’immediato futuro; l’entrata in vigore della riforma è stata infatti prorogata, in un primo momento al giugno 2008, poi al 1° gennaio 2009, e successivamente di altri sei mesi, anche in vista di una ‘controriforma’, che si annuncia assai incisiva.
Consumatore e professionista
L’indagine non può allargarsi all’intero panorama normativo cui si è fatto riferimento. Dovrà pertanto restringersi alla mera individuazione, appena accennata, di alcuni tratti peculiari, che, segnando una sorta di cesura tra il ‘prima’ e il ‘dopo’, si può dire abbiano determinato, in materia contrattuale, alcuni cambiamenti di prospettiva non privi di rilevanza sistematica e che quindi meritano di essere evidenziati.
La disciplina contenuta negli artt. 33 e sgg., cod. cons., introduce una forma di controllo contenutistico del regolamento contrattuale – dapprima estranea al nostro ordinamento, ancora fermo a un controllo di tipo meramente formale, operante nella fase di formazione del contratto, e fondato sul meccanismo della cosiddetta doppia sottoscrizione –, comminando la sanzione di nullità per quelle clausole (cosiddette vessatorie) che determinano tra le parti «un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» (art. 33, 1° co., cod. cons.).
Al fine di individuare i contratti sottoposti alla nuova normativa, il legislatore – ed è questo l’aspetto che si intende segnalare – isola una ‘nuova’ categoria di contratti, utilizzando il riferimento allo status economico dei contraenti. Il contratto, tipico o atipico che sia, avente a oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, assume una connotazione specifica qualora sia «concluso tra il consumatore ed il professionista» (art. 33, 1° co., cod. cons.).
Come già accennato, il consumatore (o utente) viene individuato, in via negativa, come «la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta» (art. 3, lett. a, cod. cons.); mentre il ‘professionista’ viene definito come «la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario» (art. 3, lett. c, cod. cons.). Non è questa la sede per un’analisi (o una critica) delle due definizioni, per la quale si rimanda ai numerosi saggi e commentari sull’ambito soggettivo di applicazione della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti con i consumatori.
Se, dunque, da un lato, l’ambito oggettivo di applicazione della normativa risulta molto vasto, idoneo com’è a essere adattato a qualsiasi modello contrattuale, dall’altro è l’ambito soggettivo che ‘qualifica’ il contratto, il quale viene a essere sottoposto alla disciplina prevista soltanto qualora sia stipulato tra soggetti appartenenti l’uno alla categoria dei consumatori, l’altro a quella dei professionisti, così come individuate in modo generale e astratto dall’art. 3, cod. cons.; è la qualità del contraente (o meglio dei contraenti) a determinare l’applicabilità al contratto della disciplina di settore. Quest’ultima, dal punto di vista dell’ambito soggettivo di applicazione, si pone in rapporto di specialità rispetto alla disciplina delle clausole vessatorie già contenuta negli artt. 1341 e 1342, c.c., i quali conservano una loro autonoma funzione, in quanto continuano ad applicarsi a quei contratti per i quali non è dato di ravvisare nei contraenti gli status richiesti dalla legge per l’operare della nuova disciplina. Gli artt. 1341 e 1342, c.c., continueranno così a essere applicati ai contratti conclusi tra professionisti e a quelli in cui nessuna delle parti sia qualificabile come professionista (per es., i contratti con cui il proprietario di un edificio loca gli appartamenti secondo uno schema predisposto e uniforme).
Occorre peraltro ricordare che tra il meccanismo meramente formale di cui agli artt. 1341 e 1342, c.c., e il controllo contenutistico relativo ai contratti del consumatore, non vi è completa sovrapposizione neanche dal punto di vista dell’ambito oggettivo di applicabilità: mentre infatti il primo trova applicazione esclusivamente in caso di contratti predisposti unilateralmente da un contraente in base a uno schema destinato a essere utilizzato per una pluralità di rapporti, il secondo prescinde dal necessario riferimento alla contrattazione di serie, applicandosi a qualsiasi contratto posto in essere tra consumatore e professionista, anche se predisposto per la regolamentazione di un singolo rapporto.
L’introduzione di un corpo di norme che assumono, come presupposto per la loro applicabilità, non già il contenuto del regolamento contrattuale stabilito dalle parti contraenti, bensì la qualità (o lo status) di queste ultime, non è un fenomeno estraneo o sconosciuto al nostro ordinamento. Si è infatti autorevolmente parlato di «novità reviviscente» (la suggestiva espressione si deve a Vincenzo Buonocore). Per oltre mezzo secolo il sistema privatistico italiano, al pari di quello di altri Paesi europei – la Francia e la Spagna, per es., conservano ancora oggi l’originaria duplicità codicistica napoleonica –, si è retto sulla distinzione tra contratti civili e contratti commerciali, sostenuta dalla corrispondente dicotomia codicistica. Il Codice di commercio del 1882, nell’intento di stabilire quale disciplina dovesse essere applicata ai cosiddetti atti unilateralmente commerciali, ossia a quei contratti stipulati tra un soggetto commerciante e uno non commerciante, prescriveva all’art. 54 che «se un atto è commerciale per una sola parte, tutti i contraenti sono per ragioni di esso soggetti alla legge commerciale, fuorché alle disposizioni che riguardano le persone dei commercianti, e salve le disposizioni contrarie alla legge».
La successiva tendenza a rendere ininfluente, in materia contrattuale, la condizione soggettiva dei contraenti, determinata dalla riunificazione dei due codici, ha subito, nel corso degli ultimi decenni, un nuovo brusco mutamento di rotta.
Al delinearsi di una categoria generale di ‘contratti del consumatore’, originariamente calata nella disciplina codicistica, si sono via via affiancati due fenomeni, tra loro distinti ma al contempo strettamente collegati: da un lato, un movimento dottrinale – che fa capo a Buonocore – volto a isolare la categoria dei ‘contratti d’impresa’ quale categoria generale e uniforme; dall’altro, una legislazione speciale di carattere settoriale, e di prevalente matrice comunitaria, nella quale il consumatore veniva identificato di volta in volta come risparmiatore, viaggiatore, investitore, assicurato ecc. e veniva contrapposto all’imprenditore quale altra parte contrattuale.
Tutti i principali contratti sono stati così distinti in contratti ‘normativamente d’impresa’ e contratti ‘naturalmente e funzionalmente d’impresa’: i primi essendo quei contratti che «richiedono la presenza di un’impresa come elemento costitutivo della fattispecie normativa: e tali sono il contratto di appalto, il contratto di assicurazione, il contratto di lavoro subordinato, i contratti bancari, il contratto di deposito in albergo, il contratto di deposito nei magazzini generali». I secondi, invece, sono «quei contratti per i quali la normazione codicistica non indica quale presupposto tecnico l’esistenza dell’organizzazione imprenditoriale come avviene per l’assicurazione, l’appalto e i contratti bancari, né considera tale organizzazione come un elemento della fattispecie, come avviene per il deposito in albergo e nei magazzini generali e per il contratto di lavoro subordinato. Si tratterebbe di quei contratti che in teoria possono essere posti in essere da un qualsiasi soggetto di diritto, ma che, di norma e ‘naturalmente’, sono posti in essere da un imprenditore»; quei contratti, cioè, la cui disciplina «è stata pensata per l’imprenditore, viene posta in essere di norma da imprenditori commerciali e viene eccezionalmente estesa anche ai contratti della stessa specie stipulati da non imprenditori» (in tale categoria sarebbero ricompresi «somministrazione, trasporto, commissione, spedizione, agenzia, mediazione, e, in un certo senso, anche il contratto estimatorio e almeno certi tipi di vendita e di locazione, e quindi, in pratica, [...] la totalità dei contratti speciali disciplinati nel codice civile»). Si è così giunti a delineare una categoria amplissima, quasi onnicomprensiva, di contratti d’impresa, dalla quale rimarrebbero fuori solo i contratti cosiddetti ancillari, categoria residuale formata dai contratti «strumentali, come il mandato (civile) e il sequestro convenzionale», dai contratti «diretti a costituire una garanzia, come la fideiussione l’anticresi e il mandato di credito», dai contratti «preordinati a dirimere una lite, coma la transazione e, per certi versi, la cessione dei beni ai creditori» (Buonocore 2000, pp. 35-39).
Parallelamente – come accennato – il legislatore speciale procedeva ad ampliare la disciplina consumeristica mediante norme (ci si riferisce, per es., alla legislazione in materia di contratti stipulati fuori dei locali commerciali, di credito al consumo, di contratti a distanza) con le quali il consumatore non veniva «definito in linea generale, sia pure attraverso una delimitazione convenzionale della figura rispetto alla nozione di consumatore tout court, [bensì] identificato con le sembianze indotte dal settore merceologico – banca, assicurazioni, mercati regolamentati, viaggi – nel quale agisce o da altre situazioni nelle quali l’‘altro contraente’ si trova – elemento territoriale (luogo della contrattazione) ed elemento spaziale (contratti a distanza)» (Buonocore 2000, p. 120).
Sembrerebbe così riproporsi la dicotomia tra atto di commercio e contratto civile, attraverso il dualismo contratti d’impresa/contratti del consumatore.
Occorre tuttavia in primis introdurre alcune necessarie precisazioni.
Come si è già osservato, sotto il sistema dualistico previgente bastava che una delle parti contraenti rientrasse nella categoria del commerciante per far sì che il contratto fosse regolato dalle norme del Codice di commercio; e tale sussunzione finiva naturalmente con il privilegiare le soluzioni più favorevoli al ceto mercantile. Con l’introduzione della disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, invece, sembrerebbe assistersi a un procedimento esattamente inverso. La presenza del consumatore come parte contrattuale, infatti, parrebbe essere sufficiente ad attrarre il contratto nell’orbita della speciale normativa di protezione.
Ma c’è una notazione da fare: se è vero che il legislatore pone al centro la figura del consumatore (di qui l’intitolazione ‘contratti del consumatore’), perseguendo come fine primario la sua tutela nei confronti della controparte contrattuale, è anche vero che quest’ultima, o meglio il suo status (di professionista), assume una rilevanza determinante per l’applicazione della relativa disciplina. Qualora al ‘tavolo delle trattative’ (si utilizza quest’espressione in senso latamente metaforico, dal momento che, per dire la verità, nella maggior parte dei casi, di trattative se ne scorgono ben poche) non vi sia il professionista (così come definito dall’art. 3, lett. c, cod. cons.) di fronte al consumatore, lo status di quest’ultimo non varrà a qualificare il singolo, concreto contratto come contratto del consumatore.
Il punto merita ulteriori chiarimenti. Il contratto è denominato ‘del consumatore’: tale preposizione sembrerebbe indicare una relazione di appartenenza esclusiva e sufficiente, come se qualsiasi contratto concluso dal consumatore, e per il solo fatto di essere da lui concluso, sia sottoposto alla disciplina di cui al codice di settore.
La locuzione contratti del consumatore dev’essere, al contrario, bene intesa: essa non è estensibile a tutti i contratti stipulati dal soggetto (persona fisica) ‘consumatore’, ma soltanto a quelli che egli stipula con il professionista; anzi, e più precisamente, il primo assume lo status di consumatore soltanto quando (e in quanto) contrae con il professionista, e qualora tale qualifica (di professionista) non risulti, secondo la natura del contratto, a lui stesso riferibile (di qui la definizione legislativa espressa in termini negativi, a cui si è già accennato: «il consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta»; art. 3, lett. a, cod. cons.; sottolineatura nostra). A ben vedere, è lo status dell’‘altro contraente’ che determina la categoria e la relativa disciplina.
La disciplina dei contratti del consumatore, dunque, trova applicazione soltanto nei confronti dei contratti conclusi tra il consumatore e il professionista («Nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista»: art. 33, 1° co., cod. cons.; corsivo dell’autore): quando quest’ultimo contrae con un soggetto (persona fisica) che non sia anch’egli professionista, allora vorrà dire che il contratto è stipulato con il consumatore (e ricade nella relativa disciplina). Ciò che si vuole qui porre in evidenza, è che la qualifica giuridica di consumatore, così come delineata dalla disciplina di settore, assume un carattere, per così dire, ‘relativo’: non esiste, infatti, una categoria di soggetti che siano, in senso assoluto, individuabili quali consumatori. Tale qualifica appartiene a un soggetto (persona fisica) soltanto in quanto concluda un contratto con un professionista (e non sia egli stesso, relativamente all’atto posto in essere, qualificabile come professionista).
Sembrerebbe così che l’intero sistema contrattuale ruoti intorno alla ‘categoria’ dei contratti d’impresa, risultando avvalorata la tesi che considera i contratti d’impresa come categoria contrattuale pressoché onnicomprensiva. Si potrebbe, in altri termini, essere tentati di ricondurre il contratto del consumatore nella più ampia categoria della contrattazione d’impresa, laddove si riconosca a quest’ultima un’autonoma rilevanza normativa e, più in particolare, nel sottogruppo dei contratti ‘unilateralmente d’impresa’, dove «la disciplina potenzialmente coerente con l’interesse dell’impresa si scontra o incontra con l’esigenza di tutela della parte non imprenditoriale, normalmente ‘debole’ rispetto all’altra, così riproducendosi in qualche modo la problematica dei rapporti cosiddetti misti, propria del codice di commercio e delle analisi della dottrina classica del diritto commerciale» (Oppo 1995, p. 632). Il problema meriterebbe di essere sviluppato ulteriormente però, così facendo si devierebbe dal tema oggetto della presente analisi.
Le osservazioni appena rilevate inducono, poi, un’altra considerazione.
La dicotomia introdotta dalla nuova normativa, a differenza di quella vigente sotto il Codice di commercio del 1882, non esaurisce, dal punto di vista soggettivo, il panorama contrattuale previsto dal nostro ordinamento. Se infatti nel sistema preunitario tutti i rapporti contrattuali non riconducibili alla categoria dei contratti commerciali venivano considerati e disciplinati come contratti civili, ora il binomio ‘contratti d’impresa/contratti del consumatore’ non si rivela esaustivo, per l’esistenza di un’ulteriore figura di contratto che, per quanto da alcuni considerata marginale, rivendica un posto a sé nel sistema privatistico vigente, e che non può essere del tutto ignorata: è la figura del contratto cosiddetto individuale, ossia il contratto stipulato tra soggetti privati nessuno dei quali rientra nella categoria del professionista. A tale contratto continueranno a essere applicate le norme del codice civile e delle leggi speciali, a esclusione di quelle più specificamente rivolte a disciplinare le altre due ‘maggiori’ categorie contrattuali. A esso non saranno dunque applicabili le norme sui contratti del consumatore né quelle rivolte a disciplinare i contratti normativamente d’impresa.
Occorre, infine, accennare a un ulteriore profilo. Nel nostro ordinamento, esistono norme che, seppur volte a disciplinare contratti bilateralmente commerciali, appaiono fondate sulla necessità, avvertita dal legislatore, di riequilibrare situazioni di disparità di potere contrattuale – che si generano nell’ambito di relazioni tra imprese, di cui l’una in posizione di ‘dipendenza’ e l’altra in posizione di ‘dominanza’ economica – tali che potrebbero facilmente degenerare in abuso (cfr. la l. 18 giugno 1998 n. 192, Disciplina della subfornitura nelle attività produttive; il d. legisl. 9 ott. 2002 n. 231, dal titolo Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali; la l. 6 maggio 2004 n. 129, Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale). La presenza di tali norme ha spinto un’attenta corrente di pensiero a interrogarsi circa la configurabilità di una categoria unitaria, raccolta attorno al modello del ‘contratto con asimmetria di potere contrattuale tra le parti’.
Si può, in questa sede, solo rinviare al vivace confronto di idee – appena agli esordi –, che oscilla tra l’esigenza di non trascurare i profili di differenziazione tra contratti del consumatore e contratti tra imprese diseguali, e la premura di procedere alla valorizzazione dei tratti comuni, volta al perseguimento di una maggiore uguaglianza sostanziale nell’esercizio dell’autonomia privata.
Ermeneusi
Il tradizionale principio gerarchico delle regole di interpretazione del contratto, inteso come scansione temporale di due successivi ‘momenti’ del processo ermeneutico, appare essere, ancor oggi, nonostante alcuni tentativi di sovvertimento, un valido strumento metodologico nell’affrontare il problema dell’interpretazione contrattuale, e come tale è ancora ampiamente utilizzato da dottrina e giurisprudenza.
Tuttavia l’applicazione del principio gerarchico al tema dell’interpretazione dei contratti del consumatore sembrerebbe, a prima vista, scontrarsi con la difficoltà, se non con l’impossibilità, di rintracciare in questi contratti, così come vengono configurati dalla disciplina di settore, una ‘comune intenzione’, che si offra all’interprete quale strumento di indagine conoscitiva.
La ricerca della comune intenzione, cui è volto il primo momento dell’attività interpretativa, sembrerebbe cioè destinata a sortire un risultato infruttuoso, già prima che il processo ermeneutico abbia inizio, con la conseguenza dell’inutilità a priori delle norme cosiddette di interpretazione soggettiva. Esse non sarebbero fruibili dall’interprete, il quale, nell’interpretare il contratto con il consumatore, dovrebbe rivolgersi direttamente agli artt. 1367-1371, c.c. e, più precisamente, alla norma di cui all’art. 1370, c.c., riprodotta, nella materia in esame, dall’art. 35, 2° co., cod. consumo.
L’utilità delle norme d’interpretazione soggettiva rinvigorirebbe unicamente nei confronti dei contratti sottoposti a trattativa individuale, che il professionista stipula ad personam con il consumatore, e nei confronti delle clausole aggiunte al contratto per adesione, ravvisandosi solo in tali casi un effettivo consenso.
Si pone dunque la questione se ai contratti del consumatore si possano applicare i canoni di interpretazione soggettiva. L’interpretazione soggettiva – pare opportuno ricordarlo – non individua la ricerca di una volontà interna, psicologica e non verificabile; la comune intenzione dei soggetti contraenti indagata dall’interprete, pur potendo varcare gli angusti confini del significato letterale delle parole, deve «desumersi dal complesso della dichiarazione, intesa in senso lato» (C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico..., 1938; rist. anast. 1983, p. 39). La comune intenzione è, dunque, ciò che risulta dal comportamento delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto (v. art. 1362, 2° co., c.c.).
Comune intenzione e materiale pre e postcontrattuale non sono oggetto di interpretazione ma canoni di lettura, strumenti per interpretare il testo linguistico del contratto: per intendere il testo contrattuale, senza limitarsi al significato letterale, bisogna indagare la comune intenzione, e per ricercare quest’ultima occorre rifarsi al contegno delle parti, anche precedente e successivo all’atto del contrarre.
Com’è stato autorevolmente ed efficacemente detto da Irti, «l’art. 1362 non stabilisce un’antitesi, onde l’interprete tralasci l’un profilo e si tenga soltanto all’altro, ma un’insufficienza, che diremmo di carattere metodologico» (1996, p. 4). La polisemia, insita nel testo contrattuale, impone all’interprete di censire i vari significati che a esso possono attribuirsi; egli, per volontà del legislatore, non deve fermarsi al senso letterale delle parole, ossia al «senso più diffuso e generale in una data epoca storica: il senso primario, che la parola riceve nel dialogo quotidiano, e con il quale essa corre nel vivo della comunicazione sociale» (p. 7). Tuttavia, entro la pluralità dei significati, l’interprete è chiamato a sceglierne uno: si appalesa così la funzione selettiva della comune intenzione, la quale permette di «sciogliere la polisemia e di identificare il sottocodice linguistico, di cui le parti si sono servite» (p. 48).
L’allargamento della indagine conoscitiva al contesto situazionale (l’espressione è di Irti) non soverchia e annulla il rispetto del testo (la formula è stata coniata da Alberto Trabucchi e ripresa da Irti): la comune intenzione, ricavata dal contegno delle parti, è chiamata a guidare l’interprete nella scelta tra i vari significati possibili, ma non può sovrapporsi al testo linguistico, contrapponendogli un significato diverso da quelli che a esso possono essere oggettivamente ricondotti. L’interprete, una volta valutato il comportamento complessivo delle parti, e determinata la comune intenzione, ritorna al testo: è questo il senso della reciproca circolarità tra intenzione comune e senso letterale delle parole.
Il problema dell’applicabilità ai contratti del consumatore delle norme di interpretazione soggettiva riguarda segnatamente due specie contrattuali, tolte dal più ampio genere in esame: i contratti per adesione e i cosiddetti contratti ‘di massa’, qui intesi non come contratti standard, conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, ma come contratti conclusi nei ‘grandi magazzini’. In altri termini, si fa riferimento a quei contratti che si concludono senza alcun testo scritto cui il consumatore aderisce; non c’è alcun modulo o formulario che viene sottoposto alla sua sottoscrizione, ma soltanto condizioni generali di contratto ‘conoscibili’ usando l’ordinaria diligenza, ex art. 1341, 1° co., c. civile. Potremmo aggiungere la categoria dei contratti telematici, intesi come contratti stipulati al computer via Internet, mediante un semplice clic sull’icona raffigurante la merce che si intende acquistare; ma, come vedremo, limitatamente alla presente analisi, a tale categoria si ritengono estensibili le considerazioni che verranno svolte con riguardo ai contratti di massa.
La soluzione al problema dev’essere ricercata con riferimento esclusivo a queste due (sotto)categorie di contratti, abbandonando, per il momento, quelle pattuizioni intese a regolare un singolo e specifico rapporto tra professionista e consumatore, nelle quali sia sicuramente individuabile una concordanza delle decisioni, risultante dallo schema classico di proposta e accettazione.
Cominciamo dai contratti per adesione. Occorre preliminarmente ricordare i rapporti tra comune intenzione e accordo. La prima – lo abbiamo visto – è strumento di indagine conoscitiva, mezzo di interpretazione del regolamento contrattuale. Essa indica quella condivisione di attese e di scopi, ‘comuni’ in quanto tra loro complementari, deducibile dai comportamenti delle parti, anteriori e posteriori alla conclusione del contratto. Il secondo è invece oggetto di interpretazione; e la determinazione del suo contenuto costituisce il fine del processo ermeneutico. L’accordo designa il ‘contrarre’ come «esito di un ‘contrattare’» (Irti 1998, p. 349; questo suggestivo saggio di Irti ha suscitato un vivace dibattito di idee: v. infra), ossia come risultato del contratto ‘nel suo farsi’, nell’intrecciarsi dialogico di parole, gesti e comportamenti, dove il proponente muta fin quando l’altra parte (l’oblato) non ‘rilancia’ («un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta», recita l’art. 1326, 5° co., c.c.).
Le espressioni ‘concludere un contratto’ e ‘contrarre’ evocano un ‘chiudere insieme’ (cum claudere), un ‘trarre insieme’ le conclusioni di quanto discusso e deciso ponendosi uno di fronte all’altro; quasi che il proprium del contratto non sia, appunto, nel contrarre – approdo finale di un percorso già intrapreso e ormai compiuto –, ma nel contrattare, nel determinare insieme il contenuto di una decisione che può dirsi ‘comune’, in quanto corrispondente a esigenze e obiettivi diversi ma tra loro complementari. La conclusione del contratto (il contrarre) è solo un punto tra due segmenti: chiude una fase (quella delle trattative) e ne apre un’altra (quella dell’esecuzione).
Il fenomeno dei contratti per adesione segna il declino dell’accordo quale «risultato discorsivo e conoscitivo, che media i punti di vista delle parti, e risolve in unità la loro discorde dualità» (Irti 1998, p. 349); la parola detta viene sostituita dalla predisposizione di moduli o formulari, che non si offrono al dialogo ma all’adesione o al rifiuto. L’ambigua e mutevole soggettività del dialogo viene soppressa in nome di un’oggettiva e spersonalizzante ‘funzionalità’ dei rapporti di scambio (Sacco 1993).
L’attività ermeneutica non può non risentire di questa mutata fisionomia delle relazioni contrattuali. L’‘aderire’ al contratto è un ‘contrarre senza contrattare’, vincolarsi – senza aver discusso – a un regolamento pre-disposto, cioè determinato prima e da altri; vuol dire, in altri termini, stipulare senza aver instaurato alcun precedente rapporto dialogico: la fase delle trattative è ormai venuta meno, e con essa i comportamenti anteriori alla conclusione del contratto. Rimane la parola, scritta e non detta, superstite simulacro di un dialogo ormai dimenticato.
Il compito dell’interprete, reso ancor più arduo dalla riduzione del materiale interpretativo, sembra tuttavia trovare, nei contratti per adesione, uno spazio dove potersi ancora svolgere, secondo la tradizionale scansione del procedimento ermeneutico in due fasi successive. È sbiadito l’accordo, ma è ancora rinvenibile una comune intenzione, intesa come compartecipazione a uno scopo, come congruenza tra le unilaterali decisioni di attuare lo scambio, di raggiungere quel risultato complessivo tradotto e articolato nelle clausole contrattuali: la sopravvivenza della parola, anche se scritta prima (pre-formulata) e non insieme (con-trattata), permette all’interprete di indagarne il contenuto teoretico (Irti 1998) attraverso i comportamenti delle parti, posteriori alla conclusione del contratto. Scomparsi i comportamenti anteriori, quelli posteriori conservano il loro valore di contegni ‘esecutivi’, non confondendosi con quelli ‘costitutivi’ del contratto.
Il metodo della comune intenzione sembra potersi rivelare ancora fruttuoso, se non altro attraverso l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 1363-1365, c.c., pur sempre norme di interpretazione soggettiva. Il significato di ciascuna clausola, scritta solo da una parte e sottoscritta anche dall’altra, può essere indagato mediante l’applicazione del principio di complessità (art. 1363, c.c.); medesimo proficuo impiego possono trovare i criteri ermeneutici circa le espressioni generali (art. 1364, c.c.) e le indicazioni esemplificative (art. 1365, c.c.).
Diverso è quanto accade nel caso dei contratti conclusi nei ‘grandi magazzini’.
L’importanza e l’attualità del tema hanno riacceso le discussioni sulla natura normativa o negoziale delle condizioni generali di contratto. Esse sembrano sottrarsi alla logica orizzontale, propria del contratto, dove una parte offre all’altra una regola che attende il suo consenso. Sempre nella logica orizzontale – seppure con un impoverito esercizio di autonomia dell’aderente – si situa il contratto nel quale una parte si limita ad aderire alla disciplina predisposta dall’altra (contratto per adesione). Nei contratti per condizioni generali, al contrario, si impone il predominio di una sola volontà. Una parte dice la propria legge, non più a un individuo, chiamato a esprimere il consenso su di essa, ma a una massa indefinita di soggetti, nei confronti dei quali il regolamento impegnativo si atteggia come del tutto eteronomo. Le condizioni generali di contratto si applicano non in quanto accettate (eventualmente mediante mera adesione), ma in quanto conoscibili. E la conoscibilità è carattere immanente della clausola, suo requisito di esistenza (rectius, di applicabilità); essa non è nel soggetto, ma nella clausola stessa. Le condizioni generali di contratto sono (devono essere, per potersi applicare) oggettivamente e non soggettivamente conoscibili. Sembra dunque che si esca dalla logica orizzontale, quella dell’autonomia, per accedere al rapporto verticale, proprio della regola eteronoma. Il discorso meriterebbe ulteriori approfondimenti, i quali però esulerebbero dalla presente indagine.
Nei grandi magazzini – dicevamo – la parola è assente. L’assenza della parola non impedirebbe all’interprete di valutare i comportamenti delle parti e trarre un significato dal loro concreto agire. L’operazione ermeneutica conserverebbe la sua funzione commutativa: non più convertire parole in parole, bensì ‘verbalizzare’ i comportamenti, e ricavare da essi la presenza e il contenuto dell’accordo. Ma, a ben vedere, dinanzi a un acquisto nei grandi magazzini non è dato all’interprete di inferire dal comportamento di chi vende e di chi compra alcun significato dialogico, alcuna concordanza di decisioni; l’atto dell’esporre e l’atto dello scegliere non si combinano in un accordo ma soltanto in un’esteriore corrispondenza, nell’oggettivo incidere sulla medesima merce (è la suggestiva tesi di Irti).
La comune intenzione, destinata, per volere del legislatore, a mediare tra l’oggettività del contratto e la soggettività dei contraenti, finisce per confondersi e coincidere con il primo fattore della mediazione. La condivisione di risultati, che prima doveva essere indagata dall’interprete in relazione al comportamento anteriore e posteriore alla conclusione del contratto, è ora oggettivamente fissata nell’univoca e rigida congruenza esteriore di due atti; a tale congruenza la soggettività dell’agire umano non conferisce e non può conferire un diverso significato (Irti rileva che nei contratti di massa «non è concepibile l’indagine sulla comune intenzione, poiché gli atti sono isolati dalla vita dei soggetti, e irrigiditi in una spersonalizzante artificialità. [...] L’atto, separandosi dal soggetto, acquista assoluta univocità: è atto del proporre merci, e atto dello scegliere merci»; 1999b, pp. 1163-64).
Appare veramente arduo, in relazione ai contratti nei grandi magazzini, conservare all’interprete e ai canoni interpretativi la loro tradizionale funzione ermeneutica (discorso analogo andrebbe fatto con riguardo agli scambi telematici, dove è da indagare se la parola scritta sullo schermo e l’‘interazione’ segnino un ritorno al ‘parlare’ e al suo valore teoretico e dialogico). Il vero problema qui non è se sia applicabile anche il metodo di interpretazione soggettiva o solo quello di interpretazione oggettiva, ma è se tali contratti – e sarebbe da indagare se si possa ancora parlare di contratti: «il declino dell’accordo, derivante dalla crisi della parola e del dialogo, dissolve il contratto nella combinazione di due atti unilaterali» (Irti 1998, pp. 347 e sgg.); il vivace dibattito dottrinale suscitato dal saggio di Irti sugli scambi senza accordo ha coinvolto autorevoli voci della dottrina italiana – siano o meno suscettibili di interpretazione (soggettiva e oggettiva), ovvero se, rispetto a essi, l’indagine dell’interprete costituisca una semplice quaestio facti e si dia soltanto la possibilità (e la necessità) di un mero accertamento storico del loro accadere.
Il delinearsi di una categoria di contratti del consumatore e la presenza, all’interno della relativa disciplina, di una regola interpretativa (art. 35, cod. cons.), suscitano nello studioso la necessità di rimeditare il tema dell’interpretazione del contratto, per giungere a una corretta collocazione sistematica delle nuove norme nell’ambito dell’ordinamento vigente. In altri termini, occorre indagare i rapporti tra le norme generali sull’interpretazione del contratto (artt. 1362-1371, c.c.) e l’art. 35, 2° co., cod. cons., allo scopo di verificare in che modo il principio posto da quest’ultima norma (la prevalenza, nel dubbio, della «interpretazione più favorevole al consumatore») si inserisca nella ‘metodologia dell’interpretazione’ dettata dagli artt. 1362 sgg., c.c. (l’espressione è stata coniata da Irti, il quale rileva che «le norme del codice civile predispongono una metodologia dell’interpretazione, cioè dettano canoni e principi, che l’interprete ha il dovere di applicare […]. L’interpretare giuridico non è un qualsiasi intendere, ma l’intendere praticato e conseguito attraverso i metodi prescritti. E, dunque, la teoria dell’interpretazione giuridica si risolve in una teoria dei canoni stabiliti dal legislatore. In una ‘canonica’, appunto»; 1999b, pp. 347 e sgg.).
È necessario dunque specificare il dovere di chiarezza e comprensibilità, prescritto dal primo comma dell’art. 35, cod. cons., con riferimento all’interpretazione più favorevole al consumatore, imposta, nel dubbio, dal secondo comma del medesimo articolo. Viene qui in discorso il problema dei rapporti tra i primi due commi dell’art. 35, cod. cons., e, più precisamente, se vi sia tra di essi una relazione di causalità, la regola ermeneutica indicata dal secondo comma ponendosi quale conseguenza-sanzione dell’inosservanza da parte del professionista del dovere di chiarezza e comprensibilità impostogli dal primo comma.
Le soluzioni offerte in proposito dalla dottrina sono le più varie e le più contrastanti, ma non possono qui essere ripercorse.
Ci limitiamo a segnalare che alle parole ambiguo, oscuro, intrasparente occorre recuperare il senso loro proprio, dal punto di vista tecnico-giuridico: per il legislatore, ambiguo (o dubbio) è il contratto cui l’interprete non è riuscito ad assegnare un significato univoco attraverso l’uso ermeneutico della comune intenzione; oscuro è il contratto che ha resistito all’applicazione di tutti i canoni interpretativi (soggettivi e oggettivi) dettati dagli artt. 1362-1370, c.c., e sul quale si esercitano i criteri indicati nell’art. 1371, c.c.; intrasparente è il contratto redatto in termini non chiari e comprensibili per il consumatore.
Il problema della mancanza di chiarezza e comprensibilità della clausola, a differenza dei distinti problemi dell’ambiguità e dell’oscurità del contratto, travalica l’ambito strettamente interpretativo, per ricollegarsi alla tematica del controllo contenutistico del regolamento contrattuale, che è stato introdotto dalla normativa di derivazione comunitaria.
Si potranno dare due casi: a) il caso in cui l’interprete, pur assegnando al contratto un significato, giudichi tale significato non «chiaro e comprensibile» per il consumatore al momento della conclusione del contratto; b) il caso in cui l’intrasparenza coincida con il dubbio dell’interprete. In altri termini, o il metodo ermeneutico della comune intenzione sortisce esito positivo e, ciò nonostante, il contenuto del regolamento contrattuale risulta essere stato non «chiaro e comprensibile» per il consumatore al momento della stipulazione; oppure, alla mancanza di chiarezza e comprensibilità corrisponde l’esito negativo del primo stadio del processo ermeneutico.
In quest’ultima ipotesi l’interprete procederà alla «interpretazione più favorevole al consumatore», ai sensi del secondo comma dell’art. 35, cod. cons.; ma tale interpretazione sarà conseguenza del dubbio, non dell’intrasparenza (si comprende però la confusione che può derivare da tale situazione, data la sovrapposizione dei due piani valutativi). Nel primo caso, invece, il secondo comma dell’art. 35, cod. cons., non potrà trovare applicazione, in ragione dell’insussistenza di dubbi interpretativi.
Ma allora, qual è la conseguenza che deve essere ricollegata alla violazione, da parte del professionista, del dovere di chiarezza e comprensibilità? Quale rilevanza residua per l’intrasparenza, dal momento che, nell’ipotesi a) l’interpretazione più favorevole al consumatore non opera, e nell’ipotesi b) l’interpretatio contra proferentem trova il suo presupposto nel dubbio interpretativo e non nella mancanza di chiarezza e comprensibilità?
La conseguenza da ricollegare all’intrasparenza della clausola si deduce dal testo dell’art. 34, 2° co., cod. cons., il quale sottrae dalla valutazione del carattere vessatorio, e dunque dal controllo sul contenuto, la clausola determinativa dell’oggetto del contratto e del corrispettivo, «purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile». Da tale formula è agevole dedurre che la valutazione di intrasparenza, a prescindere dal dubbio interpretativo, estende alla clausola determinativa dell’oggetto del contratto (bene o servizio più corrispettivo) il giudizio di vessatorietà (e dunque il controllo contenutistico), di regola nei suoi confronti precluso.
Conseguenza di non poco conto, dal momento che l’eventuale esito positivo del giudizio di vessatorietà determinerà l’inefficacia di quella clausola, travolgendo l’intero contratto.
Sembra del resto ragionevole pensare che nel caso in cui lo squilibrio tra le prestazioni del sinallagma sia evidente e introdotto con formule chiare e comprensibili dal consumatore, quest’ultimo ben avrebbe potuto astenersi dal concludere il contratto. Laddove, invece, il contenuto della clausola determinativa delle prestazioni contrattuali risulti mascherato dall’utilizzo di espressioni che, ponendosi dal punto di vista del consumatore, debbano ritenersi redatte in termini a lui (e magari non all’interprete) inintelligibili, allora ben si giustificherà la sottoposizione di tale clausola al giudizio di vessatorietà; in tal caso, è proprio la valutazione di intrasparenza che impone di procedere al controllo sul contenuto anche nei confronti di clausole a esso di regola sottratte.
I rapporti tra i primi due commi dell’art. 35, cod. cons., andrebbero dunque così ricostruiti: il primo comma (giudizio di trasparenza) opera parallelamente alla prima (e sempre necessaria) fase dell’attività ermeneutica; il secondo comma si applica solo in caso di fallimento della prima fase dell’interpretazione: esso non è rimedio all’intrasparenza, ma è rimedio e soluzione del dubbio interpretativo. Conseguenza della mancanza di «chiarezza e comprensibilità» è, invece, la sottoposizione della clausola determinativa dell’oggetto del contratto (bene o servizio più corrispettivo) alla valutazione di vessatorietà (e la sua conseguente nullità nel caso in cui tale valutazione sortisca esito positivo).
Qualora l’interprete sia riuscito ad assegnare, al termine della prima fase del processo interpretativo, un significato univoco alla clausola, la quale tuttavia risulti non chiara e comprensibile con riferimento al consumatore (medio), e valutate le circostanze del caso concreto (per es., perché il professionista ha utilizzato una terminologia eccessivamente tecnica e settoriale), allora non potrà trovare applicazione il secondo comma dell’art. 35, cod. cons., in ragione della insussistenza di dubbi interpretativi.
In tal caso, però, la violazione della norma di cui al primo comma dell’art. 35, cod. cons., non verrà sanzionata autonomamente, non potendosi prescindere dal controllo contenutistico del regolamento contrattuale. Il contenuto della clausola (anche se determinativa dell’oggetto del contratto) dovrà così essere sottoposto al giudizio di vessatorietà, al fine di verificare la eventuale sussistenza di un «significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» (art. 33, 1° co., cod. cons.). Soltanto all’esito (positivo) di tale giudizio la clausola in esame potrà (dovrà) essere dichiarata nulla.
Una volta delineata la funzione del primo comma dell’art. 35, c.c., e indagati i suoi rapporti con l’attività ermeneutica e il giudizio di vessatorietà, occorre volgere lo sguardo al secondo comma dello stesso articolo che, come già risulta dalla rubrica, contiene una norma disciplinante l’interpretazione dei contratti del consumatore.
Il problema è di collocare l’art. 35, 2° co., cod. cons., nel sistema disegnato dalle norme generali sull’interpretazione del contratto (artt. 1362-1371, c.c.). Tale inquadramento concettuale non può prescindere dal richiamare l’utilità metodologica della classificazione delle norme sull’interpretazione, secondo un criterio di precedenza logica nella scansione temporale del procedimento ermeneutico. Le norme sull’interpretazione del contratto, secondo un antico insegnamento di Grassetti, sono ordinate in base a una ‘gerarchia cronologica’ (la formula è di Irti): non già primazia di rango, bensì precedenza temporale nell’applicazione dei canoni ermeneutici. L’interprete, una volta applicate le regole espresse dal primo gruppo di norme (artt. 1362-1365, c.c.), e accertata la loro insufficienza o inutilità al fine di assegnare un significato al testo contrattuale, passa alle regole del secondo gruppo (artt. 1367-1370, c.c.), successive rispetto alle prime ma non deteriori, e dotate, al contrario, di «pari dignità conoscitiva» (Irti 1999b, p. 1158); il problema è sempre il medesimo: quello di (sciogliere la polisemia ed) attribuire un senso alle parole (e ai comportamenti) delle parti.
Il sistema potrebbe così ricostruirsi: di fronte a una clausola inserita in un contratto del consumatore, l’interprete deve procedere, come di fronte a qualsiasi contratto, a una attività di interpretazione. Se, attraverso il metodo della comune intenzione (artt. 1362-1365, c.c.), egli non riesce ad assegnare alla clausola un significato univoco, tra più significati a essa riconducibili dovrà scegliere quello più favorevole al consumatore (art. 35, 2° co., cod. cons.); tra più significati che siano ugualmente favorevoli al consumatore, e comunque a lui indifferenti, dovrà scegliere il significato ‘utile’ (art. 1367, c.c.). Tra più significati ugualmente utili, l’interprete dovrà distinguere: se il professionista non è un imprenditore, allora la clausola ambigua andrà interpretata secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui il contratto è stato concluso (art. 1368, 1° co., c.c.); se invece il professionista è un imprenditore, la clausola andrà interpretata secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa (art. 1368, 2° co., c.c.); nel caso in cui persista il dubbio sul significato della clausola, essa dovrà essere intesa nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto (art. 1369, c.c.).
Il riferimento alla natura del contratto ‘getta un ponte’ tra l’art. 1369 e l’art. 1371, c.c.: ma mentre il primo si riferisce ai principi desumibili dal contenuto della disciplina normativa del contratto, e dunque presuppone nell’interprete la capacità di ricollegare il regolamento contrattuale a una determinata fattispecie astratta (sfioriamo qui il delicato problema dei rapporti tra interpretazione e qualificazione del contratto, tra accertamento del significato giuridico del contratto e raffronto con le fattispecie normative), il secondo utilizza la più immediata e agevole distinzione tra contratti a titolo gratuito e contratti a titolo oneroso.
Qualora, dunque, nonostante l’applicazione dei canoni ermeneutici richiamati, l’interprete non sia riuscito a sciogliere dubbi e ambiguità, ma l’oscurità risulti tuttavia suscettibile di essere rimossa in base alla natura (gratuita o onerosa) del contratto, ancora in grado di esprimere un significato, egli dovrà ricorrere all’art. 1371, c.c. In caso contrario, l’eventuale impossibilità di applicazione di tali Regole finali determinerà l’accertamento dell’insignificanza del contratto, e il conseguente rigetto della domanda giudiziale: «l’oscurità non è l’ultima condizione del testo: è soltanto l’ultima su cui possono esperirsi i metodi interpretativi. Al di là c’è l’insignificanza (linguistica e giuridica). […] Qui i canoni ermeneutici sono impotenti» (Irti 1999b, p. 1161).
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