Diritto dell'UE e della CEDU: novità giurisprudenziali
Il diritto della cooperazione giudiziaria penale sta vivendo un momento di complessa transizione. Il pluralismo delle fonti normative, la differente natura, legislativa e giurisprudenziale, dei relativi centri di produzione e, soprattutto, l’ibridazione che esse tendono inevitabilmente a produrre tra le due culture della civil law e della common law pongono l’attività del giudice interno dinanzi a grandi sfide, obbligando le autorità giudiziarie nazionali a sviluppare forme dirette ed orizzontali di cooperazione, seguendo una linea di costante dialogo con le corti sovranazionali.
Proseguendo nella sua attività di analisi ermeneutica dei rapporti tra il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie – che a sua volta richiede, quale necessaria precondizione, l’affermarsi di un clima di reciproca fiducia tra i diversi Stati membri dell’Unione europea – ed il rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte o interessate dai vari strumenti del mutuo riconoscimento, la Corte di giustizia tende progressivamente ad ampliare il catalogo, e la stessa portata applicativa, delle “nozioni comuni” di rilievo euro-unitario che le autorità nazionali devono assumere quali cardini della propria attività di adeguamento interpretativo dei sistemi nazionali alle finalità ed ai contenuti dei nuovi strumenti di cooperazione giudiziaria penale.
Secondo una costante giurisprudenza della Corte, anche di recente ribadita, le norme di diritto derivato dell’Unione devono essere interpretate ed applicate nel rispetto dei diritti fondamentali, di cui fanno parte integrante i diritti della difesa, in ragione del loro collegamento con il diritto ad un processo equo sancito dagli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza nonché dall’art. 6 CEDU.1
La centralità della tutela dei diritti fondamentali nell’attuale sistematica dei Trattati suggerisce la opportunità, se non addirittura la necessità, di un maggiore spazio operativo delle garanzie riconosciute alle persone coinvolte nelle procedure di cooperazione giudiziaria, attraverso la costruzione di regole frutto di soluzioni interpretative uniformi, che la Corte di giustizia individua al fine di bilanciare le esigenze di efficacia e tempestività dei meccanismi della cooperazione con l’ineludibile rispetto dei diritti fondamentali e dei principii cardine degli ordinamenti nazionali.
Pronunciandosi in merito all’interpretazione dell’art. 23 della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13.6.2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio del 26.2.2009, la Corte di giustizia2 si è soffermata sull’espressione “termine della consegna”, stabilendo che deve essere interpretata nel senso che, in una situazione come quella oggetto del procedimento principale (due tentativi di consegna falliti per la strenua opposizione dell’interessato), l’autorità giudiziaria dell’esecuzione e l’autorità giudiziaria dello Stato di emissione concordano una nuova data di consegna in forza di tale disposizione, qualora la consegna del ricercato, entro un termine di dieci giorni successivi a una prima nuova data di consegna concordata in applicazione della su citata disposizione, sia impedita dalla resistenza ripetutamente opposta dal medesimo, sempreché, a causa di circostanze eccezionali, non fosse possibile prevedere tale resistenza e non fosse possibile evitarne le conseguenze, malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso da parte delle stesse autorità, circostanza, questa, la cui verifica viene dalla Corte opportunamente rimessa al giudice del rinvio.
Seguendo l’impostazione delineata dalla Corte, dunque, il verificarsi di una causa di forza maggiore può giustificare la proroga del termine di consegna solo nei limiti in cui essa implichi che la consegna del ricercato entro il termine previsto venga «impedita». La mera circostanza che la consegna sia resa semplicemente più difficile non può, invece, giustificare l’applicazione della regola sancita nella prima parte della su citata disposizione normativa.
La resistenza opposta da un ricercato alla propria consegna può essere considerata una circostanza anomala ed estranea alle autorità interessate; in linea di principio, tuttavia, essa non può essere qualificata come circostanza imprevedibile: a maggior ragione ove il ricercato si sia già opposto ad un primo tentativo di consegna. Per far fronte alla resistenza opposta dalla persona ricercata, comunque, le autorità interessate possono ricorrere a determinate misure coercitive, nel rispetto delle condizioni previste dal diritto nazionale e dei diritti fondamentali dell’interessato.
Non può tuttavia escludersi che, a causa di circostanze eccezionali, la resistenza opposta dal ricercato risulti oggettivamente non prevedibile e che le conseguenze sulla consegna non siano evitabili malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso da parte delle autorità interessate. In tale ipotesi, troverebbe applicazione la regola sancita dall’articolo 23, par. 3, della decisione quadro, secondo cui, qualora la consegna del ricercato sia impedita da cause di forza maggiore per uno degli Stati membri, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione e l’autorità giudiziaria emittente si contattano immediatamente e concordano una nuova data per la consegna.
Di particolare rilievo, entro tale prospettiva ermeneutica, appare l’ulteriore passaggio argomentativo, secondo cui la regola stabilita dall’art. 15, par. 1, della decisione quadro – ai sensi del quale l’autorità giudiziaria dell’esecuzione decide della consegna del ricercato entro i termini definiti nella decisione quadro – non può essere interpretata nel senso che, dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 23, l’autorità di esecuzione non possa più concordare una nuova data di consegna con l’autorità emittente, né nel senso che lo Stato di esecuzione non sia più tenuto a proseguire il procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo.
Il legislatore dell’Unione, infatti, non ha previsto che la scadenza dei termini precluda alle autorità interessate la possibilità di concordare una data di consegna in applicazione del su citato art. 23, par. 1, ovvero che esenti lo Stato di esecuzione dall’obbligo di eseguire un mandato d’arresto europeo. In caso contrario, infatti, si pregiudicherebbe l’obiettivo di accelerazione e di semplificazione della cooperazione giudiziaria perseguito dalla decisione quadro, giacché tale interpretazione potrebbe costringere lo Stato interessato ad emettere un secondo m.a.e. allo scopo di consentire lo svolgimento di una nuova procedura di consegna entro i termini previsti dalla decisione quadro.
Oltre alle nozioni comuni di “forza maggiore” e “termine della consegna” la Corte di Lussemburgo ha per la prima volta chiarito la nozione di “processo terminato con la decisione”, ai sensi dell’articolo 4 bis, par. 1, della decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo, come modificata dalla su citata decisione quadro 2009/299/GAI, stabilendo che deve essere interpretata nel senso che essa riguarda non solo il giudizio che ha dato luogo alla decisione in appello, ove quest’ultima, dopo un nuovo esame del merito della causa, abbia definitivamente statuito sulla colpevolezza della persona interessata, ma anche un procedimento successivo – come quello che ha portato ad una sentenza che disponeva una pena cumulativa in discussione nel caso di specie – in esito al quale è intervenuta la decisione che ha modificato definitivamente l’entità della pena inizialmente inflitta, nei limiti in cui l’autorità che ha adottato quest’ultima decisione abbia potuto esercitare al riguardo un certo potere discrezionale3.
Ne discende che, ove lo Stato di emissione preveda lo sviluppo di una procedura penale con diversi gradi di giudizio, creando in tal modo i presupposti per l’adozione di decisioni giudiziarie in successione fra loro, almeno una delle quali sia stata resa in contumacia, la nozione di «processo terminato con la decisione» deve essere interpretata nel senso che essa riguarda il solo grado di giudizio all’esito del quale è stata emessa la decisione che ha statuito definitivamente sulla colpevolezza dell’interessato nonché sulla sua condanna ad una pena, quale una misura privativa della libertà, irrogata in seguito ad un nuovo esame del merito della causa tanto in fatto quanto in diritto4.
Ora, nel caso in cui l’interessato non sia comparso personalmente al procedimento rilevante o, eventualmente, ai procedimenti rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art. 4 bis, par. 1, della su menzionata decisione quadro, e le informazioni contenute nel modulo recante il modello di mandato d’arresto europeo ovvero quelle altrimenti ottenute in applicazione dell’art. 15, par. 2, non offrano elementi sufficienti per dimostrare l’esistenza di una delle situazioni ostative espressamente contemplate dall’art. 4 bis, par. 1, lett. da a) a d), della decisione quadro come modificata dalla decisione quadro del 2009, l’autorità di esecuzione dispone della facoltà di rifiutare la consegna.
Ciò nondimeno, tale autorità può tener conto di tutte le circostanze del caso, per assicurarsi del rispetto dei diritti della difesa dell’interessato nel corso del procedimento, ovvero dei procedimenti rilevanti.
Nel caso in questione, ove, in seguito ad un giudizio d’appello nel corso del quale la causa era stata oggetto di un nuovo esame del merito, una decisione aveva definitivamente statuito sulla colpevolezza della persona interessata e le aveva altresì irrogato una pena privativa della libertà, la cui entità era stata tuttavia modificata da una successiva decisione adottata dall’autorità competente dopo aver esercitato il suo potere discrezionale in materia fissando definitivamente la pena, queste due decisioni, secondo la Corte, debbono essere prese entrambe in considerazione ai fini dell’applicazione dell’art. 4 bis, par. 1, della decisione quadro sul m.a.e.
Occorre garantire, infatti, il rispetto dei diritti della difesa sia all’atto della dichiarazione di colpevolezza, sia al momento della statuizione finale della pena, e qualora questi due aspetti, peraltro intimamente correlati, risultino dissociati, le decisioni finali al riguardo adottate devono essere oggetto delle verifiche prescritte da quella disposizione, che mira proprio a rafforzare i diritti processuali delle persone interessate garantendo che il loro diritto fondamentale ad un processo equo sia tutelato: requisiti, questi, la cui verifica viene richiesta sia con riferimento alla dichiarazione di colpevolezza sia riguardo alla fissazione della pena.
Siffatta interpretazione, del resto, non appesantisce il compito dell’autorità emittente, né presenta alcun inconveniente di ordine pratico secondo la Corte di giustizia, poiché il modulo recante il modello uniforme di mandato d’arresto europeo prevede che vengano fornite informazioni concernenti entrambi gli aspetti in questione.
Chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla portata applicativa di una serie di disposizioni della direttiva 2012/13/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22.5.2012, sul diritto all’informazione nei procedimenti penali, la Corte di Lussemburgo ha stabilito la non contrarietà al diritto euro-unitario della normativa di uno Stato membro che, nell’ambito di un procedimento penale, prevede che l’imputato che non risiede in tale Stato membro né dispone di un domicilio abituale in quest’ultimo o nel suo Stato membro di origine è tenuto a nominare un domiciliatario al fine di ricevere la notifica di un decreto penale di condanna emesso nei suoi confronti e che il termine per presentare opposizione avverso tale decreto, prima che quest’ultimo acquisisca carattere esecutivo, decorre dalla sua notifica a tale domiciliatario5. L’art. 6 della su citata direttiva prescrive tuttavia che, nell’esecuzione del decreto penale di condanna, non appena la persona interessata abbia avuto effettiva conoscenza del decreto, essa venga messa nella stessa situazione in cui si sarebbe trovata se tale decreto le fosse stato notificato personalmente e, in particolare, che disponga in toto del termine di opposizione, beneficiando, se necessario, di una rimessione in termini. Spetta al giudice del rinvio vigilare affinché il procedimento nazionale di rimessione in termini, nonché le condizioni cui è subordinato il ricorso a tale procedimento, siano applicati in modo conforme a tali requisiti e che tale procedimento consenta pertanto l’esercizio effettivo dei diritti previsti dalla citata disposizione di cui all’art. 6.
Ulteriori statuizioni ermeneutiche della Corte hanno investito sia la nozione di “emissione della sentenza definitiva” di cui all’art. 28, par. 2, della decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio del 27.11.2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali di condanna (che deve essere interpretato nel senso che esso riguarda solo le sentenze divenute definitive prima della data indicata dallo Stato membro interessato6), sia l’interpretazione della decisione quadro 2008/675/GAI del Consiglio del 24.7.2008, relativa alla considerazione delle decisioni di condanna fra Stati membri dell’Unione europea in occasione di un nuovo procedimento penale, che non si applica soltanto ai procedimenti collegati alla determinazione e all’accertamento dell’eventuale colpevolezza della persona nei cui confronti è esercitata l’azione penale, ma altresì a quelli relativi all’esecuzione della pena per i quali deve essere presa in considerazione la pena inflitta con una decisione di condanna resa precedentemente in un altro Stato membro7.
A tal proposito, infatti, il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie impedisce, secondo la Corte, che la presa in considerazione di una decisione di condanna pronunciata in un altro Stato membro sia soggetta all’attuazione di un preventivo procedimento nazionale, e che siffatta decisione costituisca, a tale titolo, oggetto di un riesame. La su citata decisione quadro, infatti, non mira a far eseguire, all’interno di uno Stato membro, decisioni giudiziarie prese in altri Stati membri. Ne consegue che il giudice nazionale non può riesaminare e modificare le modalità di esecuzione di una decisione di condanna precedentemente resa in un altro Stato membro, e a cui sia già stata data esecuzione, revocando la sospensione condizionale della pena inflitta da tale decisione e trasformando la stessa in una pena detentiva da scontare effettivamente. Né egli potrebbe disporre, a tale titolo, una nuova esecuzione di una pena così modificata.
Ne consegue che l’art. 3, par. 3, della decisione quadro 2008/675 deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, la quale prevede che il giudice nazionale, adito di una domanda volta alla fissazione, ai fini dell’esecuzione, di una pena detentiva cumulativa che prende segnatamente in considerazione la pena inflitta nell’ambito di una condanna anteriore pronunciata da un giudice di un altro Stato membro, modifichi a tal fine le modalità di esecuzione di tale ultima pena.
La Corte di giustizia, in definitiva, ridisegna, attraverso una serie di interventi sollecitati attraverso il fondamentale meccanismo del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE, le linee di un dialogo intergiurisdizionale sugli stessi presupposti, oltre che sulle modalità di applicazione, di strumenti di centrale importanza nel contesto euro-unitario della cooperazione giudiziaria penale, imponendo al giudice nazionale, ed in particolare alla Suprema Corte di legittimità, un vero e proprio sconfinamento dall’angusto perimetro del “diritto oggettivo nazionale” cui allude la disposizione di cui all’art. 65 dell’ordinamento giudiziario8.
Un confronto che, da un lato, richiede un’opera di costante recepimento di tali principi nell’attuazione della normativa interna, ponendo l’attività giurisdizionale in sintonia con la continua evoluzione dell’ordinamento europeo, dall’altro lato esige il ripensamento della stessa funzione nomofilattica della Corte di cassazione, che va diversamente calibrata sulla base di una nuova sensibilità interpretativa, indirizzata alla ricerca di una uniformità innervata da innovative forme di una tutela multilivello necessariamente volta ad ampliare il tradizionale concetto di “diritto interno”.
1 C. giust., 16.2.2017, C 578/16 PPU, C.K.
2 C. giust., 25.1.2017, C640/15, Minister for Justice and Equality c. Tomas Vilkas.
3 C. giust., 10.8.2017, C271/17 PPU, Sławomir Andrzej Zdziaszek.
4 C. giust., 10.8. 2017, C270/17 PPU, Tadas Tupikas.
5 C. giust., 22.3.2017, C124/16, C188/16 e C213/16, Ianos Tranca.
6 C. giust., 25.1.2017, C582/15, Openbaar Ministerie c. Gerrit van Vemde.
7 C. giust., 21.9.2017, C171/16, Trayan Beshkov c. Sofiyska rayonna prokuratura.
8 Orlandi, R., Rinascita della nomofilachia: sguardo comparato alla funzione “politica” delle Corti di legittimità, in Cass. pen., 2017, 2613.