Diritto dell'UE e della CEDU e problema del bis in idem
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha messo in discussione, con affermazioni che hanno potenziali ricadute anche in altri settori dell’ordinamento, il sistema di doppio binario, amministrativo e penale, attorno al quale è strutturata la disciplina italiana degli abusi di mercato, rilevando sia la violazione del principio del ne bis in idem, sia quella del diritto ad un equo processo.
In relazione a tali profili vengono dunque esaminate le relative implicazioni problematiche e le possibili soluzioni interpretative.
Con la sentenza del 4.3.2014 (causa Grande Stevens e altri c. Italia), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rilevato nel sistema legislativo italiano in materia di abusi di mercato una violazione del diritto all’equo processo (art. 6, par. 1, CEDU) e del diritto a non essere giudicati o puniti due volte (art. 4, prot. 7, CEDU).
Per quel che attiene alla prima violazione, la Corte di Strasburgo ha individuato la presenza di taluni vizi nel procedimento amministrativo sanzionatorio svoltosi davanti alla CONSOB, ponendo in rilievo, da un lato, l’assenza di contraddittorio – per il fatto che la relativa sanzione è stata inflitta sulla base di un rapporto non comunicato ai ricorrenti – e, dall’altro lato, il mancato svolgimento di un’udienza pubblica, ritenuta necessaria non solo per la presenza di una controversia vertente sulla ricostruzione del fatto, ma anche per il rischio di vedersi applicate sanzioni particolarmente severe.
Con riferimento al secondo profilo, inoltre, la Corte europea ha osservato che, dinanzi alla CONSOB e nell’ambito del procedimento penale, ai ricorrenti era stata contestata, sulla base delle diverse disposizioni di cui agli artt. 185 e 187 ter t.u.f., entrambe aventi ad oggetto condotte in materia di manipolazione del mercato, una «unica e medesima condotta commessa da parte delle stesse persone nella stessa data», con la conseguenza che l’azione penale riguardava un secondo «illecito», scaturito da fatti identici a quelli che avevano motivato la prima condanna definitiva in sede amministrativa.
Passato in giudicato il procedimento originato dalla contestazione dell’illecito amministrativo di cui all’art.187 ter, e rilevata la pendenza di quello penale, avente ad oggetto l’omologa accusa del delitto di manipolazione del mercato di cui all’art. 185 t.u.f., la Corte europea ha richiamato la propria giurisprudenza, secondo cui non interessa verificare se gli elementi costitutivi del fatto tipizzato dalle due norme siano o meno identici, bensì solo se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla CONSOB e dinanzi ai giudici penali «fossero riconducibili alla stessa condotta» (par. 224).
Muovendo da tali premesse argomentative, la Corte si è orientata nel senso di ritenere la medesimezza dei fatti, che in entrambi i procedimenti si erano concretati nell’aver dichiarato in una comunicazione al mercato che una società non aveva avviato né messo a punto iniziative concernenti la scadenza di un contratto di finanziamento, nonostante un accordo di modifica dell’equity swap fosse stato già esaminato e concluso (parr. 225 ss.).
Anche nella successiva elaborazione giurisprudenziale, peraltro, la Corte ha ribadito con decisione tale canone interpretativo1 ed ha concluso nel senso che i procedimenti che comportano l’imposizione di una sovrattassa devono essere considerati “penali” anche ai fini dell’applicazione dell’art. 4, prot. 7, CEDU, precisando che la celebrazione di due procedimenti paralleli è compatibile con la Convenzione, a condizione che il secondo venga interrotto nel momento in cui il primo sia divenuto definitivo.
Con decisione del 7.7.2014 la Corte ha rigettato la richiesta di rinvio alla Grande Camera formulata dal Governo italiano avverso la citata sentenza, che pertanto è divenuta definitiva ai sensi dell’art. 43CEDU.
Il principio del ne bis in idem, originariamente confinato nei ristretti limiti di una dimensione territoriale nazionale, è oggi divenuto un diritto fondamentale del cittadino europeo, dispiegando i suoi effetti nel territorio di tutti gli Stati membri dell’UE, attesa la natura di fonte primaria della Carta dei diritti fondamentali.
2.1 Un nuovo diritto fondamentale
La formulazione stessa dell’art. 50 della Carta evoca la più ampia forma di tutela, dilatandone l’incidenza sull’intero territorio degli Stati membri dell’UE, nella dimensione propria di un principio generale del diritto euro-unitario, a norma dell’art. 6, par. 2, TUE. In tal modo, la previsione supera la necessità di rinviare al contenuto delle disposizioni di singoli ordinamenti nazionali ed assume la funzione di una garanzia generale, applicabile ogni qual volta si sia formato un giudicato su un medesimo fatto, commesso dalla stessa persona.
A fronte di uno stabile indirizzo interpretativo della Corte di giustizia2, volto a qualificare l’identità del fatto dal punto di vista storico-materiale, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ne aveva in passato sostenuto un’accezione formale e più restrittiva, coincidente con la qualificazione giuridica della condotta, ha modificato successivamente il proprio orientamento nel 2009, quando ha optato per una più ampia lettura del requisito, incentrata sull’identità del fatto materiale, sanando in tal modo la discrasia giurisprudenziale rispetto al canone interpretativo seguito dalla Corte di giustizia3.
La portata del principio, secondo la Corte di Strasburgo, va intesa come divieto di giudicare una persona per una seconda “infrazione”, qualora questa scaturisca dagli stessi fatti o da fatti sostanzialmente identici: dal raffronto fra gli atti dei vari procedimenti, dunque, è possibile desumere la presenza del requisito dell’identità sostanziale dei fatti posti alla base degli addebiti, assumendo quali parametri di riferimento l’insieme delle circostanze fattuali concrete relative allo stesso autore e indissolubilmente legate fra loro nel tempo e nello spazio.
Pur avendo sempre riconosciuto agli Stati parti un certo margine di apprezzamento, senza porne in discussione le scelte sanzionatorie, la Corte si è più volte espressa sul concetto di “natura penale” della controversia al fine di superare la varietà delle impostazioni di politica criminale seguite dai vari ordinamenti nazionali, con l’obiettivo di garantire all’individuo una protezione rafforzata di fronte all’esercizio dello ius puniendi da parte delle autorità statali: una persona, dunque, non può essere nuovamente sanzionata per lo stesso comportamento con il pretesto che si tratti di una misura amministrativa o disciplinare4.
Sin dagli anni ’70, inoltre, la Corte di Strasburgo ha inteso supportare il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, in base al quale la reale natura delle misure sanzionatorie previste negli ordinamenti nazionali viene apprezzata alla luce delle loro concrete peculiarità e conseguenze e non in forza della mera qualificazione giuridica ad esse riconosciuta. In particolare, la Corte ha eletto la qualificazione dell’infrazione, la sua natura e l’intensità della sanzione comminata a criteri discretivi di riferimento, idonei a rivelare l’essenza penale di un determinato provvedimento5.
2.2 Divergenze interpretative fra le due Corti sovranazionali
Problemi di non poco momento possono scaturire dal fatto che la Corte di giustizia ha accolto, con la sentenza 26.2.2013, Åklaren c. Åkeberg Fransson, C-617/10, un’interpretazione dell’art. 50 della Carta, nella parte in cui riconosce il ne bis in idem interno, parzialmente diversa da quella effettuata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione all’art. 4, prot. n. 7.
Se, da un lato, per accertare la natura penale delle sanzioni fiscali, i giudici euro-unitari fanno riferimento ai criteri elaborati nella sentenza Engel dalla Corte europea, dall’altro lato essi sembrano in parte discostarsene con l’affermazione contenuta nel par. 36, secondo cui «spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce di tali criteri, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali ai sensi del punto 29 della presente sentenza, circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive».
Le statuizioni contenute nel par. 36 della sentenza, infatti, consegnano direttamente al vaglio delibativo del giudice interno il compito di sciogliere quel nodo interpretativo. Inoltre, lo stesso oggetto della valutazione sembra mutare rispetto a quanto affermato in generale dalla Corte europea con riferimento all’art. 4, prot. n. 7, non concernendo più la sola natura penale delle sanzioni (illeciti, procedure) fiscali da cui scatterebbe, in caso di esito positivo, la preclusione processuale ex art. 50, come accade, di regola, per l’art. 4, prot. n. 7, CEDU, ma l’esistenza del cumulo tra sanzioni penali e tributarie (di natura penale) per lo stesso fatto.
L’elaborazione giurisprudenziale della Corte europea, ribadita anche nella pronuncia Grande Stevens, è invece costante nell’affermare il principio opposto, poiché nel suo canone esegetico non soltanto può non rilevare la qualificazione dell’infrazione fornita dal diritto degli Stati membri, ma non spetta in nessun caso al giudice nazionale il compito di valutare la “natura penale” della prima sanzione, poiché è la sola Corte europea dei diritti dell’uomo a poter accertare la reale sostanza dell’infrazione, così, di fatto, estromettendo il giudice nazionale dall’esercizio di ogni potere qualificatorio.
Questa diversità di opinioni sul ruolo e sull’estensione dei poteri del giudice nazionale è stata subito colta nelle riflessioni sviluppate da un’attenta dottrina6, poiché essa involge la stessa articolazione delle linee-guida di un sereno e fecondo dialogo tra le Corti, affondando le sue radici in una visibile linea di frattura tra il sistema interno e quello convenzionale.
È evidente, infatti, che in un sistema basato sul principio costituzionale della riserva di legge il giudice nazionale è vincolato dalla definizione normativa del fatto come reato o illecito amministrativo secondo la legislazione nazionale.
Sotto altro, ma connesso profilo, egli sarà comunque obbligato al rispetto dei vincoli derivanti dal quadro normativo euro-unitario in tema di valutazione della compatibilità della doppia sanzione, e potrà, se del caso, ritenere che, non essendo la prima sanzione inflitta di natura penale (perché non qualificata in tal senso dall’ordinamento nazionale, né tale ritenuta dal diritto UE), lo standard di tutela nazionale rispetto al principio del ne bis in idem non è stato affatto violato.
Valutazione, questa, che rischia di collidere frontalmente con il quadro delle garanzie convenzionali tracciato dalla Corte europea, poiché, assumendo che lo standard nazionale di tutela possa essere integrato anche dai principii della Convenzione e del protocollo n. 7, il giudice nazionale ben potrà giungere alla conclusione di ritenere del tutto legittima un’ipotesi di applicazione della doppia sanzione secondo l’ordinamento nazionale, come interpretato nel prisma dell’art. 50 della Carta, alla luce dei trattati o del loro diritto derivato; al contempo, tuttavia, un’esegesi di tal fatta potrebbe rivelarsi illegittimamente preclusiva sul piano del rispetto delle garanzie convenzionali ex art. 4, prot. n. 7, così come interpretato nella prospettiva “sostanzialistica” seguita dalla Corte di Strasburgo.
2.3 Le prime “reazioni” della giurisprudenza nazionale
Le prime risposte della Corte di cassazione sembrano orientarsi nel senso di una decisa valorizzazione della rilevanza dei tratti costitutivi del principio di legalità formale accolto nella nostra Costituzione.
Con sentenza 17.12.2013-14.5.2014, n. 19915, la Corte di cassazione ha affermato, proprio riguardo alla definizione della vicenda in esame in sede penale, il principio secondo cui, sulla base del diritto vigente, l’azione penale non è improcedibile, perché preclusa ex art. 649 c.p.p., in seguito alla irrogazione definitiva di una sanzione amministrativa per il medesimo fatto.
Valorizzando gli enunciati interpretativi della sentenza Fransson, la Corte di cassazione ha ritenuto infondata la richiesta volta ad ottenere una declaratoriadi improseguibilità dell’azione penale, osservando che il presupposto formale del divieto di un secondo giudizio e della preclusione della res iudicata è costituito dalla sentenza penale – di condanna o di proscioglimento – ovvero dal decreto penale divenuti irrevocabili, «atteso l’incontestabile tenore dell’art. 649, co. 1, c.p.p.», presupposto che, nel caso in esame, è stato ritenuto pacificamente carente.
Sulla base del diritto vigente, dunque, non si ritiene «plausibilmente prospettabile per l’interprete alcuno spiraglio per una diversa ermeneutica» nel senso di un’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata dell’art. 649 c.p.p., che miri ad estendere il divieto in relazione ai pregressi giudizi relativi al medesimo fatto sanzionato come violazione amministrativa, ossia nel senso di ritenere la nozione di “reato” sostanzialmente equipollente al concetto di “infrazione”.
Sostanzialmente non dissimile, nella ratio e nei contenuti argomentativi, appare un altro epilogo decisorio, maturato però nel diverso settore del diritto tributario.
Con una recente pronuncia, la sez. VI civile della Corte di cassazione ha pronunciato sul ricorso di un cittadino che, sul presupposto della irragionevole durata di una controversia tributaria, aveva chiesto l’equa riparazione7. Pur rilevando che la Corte di giustizia ha ampliato il novero degli elementi alla stregua dei quali il giudice nazionale è chiamato a decidere se le sanzioni tributarie assumano o meno natura penale, la Suprema Corte ha osservato che il nostro sistema costituzionale è retto dal principio di stretta legalità nell’individuazione degli illeciti e delle sanzioni penali (art. 25 Cost.), principio recepito anche in sede di legislazione ordinaria nell’art. 1 c.p., e che è quindi demandato solo ed esclusivamente al legislatore il compito di procedere all’individuazione del tipo penale.
Discende da tale affermazione il logico corollario secondo cui «pare assai più conferente ancorare l’assimilabilità di una sanzione amministrativa (o tributaria) ad una sanzione penale solo in presenza di un riferimento normativo e non esclusivamente in base al requisito – che presenta indubbi caratteri di relatività – della afflittività della sanzione», con l’ulteriore, significativo, rilievo che «la decisione Aklagaren c. Akerberg Fransson si pone in perfetta armonia con
i principi costituzionali dell’ordinamento italiano».
Nel caso di specie, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto del tutto corretta la decisione della corte d’appello di escludere che il giudizio tributario in questione fosse ascrivibile all’ambito della materia penale.
Nella medesima prospettiva, infine, si colloca un’ulteriore pronuncia in sede penale della Corte di cassazione8, la quale, ponendosi in linea con quanto già affermato nella decisione n. 37425/2013 delle Sezioni Unite, ha escluso che il concorso tra sanzioni amministrative e penali previste in caso di omesso versamento di ritenute (ex art. 10 bis d.lgs. 10.3.2000, n. 74 e art. 13 d.lgs. 18.12.1997, n. 471) possa costituire una violazione del principio del ne bis in idem stabilito dalla CEDU.
La Corte di cassazione ha ritenuto inconferente il richiamo alla linea interpretativa tracciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, respingendo la tesi del bis in idem sul rilievo che la sanzione amministrativa tributaria non può essere considerata una sanzione avente natura penale e che l’omesso versamento-illecito amministrativo e l’omesso versamento-illecito penale, essendo caratterizzati da elementi costitutivi parzialmente divergenti, non si trovano in un rapporto di specialità, bensì di progressione illecita, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni.
Dal richiamo, sia pur parziale, ma in più occasioni operato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo agli orientamenti giurisprudenziali della Corte di giustizia, sembra possibile evincere che ad essere messa in discussione – ed il rilievo può agevolmente estendersi anche al di là della specifica materia degli abusi di mercato – non è tanto la possibilità che un sistema normativo preveda in taluni casi un doppio binario sanzionatorio, quanto la concreta configurazione che esso ha assunto nella disciplina adottata dal legislatore italiano.
3.1 Le possibili soluzioni interpretative
Entro questa prospettiva, e non solo in relazione alla vicenda che ha costituito oggetto della pronuncia Grande Stevens, per sciogliere i dubbi originati dalle situazioni di possibile antinomia normativa sembra assumere un ruolo di centrale rilevanza il ricorso ad una estesa applicazione del principio di specialità sulla base della regola generale dettata nell’art. 9 l. 24.11.1981, n. 689.
È la strada già intrapresa dalla Corte di cassazione nel 2006, quando ha mostrato di valorizzare la clausola di salvezza posta in apertura dell’art. 187 ter t.u.f. per escludere in concreto il cumulo sanzionatorio sullo stesso fatto manipolativo, attraverso l’individuazione, sul piano dell’inquadramento giuridico delle due fattispecie, del confine tra illecito penale e illecito amministrativo9.
In applicazione del principio di specialità, la Suprema Corte ha dato rilievo alle fattispecie in astratto tipizzate dal legislatore, facendo riferimento, per risolvere il problema della sovrapposizione normativa, al dato quantitativo dell’alterazione del prezzo degli strumenti finanziari causato dalle operazioni poste in essere sul mercato, presente solo nella disposizione penale (art. 185 t.u.f.), ed alla natura di fattispecie a tutela anticipata di pericolo astratto dell’illecito amministrativo di cui all’art. 187 ter del d.lgs. 24.2.1998, n. 58, che non postula, alla stregua dell’omologa fattispecie penale, condotte qualificabili come truffaldine, idonee a concretizzare una sensibile modifica del prezzo degli strumenti finanziari.
Muovendo da tale linea interpretativa, si è proposto in dottrina10 di “rileggere” la stessa clausola di salvezza, pur ambigua, con cui si aprono gli illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato («Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato») nel senso di circoscrivere questi ultimi ai soli casi non regolati dalle corrispondenti fattispecie penali.
Al riguardo, tuttavia, la nostra giurisprudenza, diversamente dall’approccio “sostanzialistico” privilegiato dalla Corte europea, tende ad applicare il principio di specialità sulla base del confronto tra elementi costitutivi di fattispecie tipiche in astratto considerate, e non tra fattispecie concrete (ad es., Cass. pen., S.U., 28.10.2010-21.1.2011, n. 1963, p.g. in proc. De Lorenzo, in ossequio al dato testuale dell’art. 9 l. n. 689/81, che fa riferimento al «fatto tipico», ed in linea
con gli stessi orientamenti interpretativi della Corte Costituzionale (ad es., C. cost., 3.4.1987, n. 97).
In senso critico rispetto ad un’interpretazione “convenzionalmente conforme” della clausola di riserva con cui si aprono le norme sanzionatorie amministrative in materia di market abuse si è espressa parte della dottrina, secondo cui l’opzione interpretativa volta ad applicare la sanzione amministrativa nei soli casi in cui il fatto non costituisce illecito penale rischia di apparire di «dubbia compatibilità» con il sistema del diritto euro-unitario, poiché, se pure in rapporto alle ipotesi di manipolazione del mercato vi è un qualche (modesto) scostamento tra fattispecie sanzionatoria penale e amministrativa, per l’abuso di informazioni privilegiate (ex artt. 184 e 187 bis t.u.f.) la sovrapposizione, almeno sul piano oggettivo, risulta pressoché totale, con la conseguenza che la previsione degli illeciti amministrativi resterebbe «sostanzialmente svuotata di senso»11.
Una diversa possibilità, specie nelle evenienze in cui vi sia una condanna definitiva in sede amministrativa e risulti ancora pendente il procedimento penale, è quella legata all’interpretazione conforme dell’art. 649 c.p.p., che secondo una parte della dottrina potrebbe leggersi estensivamente, quanto al riferimento alla tipologia di illecito, nel senso di ricomprendere nel concetto «di sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili» anche i provvedimenti di condanna definiti “penali” dalla Corte europea12.
Un’interpretazione, questa, apparentemente orientata in senso “convenzionalmente conforme”, ma in realtà basata su una dilatazione del dato letterale e sistematico che sembra difficilmente percorribile, non solo alla luce delle su menzionate prese di posizione della Corte di cassazione, ma anche per l’esigenza di rispettare il margine di apprezzamento nazionale – inevitabilmente riservato ad uno Stato parte nella definizione, “sovrana”, delle sue fondamentali scelte di politica criminale – salvaguardando il collegamento funzionale tra l’effetto preclusivo introdotto dall’art. 649 c.p.p. e la oggettiva incontrovertibilità del dictum penale da cui quell’effetto deriva secondo la correlata disposizione di cui all’art. 648 c.p.p.
Alle regole della cognizione penale non possono equipararsi quelle proprie di una procedura amministrativa sanzionatoria non assistita dal medesimo quadro di principii e garanzie, se non a patto di sacrificare l’irretrattabilità dell’azione penale in favore di quella avviata da un organo amministrativo, determinando in tal modo una violazione del principio costituzionale scolpito nell’art. 112 Cost. e dello stesso principio di soggezione alla legge di cui all’art. 101, co. 2, Cost., per l’effetto di disapplicazione di una norma penale sul cui carattere imperativo sarebbe destinato a prevalere, per la sua anteriorità, il definitivo accertamento, in altra e meno garantita sede di giudizio, di un fatto illecito ritenuto “sostanzialmente” penale13.
Un ostacolo insormontabile, dunque, che potrebbe esser superato solo attraverso la proposizione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost., assumendo quale norma interposta quella di cui all’art. 4, prot. 7, CEDU, secondo l’interpretazione che ne fornisce la Corte di Strasburgo.
Una diversa soluzione interpretativa è quella fondata sulla diretta applicazione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali, sul presupposto che tale disposizione incorpora almeno l’insieme delle garanzie enucleate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in sede di interpretazione dell’art. 4, prot. 7: secondo tale impostazione, il giudice penale potrebbe pronunciare immediatamente una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere strutturalmente identica a quella che il giudice ha già l’obbligo di pronunciare ai sensi dell’art. 649 c.p.p. e ai sensi dell’art. 54 della Convenzione di Schengen; così come analoga statuizione dovrebbe adottare l’autorità amministrativa o quella giurisdizionale adita in sede di opposizione nella (assai più improbabile) ipotesi in cui si sia già formato il giudicato in sede penale14.
Nella diversa ipotesi in cui tanto il procedimento per l’illecito amministrativo che quello per l’illecito penale abbiano ad oggetto il medesimo fatto e risultino già definiti con sentenze passate in giudicato, si configurano ulteriori questioni problematiche legate, da un lato, al principio di intangibilità del giudicato, e, dall’altro lato, ai limiti di proponibilità dell’incidente di costituzionalità per il fatto che ormai si discute di “rapporti esauriti”.
Anche in tal caso, come sottolineato da una parte della dottrina15, si potrebbe procedere per la via di un’interpretazione “convenzionalmente conforme”, ovvero, più verosimilmente, tramite la proposizione di un incidente di legittimità costituzionale, poiché si tratterebbe di estendere la portata applicativa della disposizione di cui all’art. 669 c.p.p. all’ipotesi in cui la sentenza definitiva riguardi l’accertamento di un illecito amministrativo la cui “essenza” risulti connotata dai medesimi tratti identitari di una condotta penalmente rilevante.
Si è altresì posto l’accento, ed il rilievo appare senz’altro condivisibile, sulla difficoltà di invocare con successo la sperimentabilità delle ipotesi di revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 673 c.p.p., stante il carattere eccezionale, e quindi tassativo, attraverso cui vengono individuate dal legislatore le ipotesi di superamento del giudicato.
Nella prospettiva di un utile dialogo tra la Corte di giustizia e le autorità giudiziarie nazionali potrebbe rivelarsi opportuna, invece, la proposizione di un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE in merito all’effettiva portata e all’ambito di applicazione della materia, di diretto interesse euro-unitario, oggetto delle disposizioni interne di cui agli artt. 187 ter, 187 duodecies e 187 terdecies d.lgs. n. 58/1998, trattandosi di una questione di interpretazione nuova, che presenta un interesse generale per l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, con particolare riferimento alle implicazioni riconnesse allo “spazio” da assegnare in concreto all’esercizio del diritto affermato nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali.
3.2 Osservazioni conclusive
In definitiva, è chiaro che la possibilità di qualificare in senso sostanzialmente “penale” una sanzione che presenti un particolare grado di severità ed un connotato evidentemente repressivo, unitamente a quello preventivo e riparatorio dei pregiudizi di natura finanziaria cagionati dalla condotta, pone in discussione, e induce a rimeditare, l’intero sistema normativo della depenalizzazione, sollecitando il legislatore – anche sulla base dei paradigmi di riferimento offerti
dalla nuova direttiva 2014/57/UE del 16.4.2014 in tema di sanzioni penali per gli abusi di mercato – ad individuare nuove tecniche selettive dell’intervento sanzionatorio, restituendo razionalità ed effettività alle scelte della depenalizzazione, all’interno di una prospettiva organicamente finalizzata ad evitare indebite duplicazioni di procedimenti e sanzioni.
È altrettanto evidente, tuttavia, la problematicità dello scenario entro cui si muovono il legislatore e, ancor prima, l’interprete, stretto nella morsa di una delicata operazione di bilanciamento fra obblighi di diversa origine e natura, da soddisfare attraverso un dialogo che, da un lato, deve consentire il travaso nel sistema nazionale di principii frutto di elaborazioni giurisprudenziali “esterne”, dall’altro lato deve evitare il rischio di possibili collisioni con l’intero quadro costituzionale, ossia con qualunque norma costituzionale, non solo con i “principi supremi” che fungono da “controlimiti” all’ingresso delle fonti sovranazionali nell’ordinamento interno.
Sembra comunque difficile ritenere che, al di fuori di criteri oggettivi, preventivamente fissati e generalmente applicabili a tutti i cittadini (ex art. 3 Cost.), possa delegarsi al giudice nazionale, o ad altri per lui, il compito di individuare i tratti ontologici della “risposta” ordinamentale ad un determinato tipo di illecito, contrassegnando con il “bollo” della materia penale quello che il legislatore ha formalmente tipizzato in altro modo, all’esito di un processo decisionale frutto di scelte deliberate in sede parlamentare.
Per il nostro sistema, si è osservato, quello che la CEDU identifica come il primo criterio “formale” (e che dalla Corte di Strasburgo viene sostanzialmente svilito), vale a dire la definizione normativa del fatto come reato o illecito amministrativo, è l’unico ad assumere valore costituzionale, in ragione del principio di stretta legalità scolpito nell’art. 25 Cost.16.
Da ultimo, è opportuno ricordare che la Corte di cassazione (sez. V, ord. 10.11.2014, n. 3333, la cui motivazione non è ancora depositata) ha ritenuto la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 bis, co. 1, d.lgs. 24.2.1998, n. 58 per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 4, prot. 7, CEDU nella parte in cui prevede «salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato», anziché «salvo che il fatto costituisca reato».
Con la medesima ordinanza, inoltre, la Suprema Corte ha proposto, in via subordinata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 4, prot. 7, CEDU, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo grado di giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della CEDU.
1 C. eur. dir. uomo, 20.5.2014, Nikänen c. Finlandia, in relazione ad una ipotesi di doppio binario sanzionatorio (penaleamministrativo) presente nella legislazione tributaria finlandese.
2 C. giust., 9.3.2006, C-436/04, Van Esbroeck, parr. 27-36.
3 C. eur. dir. uomo, G.C., 10.2.2009, Zolotukhin c. Russia, n. 14939/03, parr. 83-84.
4 Allegrezza, S., SubArt. 4, Prot. 7, in Bartole, S.-De Sena, P.-Zagrebelsky, V., a cura di, Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Padova, 2012, 898 ss.
5 C. eur. dir. uomo, 8.6.1976, Engel c. Paesi Bassi, n. 5100/71.
6 Lazzerini,N., Il contributo della sentenza Akerberg Fransson alla determinazione dell’ambito di applicazione e degli effetti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Riv. dir. int., 2013, 907 ss.; Gaeta, P., Gerarchia ed antinomie di interpretazioni conformi nella materia penale: il caso del bis in idem, testo rielaborato della relazione presentata al Convegno sul tema L’interpretazione conforme al diritto dell’UE. Profili e limiti di un vincolo problematico, Rovigo, 14-15 maggio 2014, 17 ss. del dattiloscritto.
7 Cass., 13.1.2014, n. 510, A.S. c.Ministero dell’economia e delle finanze.
8 Cass. pen., 8.4.2014-15.5.2014, n. 20266.
9 Cass. pen., 16.3.2006-3.5.2006, n. 15199.
10 Tripodi, A.F.,Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L’Italia condannata per violazione del bis in idemin tema di manipolazione del mercato, in www.penalecontemporaneo.it, 9.3.2014, 3 s.
11 Flick,G.M.-Napoleoni, V., «Materia penale», giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse, in www.rivistaaic.it, n. 3/2014, 13 s.
12 Tripodi, A.F.,Uno più uno (a Strasburgo) fa due, cit., 3 s.
13 De Amicis, G., Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, in www.penalecontemporaneo.it, 30.6.2014, 24 s.
14 Viganò, F., Doppio binario sanzionatorio e ne bis idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta? (a margine della sentenza Grande Stevens della Corte EDU, in www.penalecontemporaneo.it, 30.6.2014, 21 s.; contra, De Amicis, G., Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio, cit., 24 s.
15 Flick,G.M.-Napoleoni, V., «Materia penale», cit., 12 ss.
16 Gaeta, P., Gerarchia ed antinomie, cit., 21 s.