Diritto dell’UE e della CEDU e confisca di prevenzione
A seguito della riforma del sistema dell’intervento patrimoniale completata con il “codice antimafia” (d.lgs. 159/2011), il metodo dell’interpretazione conforme alla CEDU ha condotto di recente la giurisprudenza di legittimità italiana a riaprire questioni che sembravano ormai stabilmente risolte sulla natura giuridica della confisca di prevenzione, con le conseguenze che ne discendono sul piano dell’applicabilità (o meno) del principio costituzionale di irretroattività delle sanzioni penali. L’attuale incertezza sulla qualificazione (penale o extrapenale) della confisca di prevenzione, tipica dell’ordinamento italiano, si inserisce in un più generale dibattito sullo statuto delle misure patrimoniali, manifestatosi nel processo di elaborazione della direttiva europea sulla confisca.
Il proteiforme istituto della confisca ha attraversato, negli ultimi decenni, una fase di intenso dinamismo evolutivo.
La tendenza, presente in numerosi ordinamenti giuridici, verso l’introduzione di forme moderne di confisca, caratterizzate dall’espansione dell’oggetto dei provvedimenti, dalla sintomaticità dei presupposti, dalla semplificazione dell’onere probatorio gravante sull’accusa1, ha trovato, all’interno dell’ordinamento italiano, la sua espressione più innovativa nelle misure di prevenzione patrimoniali, introdotte dalla “legge Rognoni-La Torre” (l. 13.9.1982, n. 646).
A lungo controversa in dottrina, la natura giuridica della confisca di prevenzione aveva ricevuto una univoca definizione da parte della giurisprudenza di legittimità che, sin dalla metà degli anni ’90, aveva affermato che essa «non ha né il carattere sanzionatorio di natura penale, né quello di un provvedimento di prevenzione, ma va ricondotta nell’ambito di quel tertium genus costituito da una sanzione amministrativa, equiparabile, quanto al contenuto e agli effetti, alla misura di sicurezza prescritta dall'art. 240, comma secondo, c.p.» (Cass., S.U., 3.7.1996, n. 18, che da tale premessa aveva tratto la conseguenza dell’operatività della confisca anche dopo la morte del proposto).
Questo indirizzo interpretativo è stato ribadito dalla giurisprudenza successiva (da ultimo, Cass. pen., 14.3.2012, n. 21894), anche dopo le recenti riforme che hanno “sganciato” la confisca di prevenzione dal presupposto della pericolosità attuale del proposto.
È evidente la rilevanza pratica di tale qualificazione giuridica, che comporta la sottrazione della confisca in esame dall’area di operatività di tutte le garanzie collegate alle sanzioni penali in senso stretto: si è esplicitato che le misure di prevenzione patrimoniali, al pari delle misure di sicurezza, possono essere applicate anche quando siano previste da una legge posteriore al sorgere della pericolosità sociale, restando sottoposte non al principio di irretroattività della legge penale sancito dall’art. 2 c.p. e dall’art. 25 Cost., bensì a quello della legge vigente al momento della decisione, fissato dall’art. 200 c.p. (cfr. Cass. pen., 20.1.2010, n. 11006).
Sul punto si è però recentemente aperta una riflessione che si è tradotta nel revirement compiuto da Cass. pen., 13.11.2012, n. 14044/2013, secondo cui il venir meno del presupposto della pericolosità sociale attribuisce natura oggettivamente sanzionatoria alla misura di prevenzione patrimoniale, alla quale diviene quindi applicabile il regime di irretroattività previsto dall’art. 11 delle preleggi. Si è, di conseguenza, affermato che la previsione – introdotta dalla l. 15.7.2009, n. 94, e confermata dal “codice antimafia” (d.lgs. 6.9.2011, n. 159) – che consente al giudice di applicare le misure di prevenzione patrimoniali anche prescindendo dalla verifica della pericolosità del proposto, vale solo per le fattispecie realizzatesi dopo l’entrata in vigore della suddetta legge, dovendosi escludere l’operatività dell’art. 200 c.p., che, per le misure di sicurezza e per quelle di prevenzione personali subordinate all’accertamento della pericolosità, pone una deroga all’effetto irretroattivo delle norme penali sfavorevoli.
Alla base di questo nuovo indirizzo interpretativo, vi è una rilettura del sistema prevenzionistico imperniata sul metodo dell’interpretazione conforme alla CEDU, ormai divenuto un leitmotiv nei percorsi argomentativi della giurisprudenza di legittimità italiana, la quale sta colmando un ritardo pluridecennale determinato da una visione “autarchica” della materia penalistica, che spingeva a leggere le garanzie internazionali dei diritti fondamentali con l’ottica riduttiva scaturente dal diritto interno.
Nella motivazione della pronuncia n. 14044/2013, la Corte di Cassazione, da un lato, segnala come le recenti riforme abbiano escluso, per le misure di prevenzione patrimoniali, il requisito dell’attualità della pericolosità sociale che consentiva l’equiparazione delle misure di sicurezza e di prevenzione ai fini dell’applicabilità alle seconde della disciplina dell’art. 200 c.p., dettata per le prime; dall’altro, richiama la giurisprudenza della Corte di Strasburgo secondo cui «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale», precisando che la necessità di scongiurare un surrettizio aggiramento delle garanzie che gli artt. 6 e 7 della CEDU riservano alla materia penale «comporta che la distinzione relativa alla natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione si fondi non solo sul criterio della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale, ma anche su altri due parametri, costituiti dall’ambito di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione».
In quest’ottica, la suddetta pronuncia di legittimità ha riconosciuto la natura oggettivamente sanzionatoria della misura di prevenzione patrimoniale (anche al di fuori dell’ipotesi della confisca per equivalente, già oggetto di analoga valutazione ad opera di Cass. pen., 28.2.2012, n. 11768), alla luce del rilievo che essa «sembra poter legittimamente riguardare beni privi di concreto collegamento con i fatti giustificativi della misura, ed ispirarsi alla generale finalità di escludere che un soggetto possa ricavare qualsivoglia beneficio economico da attività illecite».
La sentenza n. 14044/2013 della Corte di cassazione richiama i cd. tre “criteri Engel” (la classificazione dell’illecito nell’ordinamento nazionale, la intrinseca natura dell’illecito e la severità della sanzione applicabile), utilizzati in via alternativa dalla Corte di Strasburgo per la definizione della “materia penale”, al fine di assicurare la uniforme applicazione di uno standard minimo di garanzie in tutti gli Stati-parte.
Nell’ambito dei suddetti criteri, il parametro della classificazione dell’illecito nell’ordinamento nazionale rappresenta soltanto un punto di partenza per l’analisi condotta dalla Corte europea.
Il criterio della natura dell’illecito è il più elastico, in quanto fa leva su una pluralità di indici come: - la cerchia dei destinatari del precetto, che deve rivolgersi alla generalità dei cittadini, e non inserirsi esclusivamente nella disciplina interna di un gruppo contrassegnato da uno status speciale; - la finalità della sanzione comminata dalla norma incriminatrice, che deve avere carattere deterrente e punitivo; - la qualificazione penalistica prevalente nel panorama degli ordinamenti nazionali; - il collegamento della sanzione con l’accertamento di una infrazione (con esclusione, quindi, delle mere misure preventive).
Infine, il criterio della severità della sanzione fa riferimento alla gravità delle conseguenze previste dalla legge; può trattarsi, in particolare, di pene detentive, o pene pecuniarie di rilevante entità.
In applicazione dei suddetti criteri, sono state ricondotte alla materia penale alcune significative ipotesi di confisca con funzione repressiva, sebbene qualificate nell’ordinamento interno come sanzioni amministrative applicate in via di supplenza dall’autorità giudiziaria (C. eur. dir. uomo, 30.8.2007 e 21.1.2009, Sud Fondi Srl c. Italia).
Un diverso orientamento è stato però seguito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo a proposito delle ipotesi di confisca fondate su un’actio in rem.
In quest’ultima categoria rientrano le misure ablatorie applicate all’esito di procedure relative al patrimonio, che non presentano come condizione indispensabile la pronunzia di una sentenza di condanna. Il prototipo di tale modello è rappresentato dalla civil forfeiture diffusa negli ordinamenti di common law, ma alla categoria in esame può ricondursi anche il sistema italiano delle misure di prevenzione patrimoniali.
Le suddette misure sono state, infatti, considerate dalla Corte europea come forme di regolamentazione dell’uso dei beni in conformità all’interesse collettivo, riconducibili alla previsione dell’art. 1, § 2, del Protocollo n. 1 addizionale alla CEDU. Si è quindi riconosciuto che l’ingerenza nel godimento del diritto al rispetto dei propri beni, da esse determinata, risulta conforme ai principi convenzionali in quanto è prevista dalla legge, si prefigge uno scopo che corrisponde all’interesse generale (quello di impedire un uso illecito e pericoloso per la società di beni la cui provenienza lecita non è stata dimostrata), ed appare proporzionata al legittimo scopo perseguito. Su quest’ultimo punto, si è osservato che «il fenomeno della criminalità organizzata ha raggiunto, in Italia, dimensioni davvero preoccupanti. I guadagni smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite danno loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto nello Stato. Quindi, i mezzi adottati per combattere questo potere economico, ed in particolare la confisca, possono risultare indispensabili per poter efficacemente combattere tali associazioni» (C. eur. dir. uomo, 22.2.1994, Raimondo c. Italia; 15.6.1999, Prisco c. Italia; 5.1.2010, Bongiorno e altri c. Italia).
Non trattandosi di sanzioni penali (in quanto non implicano l’accertamento di un reato e della colpevolezza dell'imputato, ma tendono a prevenire la commissione di delitti da parte di soggetti ritenuti pericolosi), la Corte di Strasburgo ha ritenuto che le misure di prevenzione patrimoniali restino soggette soltanto ai principi del “processo equo” valevoli per le controversie su diritti ed obbligazioni di carattere civile, di cui al § 1 dell’art. 6 della CEDU, e non anche alle previsioni dei §§ 2 e 3 della stessa norma, relative alla presunzione di innocenza e ai diritti dell’accusato (C. eur. dir. uomo, 16.3.2006, Bocellari e Rizza c. Italia).
Muovendosi nella stessa prospettiva, con riguardo al principio di legalità in materia penale, la Corte ha ammesso che la confisca disciplinata nell’ordinamento britannico dal Drug Trafficking Offences Act del 1986, purché adottata in relazione ad un reato commesso dopo la data di entrata in vigore di tale atto normativo, possa consentire l’ablazione di profitti derivanti da altri reati compiuti in epoca anteriore (C. eur. dir. uomo, 9.2.1995, Welch c. Regno Unito).
Si tratta di una conclusione analoga a quella raggiunta dalla giurisprudenza di legittimità italiana che ha interpretato il disposto dell’art. 200, co. 1, c.p. – secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al momento della loro applicazione – nel senso «che, mentre non può applicarsi una misura di sicurezza per un fatto che al momento della sua commissione non costituiva reato, è possibile la suddetta applicazione per un fatto di reato per il quale originariamente non era prevista la misura, atteso che il principio di irretroattività della legge penale riguarda le norme incriminatrici e non le misure di sicurezza, che per loro natura sono correlate alla situazione di pericolosità attuale del proposto» (Cass. pen., 11.3.2005, n. 13039).
Resta, tuttavia, da verificare se le conclusioni precedentemente raggiunte restino ancora valide dopo le recenti riforme che hanno completamente rimosso il collegamento tra la misura patrimoniale e la pericolosità attuale, già ritenuto idoneo a giustificare l’applicazione della confisca rispetto a fatti di reato per i quali essa non era originariamente prevista.
Sorge, in effetti, il dubbio che la tendenza del legislatore italiano ad estendere l’ambito di operatività delle misure di prevenzione patrimoniali mediante il «passaggio da un approccio incentrato sulla “pericolosità del soggetto” a una visione imperniata sulla formazione illecita del bene che, una volta reimmesso nel circuito economico, è in grado di alterare il sistema legale di circolazione della ricchezza, minando così alla radice le fondamenta di una economia di mercato» (così le indicazioni dei lavori preparatori della l. n. 94/2009), possa andare incontro ad una vistosa eterogenesi dei fini, una volta proiettata nel contesto europeo.
È, infatti, evidente che la funzionalità del sistema della prevenzione patrimoniale subirebbe un pesante vulnus se si consolidasse l’orientamento favorevole all’applicabilità del principio di irretroattività della confisca de qua, configurata come sanzione penale: ne deriverebbe l’impossibilità di colpire proprio quelle fasce di economia criminale consolidata, risalenti nel tempo, che rappresentano l’obiettivo delle recenti riforme.
Problemi analoghi sembrano porsi, nel presente momento storico, in relazione al processo di “europeizzazione del diritto penale” avviato dal Trattato di Lisbona.
Secondo l’assetto normativo anteriore al Trattato, i procedimenti ablatori in rem (comprese le misure di prevenzione patrimoniali presenti nell’ordinamento italiano) possono ricondursi alla previsione dell’art. 3, § 4, della decisione quadro 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato.
Tale norma, infatti, prevede la possibilità per gli Stati membri di ricorrere a procedure diverse da quelle penali per esercitare i poteri estesi di confisca nei confronti dei soggetti condannati per una vasta gamma di reati commessi nel quadro di organizzazioni criminali, in presenza di alcuni presupposti probatori delineati in via alternativa (precisamente, la derivazione del bene da attività criminose, accompagnata dalla commissione di queste ultime entro un ragionevole periodo anteriore alla condanna, nonché eventualmente dalla analogia delle stesse rispetto al reato cui si riferisce la condotta, ovvero dalla sproporzione tra il valore del bene ed il reddito legittimo della persona condannata).
Questa disciplina, tuttora in vigore, ammette un ampio ricorso a forme extrapenali di confisca, anche se richiede che esse trovino il proprio presupposto in una sentenza di condanna, pronunciata in un separato giudizio.
Un forte impulso verso la generalizzazione delle misure ablatorie in rem sembrava esser stato dato dalla risoluzione sulla criminalità organizzata nell’Unione europea, adottata dal Parlamento europeo il 25 ottobre 2011, che ha valorizzato energicamente lo strumento delle misure patrimoniali, impegnando la Commissione alla presentazione di una proposta di direttiva sulla procedura di sequestro e di confisca dei proventi di reato, con norme che consentano l’utilizzo efficace di strumenti quali la confisca in assenza di condanna.
La relativa proposta di direttiva COM (2012) 85, presentata in data 12 marzo 2012 dalla Commissione europea, ha però deluso sensibilmente le aspettative. È apparsa priva di ogni utilità la previsione (art. 5) che disciplina la confisca non basata sulla condanna circoscrivendola ad alcune limitatissime ipotesi che presuppongono sempre la instaurazione di un procedimento penale e configurano veri e propri “casi di scuola”.
L’effetto di una simile regolamentazione potrebbe essere quello di impedire la circolazione nello spazio giuridico europeo degli strumenti, estremamente efficaci, rappresentati rispettivamente dalle misure di prevenzione patrimoniali italiane e dalla civil forfeiture degli ordinamenti di matrice britannica.
Proprio per evitare simili inconvenienti, la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento europeo in data 20 maggio 2013 ha presentato una serie di emendamenti finalizzati ad elaborare un modello europeo di confisca in assenza di condanna per una vasta gamma di fenomeni delittuosi.
Tale intento trova però un problematico bilanciamento in altre previsioni dei suddetti emendamenti, secondo cui la confisca (disposta a seguito di condanna o meno) deve essere ritenuta avente natura penale alla luce dei noti criteri elaborati dalla Corte di Strasburgo. Tale conclusione, che deriva dall’esigenza di conservare l’aggancio alla base giuridica dell’art. 83 TFUE (relativo alla competenza normativa penale dell’Unione europea)2, comporterebbe l’applicazione di tutti i principi stabiliti dalla CEDU per la materia penale, compreso quello di irretroattività della sanzione. Ne risulterebbe quindi contraddetta l’intera elaborazione giurisprudenziale costruita dalla stessa Corte europea sulle misure ablatorie in rem, le quali, nel futuro, dovrebbero presupporre la prova della derivazione dei profitti da attività delittuose commesse in epoca successiva alla legge che le introduce.
Il complesso, e tuttora irrisolto, problema della individuazione dello “statuto” delle misure patrimoniali, manifestatosi nei recenti contrasti interni alla giurisprudenza di legittimità italiana come pure nel procedimento di elaborazione della direttiva europea sulla confisca, è sintomatico della difficoltà di applicare le tradizionali categorie del diritto penale ad un settore “di confine”, quale quello delle forme moderne di confisca, che pure sta ricevendo una crescente valorizzazione sul terreno delle strategie di contrasto della criminalità economica ed organizzata, in momento storico in cui lo Stato assume la doppia identità di Stato di diritto e di Stato di prevenzione.
1 Fornari, L., Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, Padova, 1997, 30, 214, 224.
2 Sulla tematica v. Mazzacuva, F., La posizione della Commissione LIBE del Parlamento europeo alla proposta di direttiva relativa al congelamento e alla confisca dei proventi di reato, in www.penalecontemporaneo.it, 16.7.2013; Maugeri, A.M., L’actio in rem assurge a modello di “confisca europea” nel rispetto delle garanzie Cedu?, in www.penalecontemporaneo.it, 17.7.2013.